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La recessione alle porte

di Marco Milioni - 21/03/2008

       

 

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La notizia del tonfo della Bear Stearns ha fatto il giro del mondo. Il semi-crac di una delle cinque maggiori banche d'affari americane ha fatto versare fiumi di inchiostro sui quotidiani di mezzo mondo. Ma quanto alle analisi ci sarebbe molto da dire. Per di più i media italiani non hanno approfondito bene l'argomento. Un po' perché non hanno capito, un po' perché la realtà nuda e cruda spaventa i potentati finanziari anche a casa nostra.
Per evitare il collasso del sistema bancario statunitense, la banca centrale del Paese a stelle e strisce è dovuta pesantemente intervenire «per rimodulare le garanzie degli gli asset di BS», si direbbe in perfido slang yuppie. In realtà per evitare il tracollo di una privatissima banca, la banca centrale americana ha dovuto usare i soldi del contribuente per garantire la stabilità, solo temporanea del suo sistema finanziario. Una classica manovra da stato dirigista che messa in pratica dalla nazione vessillo del turboliberismo fa ridere e piangere al tempo stesso. Fa ridere perché i seriosi analsiti finanziari anglosassoni (e i più pacchiani italici) hanno scientemente tenuto mimetizzata la cosa. Fa piangere, perché lo spettro della crisi americana rischia di ripercuotersi a valanga su mezzo mondo.
Ma la questione è ben più profonda. L'intervento della banca centrale Usa (a che titolo il governatore Bernanke adopera i soldi di un ipotetico signor Smith?) è la prova provata del fallimento del capitalismo che in questi anni, privo di altri contropoteri ideologici, si è mostrato per quel che è: uso disinvolto delle risorse degli altri mescolato con la cortina fumogena del conformismo mediatico e del consumismo «annebbiacervello».
Il tutto condito con la violazione sistematica di regole di per sé già allentate da un sistema politico ormai infeudato. Il problema è profondo. Anzitutto perché non c'è la possibilità di andare negli armadi a rispolverare vecchi arnesi della storia come il comunismo. Altro mostro, come il capitalismo, uscito dallo sfintére della rivoluzione industriale. E la prospettiva non è nemmeno quella che si intravede in India e soprattutto in Cina.
In quest'ultimo paese le ideologie, non più utili a mascherare l'essenza del mainstream della società moderna, sono state messe in soffitta dalle elite dirigenti: per loro conta solo il potere, il profitto e il consumo. Tesi antitesi e sintesi di un meccanismo perverso creato dall'uomo che però ha acquisito sostanza extrafisica propria. Si realizza in pieno la teoria sulla sopravvivenza delle organizzazioni di Max Weber.
Difficile dire ciò che ci aspetta. Impossibile come rimettersi a dire che bene che si stava 500 anni fa, come crede qualche asceta della premodernità (cosa diversa dall'antimodernità). Ritorniamo pagani, ritorniamo sotto l'ala protrettrice della Chiesa, ritorniamo comunisti, ritorniamo primitivi.
Fesserie. I processi creati dall'uomo vanno ricondotti dall'uomo stesso alla ragionevolezza (alla Ragione, che non è la la Razionalità della Tecnica). Non esistono sistemi totali per capire il mondo. Bisogna decrescere. Essere meno. Nascere meno. Consumare meno. Liberarsi dei miti della crescita infinita, del consumo del superfluo e cretino. Sembra facile, ma probabilmente è il più forte atto di volontà al quale l'uomo sia stato chiamato. E le possibilità di riuscita sono scarse.