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Non è un paese per vecchi

di Claudio Asciuti - 21/03/2008

 

Cormac McCarthy, classe 1933, considerato attualmente uno degli autori più importanti della narrativa americana, è forse il miglior cantore dell’eclisse del “sogno americano”, inteso qui nei suoi caratteri più rappresentativi di volontà individuale, di nostalgia del passato, di valori di etica e socialità. Di lui si apprezzano l’assoluto riserbo (in un mondo in cui tutti cercano la visibilità, McCarthy si nasconde nella sua casa a El Paso e non concede interviste), la scrittura nervosa, secca, il dialogato e la lingua molto personali, che se da un lato somigliano a quella del miglior Hemingway, fatalmente rimandano a Faulkner e agli scrittori del sud, la complessità strutturale delle sue opere e soprattutto la carica epica, quasi mitopoetica: basti pensare a Meridiano di sangue (1985) o a quella che viene definita la sua “trilogia western” o “Border trilogy” (Cavalli selvaggi, 1992; Oltre il confine, 1994; Città della pianura, 1998) per comprenderne la forza: in un genere che da Zane Gray a Lewis Patten e Louis L’Amour sembra aver detto oramai il possibile, McCarthy riesce a modernizzare stereotipi, a leggere la forza distruttrice dell’uomo e l’imponderabilità del paesaggio, in un equilibrio davvero singolare.
Non è un paese per vecchi (2005) rappresenta invece l’incursione dello scrittore nel territorio noir. Incursione che seppure degna di tutto rispetto, non appartiene a quella linea di romanzi che lo hanno reso grande. Ma il testo è piaciuto ai fratelli Ethan e Joel Cohen, che sceneggiandolo, lo hanno seguito in modo fedele, lasciandolo pressoché inalterato. E per filmarlo, contrariamente all’abituale modo che utilizza spesso il registro ironico o grottesco - basti pensare al celebre Il grande Lebowski (1998) - hanno usato le forme specifiche del noir.
Siamo nel 1980, in un Texas deserto e assolato. Llewelyn Moss (nel film Josh Brolin), veterano del Vietnam, saldatore di nessuna speranza, è impegnato in una battuta solitaria di caccia quando finisce nei pressi di uno scontro a fuoco appena concluso: droga da una parte, soldi dall’altra, automobili, armi e cadaveri ovunque. Deciso a giocarsi il tutto per tutto raccoglie i soldi, senza accorgersi che fra di essi vi è un segnalatore, e torna a casa dalla moglie Carla Jean (Kelly Mac Donald), ma non riesce a resistere all’immagine di uno degli spacciatori moribondi e esce per aiutarlo. Primo errore di una lunga serie, che gli scatenerà contro da un lato i corrieri della droga messicani, dall’altro un killer psicopatico, Anton Chigurh (Javier Bardem) che uccide la gente con una specie di bombola ad aria compressa, sparando bulloni. Sulle tracce di entrambi si mette lo sceriffo Bell (Tommy Lee Jones), oramai prossimo al pensionamento. La storia comincia quindi a snodarsi su diversi binari: la fuga di Moss e di sua moglie, la caccia di Chigurh e poi di un secondo killer (Woody Harrelson), e la ricerca di Bell, che vorrebbe aiutare l’uno e fermare l’altro, ma che per una serie di circostanze avverse fallirà in entrambi i casi. Il romanzo, imprevedibilmente, quando sembra essere ad un punto positivo di svolta opera una deviazione, e quando sembra muoversi in una direzione la cambia: dopo che Moss e Chigurh si sono affrontati a colpi di fucile, e che il killer ha giurato di trovare ed eliminare la moglie, sono i messicani a scovare Moss e a ucciderlo. A Chigurh non resta che riportare i soldi al trafficante che li ha persi, e mettersi in società con lui, non senza aver ucciso Carla Jean come da giuramento, in un brano che forse è uno dei migliori del libro, tutto giocato sui termini del destino e del suo compimento. Bell, che ha seguito le tracce fino a questo punto, capisce di aver a che fare con qualcosa che è più grande di lui, una specie di fantasma che nessuno conosce. E dopo un ultimo dialogo con lo zio, ex-poliziotto costretto da una sparatoria in una carrozzella a rotelle che vive nel profondo del deserto decide di andare in pensione. Un finale nerissimo, dove è il bene ad essere sconfitto mentre il male trionfa.
Protagonista assoluto quindi, al di là delle divagazioni della trama, è lo sceriffo Bell. Eroe tipicamente western, di quel western crepuscolare che è un filone del genere, eroe sconfitto e irrisoluto, si ripropone costantemente il tema del mondo e dei valori perduti, di una comunità solidale, di un mondo in cui gli sceriffi potevano girare disarmati e le cose si risolvevano spesso a pugni. E’ quel che invece i fratelli Cohen perdono di vista, e per motivi strutturali. Nel romanzo la scansione in capitoli è introdotta dalle riflessioni dello sceriffo che s’interroga sul mondo che sta mutando; nel film invece queste sono inserite in dialoghi, e perdono così la loro efficacia, trasformandosi da dettagli personali a considerazioni banali sulla vita e sulle cose.
Ma il film che ne esce fuori, non a caso vincitore di quattro Oscar (miglior film, migliore regia, migliore sceneggiatura non originale, miglior attore non protagonista a Javier Bardem) è una rigorosa messa in atto del romanzo, un’opera a tinte fosche che predilige la messa in scena della violenza, ma una violenza ben distante dall’immagine fracassona e spettacolare che spesso il cinema regala. La violenza dei fratelli Cohen è, per così dire, misurata. La sua misura è innanzi tutto il sangue, che lasciando tracce sulla sabbia porterà Moss nel luogo dello scontro, che scorre liquido sui pavimenti, che cola dalle ferite, che Chigurh controlla sempre che non sporchi i suoi stivali. E’ il corpo, umano e animale, colto nelle sue mutazioni: basti pensare alle immagini dei corpi degli spacciatori e dei loro cani, ripresi subito dopo la sparatoria, e poi a distanza di tempo, quasi mummificati e pietrificati nel deserto; o ai primi piani e ai dettagli di Moss e di Chigurh feriti, con la macchina che indugia sulle loro ferite mentre cercano di ricucirle. Ma soprattutto è la violenza che corrieri della droga e “colletti bianchi” della mala perpetuano attraverso il denaro, vero filo della narrazione a cui tutti anelano; perfino il glaciale Chigurh il cui imperativo categorico, l’uccidere, che scivola spesso in sofismi filosofici nascosti dietro il lancio di una moneta - testa o croce, vita o morte, alla fine lotta per i soldi. I soldi, ci dice McCarthy, e con lui i Cohen, sono il nuovo valore e definitivo della vita americana, al posto di onestà, amicizia, solidarietà. La civiltà odierna, sebbene solo indicata dalle carrellate nelle città di frontiera, nelle case mobili, nel vuoto quotidiano, è un riflesso del grande paesaggio desertico del Texas, unico spazio vitale in cui tutti si muovono, a piedi o a cavallo, che serve a ritrovare nell’allentamento dei nessi che tengono in piedi la società, uno spazio di libertà individuale.