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Caos climatico, si adatteranno da soli?

di Marinella Correggia - 21/03/2008


 

Nicaragua occidentale: molti villaggi usavano il fiume come mezzo di trasporto; adesso è troppo basso per poterlo navigare, così beni di primaria importanza non arrivano più. Essendosi ridotta e tal punto, l'acqua è anche diventata un concentrato di inquinanti, il che aumenta il rischio di colera e altre malattie. Il Bangladesh invece annega. Il previsto innalzamento del livello del mare arriverà a sommergere 22.000 chilometri quadrati di terra, facendo sloggiare almeno 17 milioni di persone, il 15 per cento della popolazione. Per non dire degli abitanti di Tuvalu, le basse isole del Pacifico che nei prossimi decenni spariranno sott'acqua in gran parte; un fotografo giapponese sta facendo il ritratto di 10mila tuvalesi per mostrare agli occhi del mondo chi maggiormente subirà le conseguenze senza averne le colpe. Dove andranno questi rifugiati del clima, calcolabili in decine di milioni anche se da oggi il mondo rinsavisse? Ad esempio l'Australia non ha accettato il reinsediamento di 12mila tuvaliani e la Nuova Zelanda ne accetta a malapena 75 all'anno, nelle quote di immigrazione.
Ma tante persone dovranno fuggire anche dal Sahel africano e da molti altri luoghi, sempre più inabitabili. La vera e propria crisi, secondo l'Institute for Environmental Studies dell'Università di Vrije (Amsterdam) arriverà nel 2030-2040; ma se non ci si prepara fin d'ora, saranno tendopoli immense e violenze a quel punto incontrollabili. Alcuni paesi, particolarmente a rischio, chiedono un riconoscimento internazionale delle migrazioni provocate da fattori ambientali e dei senzapatria resi tali dal clima.
Intanto l'organizzazione ecologista internazionale International Union for the Conservation of Nature (Iucn) ha pubblicato il rapporto Indigenous and Traditional peoples and Climate Change (Popoli indigeni e tradizionali e cambiamenti climatici, http://cmsdata.iucn.org/downloads/indigenous_peoples_climate_change.pdf), il primo studio globale sugli effetti del caos climatico sulle popolazioni indigene. Quelle che da sempre vivono in genere sul filo del rasoio e adesso sono più vulnerabili di altre, dipendendo al massimo grado dagli ecosistemi naturali, occupando in genere terre marginali, e mancando spesso di rappresentanti politici nelle istituzioni. Il rapporto identifica le aree e le popolazioni maggiormente minacciate e però sottolinea che gli indigeni non sono solo vittime: sono stati capaci di adattarsi all'ambiente e a eventi naturali estremi per migliaia di anni in modo creativo, per cui chi elabora le politiche climatiche dovrebbe imparare dalla loro esperienza, incorporandola nelle strategie di adattamento. Il metodo agricolo tradizionale Quezungal, in America Centrale, ad esempio, prevede che si seminino le colture sotto gli alberi così le radici ancorano il suolo e riducono la perdita di raccolti in caso di uragani. Durante gli anni di piogge particolarmente scarse, nell'Africa del Nord si proibisce il pascolo itinerante. In molte civiltà agricole la raccolta e la circolazione dell''acqua avviene tramite canali sotterranei così da impedire l'evaporazione. E via inventando.
Ma si parla di un altro mondo. Come spiega un articolo dell'International Herald Tribune, l'industria e i politici occidentali sembrano preferire soluzioni ad alto costo (oltre a credere molto in quel gioco di carte che è spesso il commercio delle quote di emissione); ignorando chi, soprattutto nei paesi impoveriti, già subisce gli effetti del caos climatico. Insomma, l'adattamento da parte dei poveri non ottiene abbastanza attenzione; si punta alla mitigazione per via tecnologica e «commerciale». I poveri sono lasciati in un certo senso ad adattarsi da soli. Occorrerebbero, secondo l'Iucn, idee di tecnologie pulite ma a basso costo, e non milioni di dollari nella tecnologia di punta. Ci sarebbe un ritorno in termini di salvataggio delle vite umane e preservazione di specie e culture in pericolo, anziché un buon ritorno finanziario in opzioni sul carbonio.