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Home / Articoli / Nigidio Figulo. Un pitagorico nella Roma del I secolo a.C.

Nigidio Figulo. Un pitagorico nella Roma del I secolo a.C.

di Nuccio D'Anna - 25/03/2008

Fonte: saturniatellus

Sottoponiamo alla Sua attenzione la presentazione del libro in uscita
sulla vita, l'opera e le dottrine di Publio Nigidio Figulo, il
fondatore del neopitagorismo romano, astronomo, grande grammatico e
conoscitore come pochi di scienze arcane come l'aruspicina.

Nuccio D'Anna, Publio Nigidio Figulo. Un pitagorico nella Roma del
1° secolo a.C., Roma 2008

Sulla vita e l'opera di Publio Nigidio Figulo fino ad oggi
esistevano solo due monografie ormai datate sia per il tempo
trascorso (1931 e 1962), sia per la quantità e la qualità del
materiale che nel frattempo è emerso, materiale in grado di
lumeggiare aspetti degli scritti nigidiani che rischiavano di restare
muti. La presente è la terza monografia esistente al mondo che studia
nel suo complesso il sistema dottrinale di Nigidio Figulo secondo i
fondamenti rituali, cosmologici, "teologici" e linguistici quali
emergono con chiarezza in tutte le sue opere.

* * *
== Lo studio attento delle opere di Publio Nigidio Figulo consente di
fare emergere una profondità e una complessiva coerenza speculativa
solitamente considerata poco usuale nel mondo romano e ignorata da
molti esegeti di Nigidio. In realtà, la personalità del fondatore del
pitagorismo romano appare complessa, certo non assimilabile ai
tanti "astrologi", "magi" e "caldei" che circolavano numerosi in
città nel periodo del tramonto della Repubblica. Al contrario,
pensiamo di aver dimostrato che non solo la quantità e la qualità dei
suoi scritti, ma la sua stessa attività politico-culturale può
agevolmente essere comparata a quella di un Varrone, del suo amico
Cicerone o a quella dello stesso Cesare, anch'egli tipico
rappresentante di una cultura come quella romana che non intendeva
affatto estraniarsi dal mondo, ma trovava nella vita politica e
nell'azione rituale il momento di sintesi intesa a trasformare la
storia in un realtà capace di parlare un linguaggio sacrale, di
diventare il "luogo" di realizzazione di quella pax deorum tanto
inseguita dai Romani di ogni tempo.
Il primo elemento che emerge dall'analisi dei testi nigidiani è il
rilievo non secondario che ha avuto la sua attività pubblica. La
carriera politica di Nigidio appare complessa, anche se probabilmente
fu molto simile al cursus honorum seguito dai rampolli delle "buone"
famiglie romane. Pretore, questore, tribuno della plebe, legato nei
piccoli regni a cultura "magusea" del Vicino Oriente e infine
senatore: un seguito di magistrature che pur indicando una
progressione politica certamente importante, non è certo dissimile da
quanto doveva essere usuale nelle famiglie patrizie della Roma delle
grandi conquiste, la Roma pre-imperiale. E tuttavia, anche rispetto
ad altri personaggi di rilievo, le fonti indicano un sovrappiù di
Nigidio, una saggezza ed un equilibrio che devono aver arricchito la
sua funzione pubblica e, stando alla testimonianza di Cicerone, ne
hanno reso l'apporto molto prezioso in alcuni momenti di acuta crisi
delle Istituzioni. La sua drittura e il rigore indiscusso ne avevano
fatto un punto di riferimento importante, persino decisivo quando per
es. la congiura di Catilina fece temere per le stesse sorti dello
stato. Nigidio rimase sempre fedele al mondo patrizio e conservatore
che si illudeva di vedere ancora in grado di restituire splendore
alle antiche e venerate istituzioni repubblicane. E quando i tempi
cambiarono e l'apparizione di personalità complesse e nuove come
quella di Giulio Cesare imposero cambiamenti epocali, Nigidio
continuò a difendere il mondo al quale apparteneva e aveva protetto
con tanto ardore. A Farsalo, quando si decise la storia futura del
mondo romano, si trovava accanto a Pompeo e ai tanti aristocratici,
senatori e magistrati che lo avevano seguito. Non solo, ma se è
permesso dedurre qualcosa dalla contemporanea presenza accanto a
Pompeo del suo confratello aruspice Arrunte, mentre con Cesare si
erano schierati Spurinna e Vulcazio, è probabile che la scelta di
campo di forti e spiritualmente qualificate personalità come Nigidio
abbia indotto anche gli aruspici del sacro Collegio a dividersi nei
due campi contrapposti. E' un fatto che non dovrebbe essere
minimizzato, forse in grado anche di aiutarci a spiegare un aspetto
dell'ostinato ed in sé incomprensibile divieto dei vincitori che non
permetterà mai all'illustre concittadino di essere graziato come
tanti altri pompeiani, senz'altro politicamente più influenti e
militarmente più compromessi, e tornare a Roma.
E tuttavia l'azione politica di Nigidio è solo una parte (la più
evidente per il rilievo che ha assunto nella corrispondenza di
Cicerone), ma non la più importante, del suo impegno nella vita dello
stato. Nigidio fu anche un importante protagonista delle vicende
spirituali di Roma, un aruspice che seppe conciliare antiche e
venerate tradizioni con forme spirituali particolari che sembrano
persino essersi profondamente radicate nella struttura religiosa
romana. Il sistema speculativo che emerge nelle sue numerose opere
lascia affiorare una profonda attenzione per il significato della
dimensione divina, per la vita rituale, per forme di realizzazione
spirituale e per dottrine che unanimemente gli antichi riconducevano
al suo interesse per il pitagorismo. E' un dato che non può essere
considerato secondario. Non c'è frammento o testimonianza che non
evidenzi questa sua appartenenza, non ricordi il suo Sodalicium
pythagoricum o che addirittura non rivendichi il suo ruolo
di "restauratore" (renovaret, scrisse di lui l'amico Cicerone) del
pitagorismo romano.
Il sistema dottrinale pitagorico con la sua rappresentazione della
rota mundi, con l'indicazione del significato della fascia zodiacale
e con la sua complessa interpretazione astrale dei miti e delle
leggende ha senz'altro costituito uno degli elementi portanti della
sua speculazione. Il mito diventa la raffigurazione plastica di
alcuni eventi cosmici e consente a Nigidio non solo di disegnare la
stessa struttura delle costellazioni zodiacali, ma di inserirla in un
sistema molto ampio che ne rapporta il ciclo allo stesso movimento
dell'intero cerchio cosmico, alla rota mundi. Ne emerge una
rappresentazione del mondo e una serie di movimenti astrali che è
possibile comprendere solo nell'ambito di un quadrante celeste molto
arcaico, simile a quello che supponevano i più antichi cosmologi
dell'Ellade, quando lo stesso disporsi delle costellazioni che
andranno a costituire l'attuale zodiaco veniva spiegato attraverso
una serie di miti che dovevano indicare l'ordine astrale, il
significato simbolico e persino l'influenza sulle vicende umane. E
tuttavia, nonostante l'esiguità dei frammenti rimasti, si può
affermare che la dottrina astrale di Nigidio è solo in parte
rapportabile a quella formulata nei racconti leggendari quali furono
raccolti da alcuni mitografi. Anzi, una serie di mitologhemi ripresi
da fonti per noi solo parzialmente intellegibili, delinea una
struttura del cosmo e lo stesso movimento di alcune costellazioni in
una prospettiva che sembra potersi accostare alle formulazioni più
antiche delle similari dottrine astrali caldee ed egizie.
Gli stessi sparuti cenni alla sua azione rituale permettono di
aggiungere che il suo pitagorismo si sostanziava di una vita rituale
che continuava quella degli antichi pitagorici, prolungava quelle
forme di realizzazione spirituale che avevano reso la confraternita
di Crotone così diversa dai soliti circoli filosofici, la rendevano
molto prossima ai tanti sodalzi, alle consorterie e alla quantità non
definibile di heterie a carattere misteriosofico che numerose avevano
percorso l'Ellade arcaica.
Accanto ai fondamenti pitagorici che sostanziano le dottrine astrali,
il simbolismo e molta parte della sua stessa attività politica, nelle
opere di Nigidio emerge anche una solida tradizione rituale
riconducibile all'arcaico mondo etrusco-latino e a quegli aspetti
assolutamente fondamentali della religione romana che ne continuavano
la vitalità, tuttavia non sempre chiaramente classificabile
all'interno del complesso pantheon dell'Urbe quale emerge attraverso
le divinità più importanti. Si tratta di un complesso di divinità
cosiddette "minori" che, insieme, contribuivano a rendere vitale
quella specie di religio secunda così importante per i singoli, per
lo stato e per il sofisticato sistema di scienze spirituali
(divinazione, aruspicina, scienza augurale, etc.) che a Roma
alimentavano ogni scelta politica e ogni decisione dei governanti.
Questo retroterra rituale etrusco e antico-italico è senz'altro
presente in Nigidio, ha fecondato molti suoi interventi politici,
giustifica la sua stessa appartenenza al venerato Collegio dei LX
aruspici e sostanzia molti aspetti dei suoi scritti.
Il terzo elemento che arricchisce l'opera di Nigidio e la rende così
diversa da quella pur importante del suo contemporaneo Varrone, è
l'apporto delle dottrine dei "Magi ellenizzati" da lui conosciute
sicuramente durante i suoi viaggi in Asia Minore e in Grecia. Anche
qui, quell'attribuzione di "mago" che qualche sprovveduto studioso
d'inizio Novecento confondeva con il tipo del "mago naturalista"
rinascimentale, trova significato non in una incomprensibile,
spregiativa o bizzarra nomèa, ma in un preciso ruolo dottrinale e in
un sistema speculativo al quale Nigidio si rifaceva, e che per molti
Romani colti costituiva un conosciuto e consapevole punto di
riferimento. La sintesi che Nigidio opera di questi elementi
dottrinali così sofisticati e particolari (pitagorismo, antico mondo
etrusco-latino e dottrine dei "Magi ellenizzati") ha reso i suoi
libri adatti solo ad una esigua èlite, studiati come una specie di
residuo oracolare di un mondo arcaico, persino formulati con svelti
tratti di tipo mnemonico attestati da Gellio, che rimandano al loro
valore rituale. Erano testi poco idonei alla diffusione e custoditi
con tale discrezione che ne ha procurato prima l'oblio, poi la
perdita.
Più che il famoso "astrologo" della vulgata, il presente studio ha
permesso che potesse emergere l'immagine di un Nigidio quale sapiente
ancorato pienamente alla propria tradizione spirituale. Il ruolo di
aruspice che arricchiva la sua funzione religiosa all'interno della
vita rituale romana, il suo "pitagorismo", l'attributo
di "mathematicus" (ricordato anche da Sant'Agostino e col quale gli
antichi delimitavano quasi sempre competenze astronomiche
riconducibili ad un ambito pitagorico) ne facevano un personaggio
unico; le stesse sue capacità divinatorie tanto esaltate dagli
antichi, così estranee al nostro modo di concepire la funzione sacra,
si inserivano perfettamente nelle modalità romane di vivere il sacro,
di interrogare il divino, di contemplare il mondo come una continua
teofania che gli uomini dovevano semplicemente intendere.
Da tempi immemorabili i Romani assimilavano la lingua latina allo
stesso linguaggio che i Fauni e i Veggenti arcaici avevano usato per
svelare il significato del mondo. La funzione oracolare del latino,
la sua assoluta inscindibilità dalla "lingua divina" parlata dai
primordiali abitatori della Saturnia Tellus ("la terra di Saturno",
il re dei primordi che aveva lasciato un arcaico mondo che
versificava secondo il "verso saturnio"), faceva sì che
l'articolazione sintattica del latino, l'accentuazione, i fonemi e le
forme stesse della sua struttura scritta e parlata costituissero una
specie di "veicolo di rivelazione" che si doveva, semplicemente,
comprendere. Il trattato grammaticale di Nigidio, quello che assieme
allo scritto sull'astronomia ha suscitato il più attento interesse
nel corso dei secoli, trova in quest'ambito rituale la sua
giustificazione. Come il De lingua latina di Varrone, il
bibliotecario di Cesare al quale in questa funzione sacra era stata
affidata la custodia delle tradizioni avite, anche Nigidio scrisse un
testo in grado di elencare gli elementi fondamentali di un antico
linguaggio che contemporaneamente costituiva il veicolo espressivo
quotidiano, la lingua dotta, la base delle rivelazioni oracolari e la
lingua liturgica. La sapiente sintesi di significato semantico,
corretta pronuncia delle parole, attenta costruzione sintattica e
precisa accentuazione dei termini mostra la sua attenzione verso un
latino ritmato su forme musicali per noi ormai irrimediabilmente
perdute. E' molto probabile che la formulazione del suo lungo
trattato grammaticale (ben XXX libri !) abbia risposto più ad una
necessità rituale capace di sostanziare l'articolazione degli arcaici
sacri carmina, che non alla semplice analisi dotta di alcune
strutture linguistiche desunte dal patrimonio lessicale del contado
presso cui, comunque, si riteneva che i più antichi fonemi e la loro
stessa esatta pronuncia si erano conservati con caratteri di grande
stabilità e con pochissime variazioni.
Come Varrone, Cicerone, Virgilio, Tito Livio, Orazio e lo stesso
Cesare, anche Nigidio appartiene a quel vasto mondo di raffinata
cultura, ma ben radicato in una intensa vita rituale, che aveva
conservato memoria dei fondamenti spirituali, dottrinali e rituali
che avevano consentito a Roma di realizzare la pax deorum e di
diventare per un intero ciclo umano un vero umbilicus mundi.