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Semi, guerre e carestie - Capitolo III

di Romolo Gobbi - 25/03/2008

3. Le nascite dell’Agricoltura
Nonostante le prove dell’inesistenza di un problema di sovrapopolazione alla fine del Mesolitico, questa tesi venne riproposta più volte perché permetteva di dare una spiegazione razionale alla nascita dell’agricoltura. E così il mito del grande cervello che aveva consentito a homo di fare notevoli progressi tecnologici e di produrre anche prime forme di arte, potette manifestarsi di nuovo nella cosiddetta “rivoluzione neolitica”, la scoperta dell’agricoltura. La molla sarebbe stata l’innata tendenza di homo all’aumento della produttività del proprio lavoro, anticipando di millenni lo spirito del modo di produzione capitalistico: “Pressioni demografiche hanno predisposto i nostri antenati dell’età della pietra a intensificare la produzione, in risposta al ridursi del numero di animali da caccia grossa provocato da mutamenti climatici alla fine dell’ultima era glaciale. L’intensificazione del modo di produzione basato sulla caccia e raccolta ha aperto a sua volta la strada verso l’agricoltura, che ha quindi intensificato la competizione fra i gruppi, la guerra e lo sviluppo dello Stato…” (1). Inconsciamente la difesa dell’agricoltura come scoperta razionale di homo si trasforma automaticamente in apologia della civiltà occidentale. Questa interpretazione della nascita dell’agricoltura, nonostante le prove contrarie delle ricerche più recenti, continua a ispirare i compilatori dei manuali universitari: “Le prime semine, probabilmente in seguito all’osservazione del fenomeno naturale della germinazione, sganciando l’uomo dalla necessità di continui spostamenti alla ricerca di tuberi e radici, lo legano al territorio [….]. Questo evento segna una svolta cruciale nel destino dell’uomo. L’introduzione dell’agricoltura che caratterizza quella che è stata riferita ‘la rivoluzione neolitica’ ha delle enormi conseguenza sul percorso evolutivo dell’uomo” (2). Sull’enormità delle conseguenze non si può discutere, mentre invece si dovrà contestare la valenza positiva di tali conseguenze. Il Professore Universitario immagina la scoperta dell’agricoltura come il risultato di una ricerca empirica, quasi fosse condotta in un gabinetto scientifico, ma, secondo altri, “Le latrine potrebbero essere stati i laboratori dei primi, ignari contadini” (3). Forse la prima germinazione spontanea fu osservata in siti molto più “umani” dai semi interrati con le prime sepolture, una delle manifestazioni dell’evoluzione umana, tanto più perché, essendo accompagnate da ornamenti e cibo, lasciavano intuire che homo fosse arrivato a concepire una vita ultraterrena. Ma chiunque sia stato lo scopritore, e per quanto sapiens sapiens egli fosse, il percorso cognitivo, che va dalla prima germinazione spontanea alla previsione di una messa a dimora di più semi per sfamare una crescente popolazione, richiede una complessità di passaggi inconcepibile. Intanto la previsione che dalla spiga di teosinte, lunga due centimetri, sarebbe derivata una pannocchia di granoturco lunga quindici centimetri, rasenta la divinazione, tanto più che “per quanto riguarda il Nuovo Mondo, non ci sono testimonianze di una crescita della popolazione precedente alla produzione del cibo.” (4).
Un modo per preservare comunque lo schema sovrappopolazione-nascita dell’agricoltura, è stato quello di ipotizzare una sovrappopolazione limitata ad alcune aree geografiche costiere, dove nell’era post-glaciale si sarebbero stanziati i sapiens sapiens per l’abbondanza di cibo. Da qui l’emigrazione della popolazione sovrabbondante verso aree interne più povere dove sarebbe nata l’agricoltura. Ma anche quest’ipotesi non è stata confermata dalle ricerche successive, che hanno dimostrato l’inesistenza di differenze demografiche tra le popolazioni del pre-neolitico. L’insistenza sullo schema sovrappopolazione-nascita dell’agricoltura è tuttavia irrinunciabile, perché è l’unico che ponga delle basi razionali a un passaggio rivoluzionario nell’alimentazione umana e nei modi di procurarsi il cibo. E dire che un’ipotesi razionale per la nascita dell’agricoltura era stata avanzata da tempo da uno dei maestri del razionalismo, Friedrich Engels: “E’ più che verosimile che la cerealicoltura sia sorta qui per la prima volta dal bisogno di foraggio del bestiame, e che solo più tardi abbia acquisito importanza per l’alimentazione umana.” (5). Peccato che la domesticazione degli animali sia avvenuta in modo sistematico dopo che la produzione di cereali veniva fatta per l’alimentazione umana: “Pecore e capre furono così tenute ai margini dei campi di grano e fu permesso loro di cibarsi delle stoppie ma non del grano maturo. I cacciatori, insomma, non dovettero più andare a cercare gli animali; questi, attratti dai campi dov’era concentrato il cibo, andarono verso i cacciatori” (6). Eppure la soluzione: prima l’allevamento del bestiame e poi l’agricoltura, non solo era più logica, ma era anche più naturale perché homo per più di un milione di anni si era nutrito di carne, e l’addomesticamento di animali non doveva essere così difficile, visto il successo dell’allevamento dei cani e dei porcellini d’india nel Nuovo Mondo.
Ma allora, perché si sviluppò l’agricoltura, visto che non c’era sovrappopolazione, e l’abbondanza di carne era facilmente assicurabile con l’addomesticamento degli animali? Apparentemente non esiste una risposta globale per la nascita dell’agricoltura. A ulteriore complicazione del problema, bisogna anche tener conto che l’agricoltura è nata più volte, in tempi diversi e in diverse parti del globo. La prima zona in cui fu “inventata” l’agricoltura fu quella della “mezzaluna fertile”, tra Turchia, Iraq, Siria, Giordania e Israele, 10.500 anni fa: i principali prodotti furono il grano e l’orzo. Da questa zona l’agricoltura si estese all’Europa, in parte all’Africa, per arrivare fino all’India. In Cina l’agricoltura fu scoperta due volte: la prima 10.000 anni fa quando, nelle steppe del nord, venne coltivato il miglio; la seconda, 9.000 anni fa, nella Cina centrale, con la cultura del riso. In America l’agricoltura nacque almeno tre volte: 10.000 anni fa nelle Ande, con la coltivazione della patata; 7.000 anni fa in Mesoamerica, dove si coltivarono il mais, i fagioli, le zucche e i peperoncini; 4.000 anni fa nell’America del Nord-Est, con coltivazioni da orto.
Probabilmente ci furono anche altri luoghi e altri inventori dell’agricoltura in giro per il mondo; se tutto ciò da un lato impedisce la scoperta di una ragione universale per la nascita dell’agricoltura, dall’altra liquida definitivamente lo schema semplicistico della “rivoluzione neolitica”: non si è mai vista una rivoluzione che scoppi da più parti, anche se qualcuno può averlo sperato, e soprattutto che duri 6.000 anni. Innanzitutto un comportamento umano così generalizzato, solo in parte trasmesso per via culturale, potrebbe solo essere sostenuto su base genetica, ma per ora nessuno ha scoperto il gene dell’agricoltura. Anche se questo gene potrebbe esistere, visto che formiche tagliatrici di foglie, da sempre, costruiscono nei loro nidi sotterranei delle lettiere di pezzi di foglie sulle quali coltivano i funghi con i quali si nutrono. Altre formiche “allevano anche afidi e cocciniglie, da cui traggono la melata” (7). Dunque sarebbe stato naturale per homo, che per centinaia di migliaia di anni si era nutrito di carne, passare a un’alimentazione a base di vegetali, ma tutta una serie di intolleranze alimentari ci dimostrano che il passaggio non fu facile, e in certi casi non è ancora definitivamente compiuto. Un’alimentazione a base di frumento può scatenare, in chi è intollerante a una sua proteina, il glutine, il morbo celiaco; questa intolleranza è tanto più frequente nelle popolazioni che per ultime hanno coltivato il frumento (8). L’alimentazione a base esclusivamente di riso può portare il beri-beri, per carenza di vitamina B2, quella basata sul mais può far ammalare di pellagra, per mancanza di vitamina PP; in questi casi l’integrazione con altri cibi contenenti le vitamine mancanti nell’alimento base evitano l’insorgere della carenza. Un’intolleranza che invece non è eliminabile è il cosiddetto “favismo”, o anemia emolitica immunitaria, che colpisce coloro che ne sono affetti dopo aver ingerito fave. Esistono anche altre intolleranze minori, così come numerose sono le allergie provocate da vegetali, tramite ingestione, inalazione o contatto.
Tutto questo, se non fa venir meno la “naturalezza” dell’adozione dell’agricoltura da parte dei sapiens sapiens, gli procurò notevole fastidi: “L’uso eccessivo di cereali ingenera, molto probabilmente, effetti negativi sulla salute delle popolazioni. Si riscontra infatti un aumento dei sintomi legati a carenze o deficienze alimentari. Paradossalmente, nel vicino Oriente (come in America, ai primordi dell’agricoltura) il passaggio all’economia di produzione alimentare avrà come conseguenza una diminuzione dell’aspettativa di vita alla nascita”(9).
Ma, oltre a questi “inconvenienti”, l’adozione dell’agricoltura significò anche la necessità di superare gli ostacoli oggettivi che la Natura pone a chi vuole, in qualsiasi modo e in qualsiasi tempo, costringerla a modifiche genetiche. Intanto, delle circa 200.000 specie vegetali, la maggior parte è legnosa, non a portata dell’apparato dentario umano, e inoltre l’intestino umano non è in grado di scomporre la cellulosa per trarne nutrimento. Esistono poi specie dannose per l’uomo, e alla fine i vegetali commestibili sono poche migliaia: “e solo poche centinaia sono state in qualche misura domesticate. Inoltre gran parte di queste ultime sono povere di sostanze nutritive, e non sono in grado di sostenere una popolazione. Alla fine, ci accorgiamo che solo una dozzina di specie vegetali costituisce più dell’ottanta per cento del raccolto annuo sulla terra: sono cinque cereali (grano, mais, riso, orzo e sorgo), un legume (la soia), tre tuberi (patata, manioca e patata dolce), due piante zuccherine (la canna e la barbabietola da zucchero), e una pianta da frutto (la banana). I cereali forniscono da soli più della metà delle calorie consumate dalla popolazione mondiale” (10). Già di per sé la selezione delle piante utili in un così vasto repertorio deve aver rappresentato una notevole difficoltà, anche se le esperienze millenarie della caccia e raccolta possono aver semplificato agli “scopritori” dell’agricoltura la scelta giusta. Ma anche così le scelte non furono facili: il teosinte, l’antenato del granturco, non fu l’unico a partecipare allo sviluppo del mais, infatti dovette essere ibridato con “una razza primitiva di granturco a cariossidi piccole e dure, e riveste da glume […]. E’ stata insomma l’ibridazione con il teosinte perenne, probabilmente circa 4.000 anni fa, ad aver scatenato l’esplosiva evoluzione del granturco come pianta coltivata” (11). Sia che questa ibridazione sia avvenuta spontaneamente, sia attraverso l’intervento umano, sono evidenti le doti di preveggenza e di determinazione di chi iniziò la coltivazione dei due antenati del mais. Anche le altre piante coltivate non si presentavano così come sono, erano molto diverse, come dimensione e comunque molto meno ricche di nutrimento. Dunque la scelta di sapiens sapiens di coltivare queste piante deve essere stata presa senza alcuna valutazione economica, ma con una forte tensione emotiva: “Ma il passaggio all’agricoltura è anche legato a un mondo di valenze simboliche e rituali” (12). Pertanto le prime piante domesticate sarebbero state quelle da utilizzare in feste e riti religiosi per celebrare il mistero della germinazione nascosta dei semi. Tanto più se questi semi, casualmente abbandonati in recipienti contenenti acqua, si trasformavano in una bevanda inebriante: la birra. Per quanto riguarda il vicino Oriente, si è giunti: “a ipotizzare che la coltivazione dei cereali possa essere stata legata non tanto al consumo alimentare, quanto alla produzione di birra usata nei banchetti e nelle feste. Prodotti come la birra e il tabacco sono centrali in molte feste competitive in molte parti del mondo.”(13)
La birra venne prodotta in Cina con il riso o il miglio, in Africa con il “noog oleoso”, un tipo di miglio, in Mesoamerica con il mais masticato e poi lasciato fermentare, la chicha. In Messico, presso i Tarahumara, :”in occasione della ‘festa della birra’, ogni famiglia lavora intensamente (con l’aiuto dei vicini che sopraggiungono per l’occasione) alla preparazione in grande quantità del tesquino, una birra ricavata dal mais”. (14) Anche le prime ceramiche sono state usate per la preparazione della birra: “In ogni caso, vasellami in ceramica dovevano servire anche per la preparazione e la conservazione di bevande fermentate, consumate in circostanze festose e rituali […]. Recentemente alcune analisi chimiche sui depositi rimasti sul fondo di una giara di un sito risalenti al Neolitico Iraniano (5.500 a.C.) lo hanno confermato, dimostrando che il consumo di bevande alcoliche, e in particolare di birra, ha origini decisamente antiche (15). Questa interpretazione dell’origine dell’agricoltura, e le prove che l’hanno confermata presuppongono: “che l‘agricoltura nasca in contesti di abbondanza, e non, al contrario, di carenze di risorse, di stress alimentare e di pressione demografica” (16).
Ma vi sono ulteriori conferme che la nascita dell’agricoltura in diverse parti del globo non fosse spinta dalle leggi della domanda e dell’offerta, ovvero che la domanda riguardasse dei beni più attinenti alla sfera emotiva che a quella economica. Innanzitutto tra le prime piante coltivate vi furono la coca nelle Ande, e un narcotico detto chat in Etiopia, senza contare che erano note da tempo immemorabile le sostane allucinogene come quella contenuta dal peyote, un cactus che cresce in Mesoamerica. Un’altra pianta coltivata in Mesoamerica fin dall’origine dell’agricoltura fu l’agave, dalla cui polpa fermentata si ottiene una bevanda alcolica, il pulque, e dalla stessa pianta, ma questo può essere avvenuto più tardi, si distilla la tequila. La ragione ufficiale per la coltivazione dell’agave è che dalle sue foglie ricavano fibre che possono essere intrecciate per vari usi. Ma non si possono immaginare usi alternativi per la pianta del caffè, che venne domesticata in Etiopia, e il cui valore nutritivo è nullo, ma dalla quale si può ricavare la nota bevanda eccitante. Altrettanto si può dire della pianta del cacao, con un potere nutrizionale assai poco elevato che venne domesticata attribuendole dei valori mitici, dono del Dio Quetzalcoatl, che rendevano preziosi i suoi chicchi quanto un gioiello al punto da sostituire il denaro per gli scambi con altre merci. Un’altra pianta senza alcun valore nutritivo, il tabacco, fu domesticata nel Nuovo Mondo; il suo uso in cerimonie rituali è noto (calumet della pace), ma è altrettanto noto il danno infinito provocato dal fumo delle sue foglie. La canapa, coltivata per la prima volta in Cina come pianta da fibre, ebbe una vasta diffusione e dalla varietà coltivata in India e in Persia vengono usate le foglie per ricavare la marijuana, e dalla resina l’hashish. La coltivazione della canapa aveva come scopo principale l’uso del suo fusto per trarne fibre tessili, ma l’uso a fini allucinogeni è diventato prevalente, al punto che intere popolazioni vivono della sua produzione, e molti altri campano con la sua distribuzione.
Non ebbe alcun bisogno di domesticazione il papavero, un infestante ubiquitario che però nella varietà Papaver somniferum venne coltivato intensamente per ottenere l’oppio con incisioni delle sue capsule immature. Anche la coltivazione i questa varietà di papavero da oppio occupa intere popolazioni in Asia, e procura denaro a molti trafficanti. Della coca già si è detto che la domesticazione avvenne nell’America del Sud, ma la sua produzione continua tutt’oggi, nonostante i divieti e le distruzioni, e ha provocato una guerra civile in Colombia, il principale paese produttore. Quindi non necessariamente le motivazioni per l’inizio dell’agricoltura sono collegate alla nutrizione.
Un’altra domesticazione più tarda, che avvenne attorno al 4.000 a.C., fu quella della vite in area mediterranea. Anche in questo caso il potere divinatorio dei primi contadini che la piantarono dovette essere molto accentuato, visto che i primi grappoli erano molto più piccoli degli attuali; è dunque molto probabile che la sua coltivazione sia cominciata dopo la scoperta del potere euforizzante della bevanda tratta dai suoi frutti. Mentre non esistono stime ufficiali sull’entità della produzione di piante stupefacenti, è invece noto che la produzione attuale annua di uva, di 60 milioni di tonnellate, è all’ottavo posto tra i prodotti agricoli. Altrettanto noto è il danno prodotto dall’abuso di vino: mezzo litro al giorno può determinare dipendenza, e soprattutto all’abuso di superalcolici derivati dall’uva (grappa), ma anche dalla fermentazione di tutti i cereali, tuberi e frutti prodotti in tutte le parti del mondo. Nei paesi occidentali avanzati, i padroni del mondo, si tende a minimizzare i danni derivanti dall’abuso di alcool, perché questa è la droga principale e primigenia della “civiltà” occidentale. Mentre si combatte l’uso delle droghe, e si penalizza l’uso del tabacco, non esiste una specifica lotta con l’alcool; ovvero non esistono bottiglie che portino come scritta obbligatoria: “Nuoce alla salute”. Si potrebbe fare una mappa del globo individuando le zone di influenza delle varie sostanze allucinogene, stupefacenti o euforizzanti: l’Occidente è figlio dell’alcool, l’Estremo Oriente è zona di produzione e diffusione dell’oppio, il Vicino Oriente, dove il vino fu inventato, ma dove ora è vietato dall’Islam, rientra nell’area di influenza dei derivati della canapa indiana, l’America del sud è il regno della coca. Un dato inesistente, per ovvie ragioni, è quello dell’incidenza di tutte queste sostanze sull’economia globale, il primo settore in cui la globalizzazione è ormai completata. In assenza di dati, basti pensare che la massa di denaro sporco correlata alla circolazione di queste sostanze è probabilmente in assoluto più elevata di quella dipendente da qualsiasi altro traffico: un’indagine sulle sterline circolanti in Inghilterra ha dimostrato che il 90 per cento di esse portava tracce di stupefacenti.
Va quindi demistificato il mito della nascita dell’agricoltura come scelta razionale, all’interno del più grande mito del progresso inarrestabile di homo sapiens sapiens, e ribadita invece l’importanza che hanno nelle decisioni umane gli elementi irrazionali. L’origine mitica della coltivazione dell’uva ha una conferma nel libro sacro dell’Occidente cristiano: “Or Noè, ch’era agricoltore, cominciò a piantare le vigna, e bevve del vino e s’inebriò e si scoperse in mezzo alla sua tenda. E Cam, padre di Canaan, vide la nudità del padre suo…[Gen,9,20-2]. E dire che lo stesso libro, a proposito dell’agricoltura, dà un’interpretazione tutt’altro che idilliaca: “Perché hai dato ascolto alla voce della tua moglie, e hai mangiato del frutto dell’albero circa il quale io ti avevo dato quest’ordine: Non ne mangiare, il suolo sarà maledetto per causa tua; ne mangerai il frutto con affanno, tutti i giorni della tua vita. Esso ti produrrà spine e triboli, e tu mangerai l’erba dei campi; mangerai il pane con il sudore del tuo volto, fin che tu ritorni nella terra donde fosti tratto; perché sei polvere e in polvere ritornerai.” [Gen,3,17-9] (17). Anche la mitologia non cristiana è ricca di divinità della birra e del vino, e in primo piano si trova il culto di Dioniso, chiamato anche Bacco, Dio greco del vino e del delirio mistico. Al suo culto, di origini tracie o frigie, si fa risalire la nascita della tragedia greca: anche questa manifestazione dell’arte umana può dunque essere fatta risalire a una matrice religiosa.
Invece una scelta razionale è stata fatta da tutti quei popoli che in passato e ancora oggi hanno rifiutato di adottare l’agricoltura, non sentendone la necessità: dai Tuareg del Sahara ai Boscimani del Kalahari, ai “Khoisan del Sud-Africa, il cui habitat di tipo mediterraneo ha ostacolato l’arrivo delle culture tropicali dei vicini Bantù; e gli Aborigeni australiani, separati dal mare dalle comunità agricole dell’Indonesia e della Nuova Guinea.” (18). Gli aborigeni australiani costituiscono l’esempio più vistoso di quale dovesse essere l’atteggiamento di homo prima dell’adozione dell’agricoltura: “All’interno di questi domini il rapporto tra uomo e piante è mediato non solo da conoscenze approfondite sulle piante e gli animali che li popolano, ma anche da un sistema di credenze e di valori. In base a essi il concetto di domesticazione si estende anche ad entità che esulano dall’ambito delle scienze occidentali, cioè dalle presenze spirituali che esistono all’interno di un territorio.” (19).

1) M. Harris, op. cit, pag. 18
2) G. Spedini, op. cit. pag. 192
3) J. Diamond, Armi, acciaio e malattie, Einaudi, 1998, pag. 88
4) F. Giusti, La nascita dell'agricoltura, Donzelli Ed., 1996, pag.12
5) F. Hengels, L'origine della famigli, della proprietà privata e dello stato, Editori Riuniti, 1963, pag. 55
6)M. Harris, op. cit., pag. 38 - 39
7) R. Chauvin, La società degli animali, Laterza, 1984, pag. 74.
8) Piazza & Coll.
9) C. Perlès, op. cit. pag. 23.
10) J. Diamond, op. cit., pag. 101.
11) F. Giusti, op. citi, pag. 161.
12) ivi, pag. 51.
13) ivi, pag.26.
14) ibidem.
15) C. Perlès, op. cit., pag. 23.
16) F. Giusti, op. cit., pag. 25.
17) La citazioni sono tratte dalla traduzione classica del Diodati, nella versione riveduta dalla Società Biblica Britannica e Forestiera, Roma, 1925.
18) J. Diamond, op. cit., pag. 84,
19) F. Giusti, op. cit, pag.41