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Adesso con i mercati vanno in tilt, tutti chiedono l'aiuto dello Stato

di Alessandro Volpi* - 26/03/2008



Da qualche tempo è ricomparso con forza il grande bistrattato. Quasi ovunque infatti sembra non si possa fare a meno della richiesta di aiuto allo Stato, indicato come il solo possibile sollievo, rapido e indolore, nei confronti dei dissesti lasciati dalle crisi dei mercati. La banca inglese Northern Rock, incapace di restituire il gigantesco prestito ponte fattogli dal governo inglese per circa 50 miliardi di dollari e di trovare compratori veri, sarà nazionalizzata per evitare drammatiche ripercussioni sul mercato dei mutui e sulle sorti di moltissimi contraenti di tali contratti in terra anglosassone. Intanto 180 mila azionisti, quelli appunto della Northern Rock, hanno già perso quasi tutto. Ma quello della banca britannica è solo un caso fra i molti della ricomparsa dell'appello all'aiuto di Stato, che ha fatto breccia anche nel cuore di George W. Bush spingendolo ad erogare, ancora per fronteggiare la crisi dei mutui, un contributo pubblico di circa 150 miliardi di dollari. Nella vicina Francia, dove del resto la pratica dell'aiuto di Stato non ha mai perso realmente il suo fascino, la crisi della Société Générale sembra avviata a risoluzione con l'intervento decisivo di un'altra istituzione pubblica, forse della Banque Postale. Anche in Germania massicci aiuti pubblici hanno salvato la banca IKB da un sicuro fallimento.

Quando i mercati eccedono nella loro «euforia creativa» e quando gli strumenti da essi concepiti contribuiscono a spingere il debito delle famiglie fino a farlo divenire pericolosamente pari a 1,5 volte il loro reddito disponibile, come avviene negli Stati Uniti e in Inghilterra, allora la necessità del sostegno del buon vecchio Stato perde i caratteri dell' antiquato e odioso ritorno al passato. Anche le continue iniezioni di liquidità da parte di Federal Reserve e Bce paiono sempre più configurarsi per la loro regolarità come interventi «pubblici» per evitare l'esplosione del debito diffuso; il modello dell'effetto leva, dell'ingegneria finanziaria che distribuisce il rischio vendendolo a centinaia di migliaia di soggetti ignari, delle piramidi simili al fondo Carlyle con 31 dollari di debito per ogni dollaro di attivo sembra incapace di provvedere alla propria manutenzione. Ha quindi bisogno di soccorso, reso indispensabile dal fatto che le nuove dimensioni della finanziarizzazione hanno assunto caratteri sociali.

I titolari di mutui, di pensioni di scorta, di debiti al consumo, di obbligazioni e di carta commerciale dall'incerta sorte rischiano di diventare i veri poveri del futuro e allora lo Stato finanziatore torna a presentarsi come l'unica panacea nonostante sia sempre più chiaro il pericolo inflazionistico della svalutazione. In questo senso, la vera minaccia per l'inflazione non proviene dall'indicizzazione delle retribuzioni dei lavoratori «reali», ma dalla estesa moltitudine dei diseredati finanziari. D'altra parte, se non interviene l'aiuto pubblico «nazionale», si profila l'eventualità sempre più concreta che a «salvare» le economie mature dalle loro difficoltà giungano altri Stati. Solo nel corso dell'ultima estate, i fondi sovrani di proprietà di alcuni governi di paesi emergenti - Cina, Singapore, Kuwait - hanno investito oltre 60 miliardi di dollari per «soccorrere» le grandi banche statunitensi in crisi di liquidità, divenendo spesso detentori di quote decisamente rilevanti.
Nel complesso, stime attendibili valutano in quasi 4 mila miliardi di dollari le disponibilità in mano dei fondi sovrani dei principali paesi esportatori di questo pianeta; un vero e proprio arsenale pronto per essere utilizzato in salvataggi o per sfruttare opportunità spesso dettate dall'emergere di situazioni di crisi. Si profila quindi uno scontro tra due diverse tipologie di intervento statale, nazionale ed estero, in vari settori delle economie mature che saranno messe a dura prova della nuova fase del ciclo internazionale. Certo, se gli aiuti dei fondi sovrani provengono da paesi dove non esiste un sistema democratico le preoccupazioni nei riguardi dei loro effetti non sono infondate e forse l'idea di smantellare del tutto lo «Stato imprenditore» dovrebbe suscitare almeno qualche dubbio se non lo si vuole trasformare in un mero Stato finanziatore, peraltro con poche possibilità di successo visto che le manovre sui tassi hanno esaurito il loro effetto.


*(Università di Pisa)