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Iraq, la storia che non stiamo raccontando

di Rageh Omaar - 26/03/2008




Negli ultimi cinque anni, l’Iraq non ha mai smesso di essere la più importante vicenda di esteri e la più grossa sfida per le testate e i giornalisti di tutto il mondo. Tuttavia, nello stesso tempo, la nostra capacità di raccontare quella che deve essere la guerra più importante degli ultimi 30 anni si è erosa, al punto in cui i giornalisti, per quanto grande e ricca di risorse sia la loro testata, possono solo cercare di fornire una istantanea dell’impatto della guerra sulla società irachena.

Sono tornato in Iraq di recente per la prima volta dopo 18 mesi, per realizzare un documentario sugli iracheni qualunque che ho conosciuto in 10 anni di lavoro giornalistico dal Paese. Ma operare lì come giornalista non è mai stato più difficile.

E’ molto diverso, e lo è sempre stato, quando si tratta di raccontare la storia dal punto di vista delle forze armate americane e britanniche. Se c’è una cosa che non è cambiata dal 2003, è il sistema che è diventato noto come "embedding". L’espressione fu inventata per la guerra in Iraq, a significare una situazione in cui i giornalisti mangiano, dormono, viaggiano, e si trovano sotto attacco assieme ai soldati britannici e a quelli americani, e perciò vedono la guerra esclusivamente da quella prospettiva.

Per il primo anno e mezzo dell’occupazione, l’Iraq è stato una storia che era accessibile, e si poteva seguire in modo completo da tutte le angolature – dalla mancanza di qualunque pianificazione efficace per il periodo successivo all’invasione, all’impatto del collasso economico nel Paese, e alle sfide quotidiane che avevano di fronte i soldati britannici e americani completamente impreparati ad agire da occupanti militari e costruttori di nazioni. I giornalisti potevano viaggiare e raccontare tutte queste storie e altre.

La cosa fondamentale era che a raccontare l’Iraq era una varietà enorme di testate e corrispondenti. Giornalisti freelance indipendenti potevano operare a fianco di quelli che facevano parte di una redazione, e non solo occidentali. Giornalisti arabi di pubblicazioni più piccole e meno note e di canali di informazione satellitari raccontavano la storia. Questo rendeva il giornalismo non solo possibile, ma anche una carriera importante per un numero enorme di giovani iracheni che non lo avrebbero mai preso in considerazione sotto la dittatura di Saddam Hussein.

C’era anche una straordinaria diversità di vedute sulla guerra e l’occupazione: blogger indipendenti come l’eccellente Dahr Jamail, americano di origini arabe, operavano a fianco di giornalisti del New York Times, della ITV, e di al-Jazira. Ma con il peggiorare inesorabile dell’insicurezza, della violenza, e dell’instabilità politica dalla fine del 2004, la capacità dei media di raccontare tutti i lati della vicenda cominciò a esaurirsi.

Un numero sempre maggiore di iracheni iniziò ad avere sentimenti ostili e a odiare la presenza dell’influenza occidentale nel Paese. Nonostante fossero stati sequestrati migliaia di iracheni, generalmente per ragioni finanziarie, dei sequestri si cominciò a parlare quando furono presi contractor e giornalisti occidentali.

Andare in giro per Baghdad, o parlare con la gente per strada, divenne incredibilmente pericoloso. Ora è quasi impossibile, a meno di non essere circondati da guardie del corpo armate o di attenersi alla "regola dei 20 minuti" – ovvero di non concedersi più di 20 minuti per uscire da una macchina, parlare con gli iracheni, e poi andarsene. Un po’ di più e quelli che stanno a guardare telefoneranno alle milizie locali per dire che hanno visto degli occidentali per strada.

Adesso è fatale venire collegati a qualsiasi cosa di occidentale. Poco prima di volare a Baghdad, ho telefonato a un collega del canale arabo di al-Jazira. Stava passeggiando nel centro della città. L’ho salutato in inglese, ma ha risposto in arabo, e ha continuato a parlare, facendo finta che io fossi sua madre e dicendo che sarebbe stato a casa presto. Più tardi mi ha chiamato per dire che sarebbe stato troppo pericoloso parlare inglese.

Questa paura di venire collegati a qualsiasi cosa di occidentale ha conseguenze terrificanti. In Siria vivono quasi un milione e mezzo di rifugiati iracheni, per lo più del ceto medio, ma perfino in esilio gli iracheni sono terrorizzati di mostrare i loro volti. Funzionari dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati mi hanno detto che ci sono stati quattro casi di iracheni uccisi specificamente perché erano stati intervistati da giornalisti occidentali. A Baghdad, è difficile trovare iracheni disposti a parlare davanti alle telecamere esattamente per questa ragione.

Uno degli aspetti dei pericoli del fare giornalismo in Iraq di cui meno si parla, o che viene ammesso di meno è che adesso sono solo le testate più ricche a poterci rimanere. La ragione è semplice – l’assicurazione. I costi del mandare personale a Baghdad e tenercelo sono astronomici: i "consulenti per la sicurezza" occidentali ("mercenari" è più accurato) ingaggiati dalle testate televisive vengono pagati attorno alle 400-700 sterline al giorno l’uno. I broker assicurativi hanno più voce in capitolo dei capiservizio esteri su dove vanno i giornalisti. Più il giornalista è famoso, più è costoso, e perciò meno probabile che a lui o a lei venga consentito di lasciare le basi militari o la Green Zone, a meno che non sia scortato da guardie armate o dall’esercito. (Una lamentela che ho sentito da John Humphrys, Huw Edwards, e Jon Snow) [tre nomi celebri del giornalismo radiotelevisivo inglese NdT].

Sono stato criticato da alcuni colleghi quando avevo detto che ritenevo che le testate televisive stessero perpetrando una piccola frode ai danni dei telespettatori britannici per il fatto di non spiegare i gravi limiti alla nostra capacità di lavorare in modo globale dall’Iraq. Lo confermo, e oggi lo credo ancora di più. Quando sono tornato a Baghdad, sarebbe stato facile dare l’impressione che stessi passeggiando liberamente in giro per la città, che è l’impressione che si riceve dagli stand up. Quello che non si vede sono le tre guardie britanniche armate fino ai denti con le radio ricetrasmittenti e le auto di appoggio da cui siamo circondati.

Vivere fuori dalla Green Zone – i quasi 13 kmq del centro di Baghdad colonizzati dall’esercito e dalla forze di sicurezza statunitensi – era un punto d’onore per molti giornalisti. Ma la Green Zone è arrivata da loro. Tutti i principali uffici di corrispondenza – che sia al-Jazira, la BBC, la CNN, o la ITV - in effetti devono essere compound fortificati, con torrette, muri di cemento anti-esplosione, e controlli di sicurezza. Lo stesso vale per l’Hotel Hamra, utilizzato per lo più dai giornalisti della carta stampata.

I giornalisti devono continuare a lavorare in Iraq, e molti continuano a farlo coraggiosamente e con impegno. Qualunque quantità di notizie è meglio di niente. Ma, a cinque anni dall’invasione, trovo impossibile sfuggire alla conclusione che l’Iraq è una contraddizione: è ancora la più importante vicenda di esteri, ma la violenza e l’insicurezza che continuano l’hanno reso anche un abisso dell’informazione.


Rageh Omaar: The Iraq War by Numbers, va in onda stasera sulla ITV1 alle 22.35.

Rageh Omaar, già inviato di punta della BBC, è stato il volto dell'emittente britannica durante la guerra e l'invasione dell'Iraq del 2003. Su quell'esperienza ha scritto il libro Revolution Day. The Human Story of the Battle for Iraq (Viking, 2004). Dal settembre 2006 è passato a lavorare per il nuovo canale in lingua inglese di al Jazira [NdR]

The Guardian


(Traduzione di Ornella Sangiovanni)