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Il business avvelena la terra

di Carlo Petrini - 27/03/2008

 

In napoletano si dice "parlare a schiòvere", espressione sublime e intraducibile per indicare i discorsi insulsi, vuoti. Una cosa così, come la pioggia: va dove vuole, smette, può succedere, ma anche no.

Diossina nella mozzarella di bufala vuol dire, innanzitutto, diossina nell'aria che respiriamo e nell'acqua che cade sui nostri suoli, che irriga l'erba e i vegetali di cui si nutrono le bufale. Con l'esclusione del consumo diretto di erba, tutti gli altri elementi riguardano allo stesso modo anche noi.

Le diossine sono molecole di sintesi che hanno avuto in sorte una forma molto simile a quella degli ormoni. Il sistema riproduttivo dei mammiferi quindi si confonde, le prende per ormoni e li ingloba nel sistema: apparati genitali, ghiandole mammarie, ecc. Ecco perché finiscono nel latte.

Eppure ci preoccupiamo della diossina non se sta, come già dimostrato in altre zone del mondo, nel latte materno, ma se essa ha l'impudenza di compromettere l'export e il buon nome del made in Italy, ergendosi a simbolo del fallimento istituzionale.

Ci allarma solo il danno economico, perché pensiamo alla terra, al suolo, come ad una materia prima da sfruttare secondo logiche capitalistiche. Essa è, invece, il capitale medesimo e una buona gestione del capitale è l'unica maniera per continuare ad avere attività economicamente redditizie.

Il suolo agricolo da decenni cede il passo a capannoni, impianti industriali, ipermercati, discariche, a qualunque attività - non necessariamente lecita - che preveda un rapido accumulo di denaro, una consistente cementificazione e un rilascio nell'ambiente di sostanze inquinanti. Nel 2000 il suolo nazionale cementificato era il 7%. Oggi si stima che sia intorno al 10. Sembrano numeri piccoli, ma se si considera che il territorio destinabile all'agricoltura coincide con quello su cui insistono le attività di cementificazione la situazione cambia. Quando si dice 10%, infatti si considera che il 100 sia formato anche dalle montagne, dalle pietraie, dalle spiagge... tutte aree che ai cementificatori non interessano. I loro antagonisti sono proprio gli agricoltori di pianura e prima collina.


È un'enormità. Dove pensiamo che siano le risorse di biodiversità, le possibilità di ripresa, le chances di invertire la tendenza al riscaldamento globale? Nei capannoni che infestano le nostre pianure più fertili?

La produzione agroalimentare viene confusa con quel che si fa nelle industrie di trasformazione e il made in Italy diventa un elemento di marketing prima che una realtà culturale da difendere nella sostanza. Lo stesso rischio, al seguito, lo corrono le indicazioni geografiche, pensate per proteggere un territorio e ridotte invece al rango di un qualsiasi marchio di fabbrica. Certo che le imitano, ma la colpa è di chi non ha saputo farne elementi sostanziali di diversità.

Questo modello di sviluppo sta catastroficamente mostrando tutta la sua inadeguatezza, ma intanto si è mangiato il futuro di una terra, la Campania, che oggi non sa come riemergere dal pantano civile e istituzionale in cui è stata lasciata sprofondare, non per ignoranza o incompetenza ma per dolo e per precise responsabilità. Oltre che per ignavia e indifferenza della società civile. Ora la storia presenta il conto, ma purtroppo lo presenta alle persone sbagliate, a quegli agricoltori che, pur producendo secondo il rispetto delle norme vigenti, lavorano con la terra e la natura che hanno a disposizione e si ritrovano il prodotto rifiutato da un mercato internazionale dove i controlli si fanno e i risultati non si minimizzano.

Non ci sono soluzioni se non nel radicale cambio di orientamento politico e produttivo: e guai se qualcuno si farà anche solo passare per la mente l'idea di innalzare i limiti di tollerabilità della diossina negli alimenti, come successe decenni fa con l'atrazina nell'acqua e ancora oggi non beviamo dai nostri rubinetti grazie a questo intervento.

Se vogliamo difendere l'export rendiamolo inimitabile. Non si vive di rendita se non si accudisce il capitale. E il nostro capitale di prestigio e cultura si radica nelle condizioni ambientali in cui si svolge la nostra agricoltura e la nostra vita. Se non capiamo questo, allora, davvero, stiamo parlando a schiòvere.