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Cuore. Storia d’Italia

di Lucio Villari - 27/03/2008

  
In occasione del centenario della morte (1908) di Edmondo De Amicis lo storico Luicio Villari esamina l’amicizia letteraria con D’Annunzio, le posizioni politiche vicine ai socialisti di Turati e il significato ideologico del suo romanzo più fortunato: Cuore. Secondo Villari dai rapporti con D’Annunzio, Verne e altri scrittori, si deduce in De Amicis l’idea di un «socialismo fra intellettuali» che non ha riscontro nell’Italia dell’epoca e può essere paragonata solo al panorama francese e inglese contemporaneo. Cuore è per Villari un documento storico prezioso, perché vi sono raffigurati i rapporti di classe, di produzione culturale, i comportamenti individuali e collettivi dell’Italia di fine XIX secolo.

Gabriele D’Annunzio ed Edmondo De Amicis tornano alla memoria in questi giorni di marzo. Una rispettosa attenzione si avverte per D’Annunzio, scomparso il primo marzo 1938, confinato nella sontuosa diffidenza del regime mussoliniano. Per De Amicis, morto cento anni or sono, l’11 marzo 1908, con il sincero dolore di tutta la nazione, c’è forse da attendersi il consueto sorriso che da tempo accompagna il ricordo di lui narratore e interprete di una Italia lontana. [...] Si conoscevano, si leggevano e addirittura l’esordio come scrittore di D’Annunzio, in terza ginnasiale, si deve a un compito in classe su una visita agli Uffizi «mimato» sulle pagine del libro di viaggio Spagna di De Amicis (1872). Non identificando il plagio il professore di italiano diede dieci al compito e predisse all’allievo un luminoso futuro. D’Annunzio amava la scrittura moderna, spigliata, e l’italiano senza arcaismi e incertezze lessicali di De Amicis. Negli anni del suo soggiorno a Roma, mentre trionfava Cuore e la nuova Italia liberale e laica tentava di rafforzare le proprie radici culturali e nazionali, volle la limpida prosa deamicisiana sulle pagine della sua Cronaca Bizantina.
Erano dunque interessati l’uno all’altro e fu il più celebre De Amicis ad essere incuriosito, lui scrittore plurale, viaggiatore e cronista fantasioso del suo tempo, dalle atmosfere magiche del poeta, romanziere e drammaturgo abruzzese. Fino a volerlo rivedere a Torino nel gennaio l902 durante la messa in scena della Francesca da Rimini. Ne venne fuori una intervista-ritratto che De Amicis pubblicò il 10 giugno su La Tribuna. [...]
La curiosità di De Amicis era sempre altruista, e non era la prima volta che, uscendo dall’icona solitaria degli scrittori famosi, egli interrogava, da giornalista, alcuni protagonisti della letteratura contemporanea, inventori di storie, figure originali e di confine, per conoscerne le intenzioni, l’officina, i progetti. Si avverte in lui il segno solidale di un «socialismo tra intellettuali», ignoto in Italia (forse qualche complicità c’era stata nella Scapigliatura lombardo-piemontese), fiorito invece nell’Inghilterra di Oscar Wilde, di George Bernard Shaw e dei loro compagni «fabiani», e nella Francia di Emile Zola e dell’affare Dreyfus. Resta singolare la sua visita a Jules Verne [...] nel 1896, mentre esplodeva in Italia la polemica, in verità esagerata, di alcuni critici sui plagi di D’Annunzio (lo si accusava di avere copiato anche Maupassant) cui egli, con distacco, aveva risposto sul Figaro, attirando così su di sé l’interesse internazionale.
Verne e De Amicis erano amati da grandi e piccini di tutto il mondo (Cuore era stato tradotto in quasi tutte le lingue e in Italia si stampava ininterrottamente) ed erano lontani dalla mondanità e dalle rumorose conseguenze della loro popolarità.
Verne si era defilato da Parigi e faceva il consigliere comunale ad Amiens; un impegno politico non dissimile da quello di De Amicis nelle vicende del socialismo italiano di fine secolo. Come nel 1902 farà con un D’Annunzio trentanovenne, così dell’ottantenne Verne De Amicis dà anzitutto la descrizione fisica; anzi, nella fisicità intravede il limpido stato interno dello scrittore di tante avventure meravigliose. È il varco per entrare nel suo pensiero: «Verne ha un po’ la travatura di membra di Giuseppe Verdi, un viso grave e buono, nessuna vivacità artistica nello sguardo e nella parola, maniere semplicissime». Un Verne insolito, schivo a parlare di sé e del suo successo.
Semplicità e chiarezza che De Amicis ritrova, contro ogni apparenza, nel D’Annunzio del l902; qualità arricchite da una eversiva e sognante tensione espressiva, dall’erotismo malizioso che a sua volta De Amicis aveva sperimentato dieci anni prima in Amore e ginnastica. «Al primo rivederlo - così si apre l’intervista - quasi non lo riconobbi e ne ebbi un senso di meraviglia viva e triste, come d’una persona invecchiata ad un tratto da una malattia terribile. Parla con voce esile, un po’ velata, con un leggero accento meridionale e una cadenza leggermente monotona, ma con pronunzia, salvo le aspirazioni, perfettamente toscana. Ma la forza del suo discorso deriva dalla mirabile ricchezza, delicatezza e proprietà del linguaggio, dall’arte finissima di dar valore a ogni parola».
Una ouverture impeccabile che nel 1911 D’Annunzio ricordava come «l’unica prosa affettuosa e onesta ch’io abbia inspirata a un letterato italiano», descrivendo De Amicis come l’interlocutore che aveva individuato, attraverso il viso segnato, la giovanile «immagine quasi virginea». Il De Amicis i cui «caldi occhi schietti cercavano di riconoscere i lineamenti primitivi della mia pallida maschera travagliata dagli anni, dalle fatiche e dalle passioni». E con eguale schiettezza D’Annunzio, nonostante da tempo ostentasse il nietzschiano superomismo, vedeva in De Amicis, nell’«Edmondo de’ languori» punzecchiato da Carducci, un acuto indagatore di verità nascoste.
Dunque, De Amicis era uno scrittore della verità e lo aveva dimostrato anche in questa occasione dannunziana. E la verità può essere una categoria di giudizio dell’invenzione e della costruzione letteraria delle sue opere, dal Cuore del 1886, fino alla Carrozza di tutti e a Primo Maggio, travagliato esperimento di romanzo politico nel quale il socialismo è difficile educazione sentimentale a un nuovo umanesimo. L’adesione nel 1892 al neonato partito socialista di Turati fu, tra l’altro, per De Amicis la causa degli ultimi tormenti inflittigli dalla moglie, gelosa, cattolica, nemica ideologica [...].
Sono numerosi i libri di viaggio, i racconti, i romanzi di De Amicis che si leggono con piacere, ma Cuore resta sempre sotto severa osservazione, bersaglio preferito di chi non lo accetta e vuole separarlo dal resto. Per i suoi critici, alcuni ancora oggi implacabili (nel libro, che fino ai primi decenni del Novecento vendette un milione di copie, viene trovato sadismo, gusto del macabro, retorica nazionalista, senso di morte - al terzo giorno di scuola c’è «una disgrazia»-, difesa della immutabilità delle differenze sociali, e così via), che i contenuti rappresentativi di Cuore siano in sostanza la scuola pubblica e la sua funzione civile, l’educativa visione laica del mondo, la costante esaltazione del lavoro e dei lavoratori, il dramma delle morti bianche, la commossa rievocazione dell’epopea risorgimentale, tutto questo non viene riconosciuto come il dato positivo dell’opera. Cerchiamo di capire perché.
De Amicis scrisse Cuore per le insistenze dell’editore Treves; raccontare di ragazzi e per i ragazzi non lo ispirava in modo particolare, ma poi, dopo il successo, ne ha difeso l’invenzione, a cominciare dalla finzione manzoniana del manoscritto ritrovato. Il «Libro» - così fu subito sacralizzato - è il traslato dell’Italia contemporanea: un’Italia in formato ridotto ma con più speranza rispetto all’Italia secentesca di Manzoni. Cuore infatti è un romanzo storico, una lucida opera di storia del presente: appassionata e ingenua ma freddamente mirata a identificare e precisare i suoi oggetti. Che sono: la classe «d’una scuola municipale d’Italia» (erano più di quaranta alunni, ma agiscono nel racconto solo pochissimi); una unità di tempo, l’anno scolastico di nove mesi; un protagonista narrante, Enrico (un «alunno di Terza» che non può essere confrontato con il contemporaneo, ribelle, imprevedibile Pinocchio) le cui note scritte sul diario sono poi aggiustate dal padre («studiandosi di non alterare il pensiero del figliuolo») con il piglio da piccolo borghese conformista, e con il «coro» dei racconti mensili gestiti dietro le quinte dal maestro.
De Amicis, nella breve avvertenza del libro, informa il lettore che le note di Enrico sono filtrate dal padre e saranno ancora rimaneggiate da Enrico «quattro anni dopo». Ma senza la spontaneità del diario scolastico in che modo un apparato così artificioso funziona letterariamente? E perché rende attendibile il giudizio sulla società italiana di fine Ottocento? A leggerlo senza prevenzione fa pensare che fatti storici, dissimulazione sociale e finzioni ideologiche stiano pericolosamente (l’Italia di Cuore è il tempo del trasformismo politico di Depretis e del primo nazionalismo colonialista) mescolandosi.
Una società intera è vista dall’osservatorio di una scuola municipale; una scuola dove i rapporti di classe, di produzione culturale, il costume e i comportamenti individuali e collettivi sono, nel libro inventato, una verità simmetrica del reale. Letto così Cuore è un documento storico prezioso. Sarebbe stato un romanzo verista o naturalista, tra i tanti del fine Ottocento europeo, ma De Amicis aveva una chiara intenzione politica e allegorica intorno all’educazione dei sentimenti e dell’umanità, e ai valori della scuola laica e dell’istruzione generalizzata. La pedagogia sentimentale ha talvolta prevalso sulla metafora letteraria, ma il cuore dei lettori di tutto il mondo, ignari di storia italiana, è stato toccato dall’autenticità di quella intenzione. Anche se il libro era essenzialmente e consapevolmente un testo politico.