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Le molteplici vite di Joseph Conrad

di Stenio Solinas - 28/03/2008

Il 2007 appena trascorso
ha coinciso
con il centocinquantesimo
anniversario
della nascita di
Joseph Conrad,
occasione, fra l’altro,
dell’uscita di una nuova biografia su
di lui scritta da John Stape (The Several
Lives of Joseph Conrad, Heinemann editore),
ma non è stato sufficiente a esaurire
in una ricorrenza lunga un anno l’interesse
critico che ancora circonda la sua opera.
Così, in questi primi mesi del 2008
sono stati pubblicati, per la Cambridge
University Press, gli ultimi tre volumi delle
Collected Letters che coprono i sette
anni finali della sua vita, un quarto, sempre
per la cura di John Stape, di note a
margine sulla sua corrispondenza nel
riflesso della sua esistenza, una serie di
saggi di autori vari raccolti sotto il titolo
Conrad in the Twenty-First Century
(Routledge editore) aventi come scopo
l’analisi del rapporto fra uno scrittore dell’Ottocento,
la sua “modernità“ e quella
del nuovo secolo ancora ai suoi primi passi.
Tutto questo senza parlare delle riedizioni,
in forma singola o variamente
assemblata, di quelli che vengono considerati
i capolavori conradiani, da Lord
Jim a Cuore di tenebra, dall’Agente
segreto a Sotto gli occhi dell’Occidente,
riedizioni che anche da noi, fra Einaudi,
Mondadori, Mursia, Bompiani, hanno
visto una notevole fioritura.
La prima cosa che salta agli occhi a un
esame appena superficiale di questa complessa
mole di materiali, è che la fama di
Conrad prese a risplendere negli anni in
cui la sua salute e il suo talento vennero
meno. Per essere più esatti, il fisico
cominciò a tradirlo molto prima dell’ispirazione
e della capacità di metterla su
pagina: malaria contratta in Africa, problemi
di cuore e di gotta, depressione...
Ancora nel 1907, quando l’uscita di L’agente
segreto l’aveva definitivamente
imposto all’attenzione della critica, ma
non del pubblico, Conrad era uno scrittore
che non aveva i soldi sufficienti per pagare
le cure mediche necessarie ai figli. Dieci
anni dopo, si descriverà come uno
“spaccato, sconnesso, impossibilitato a
concentrarsi su qualcosa di positivo. È la
guerra, forse? O, semplicemente, la mia
fine?“. È lo stesso anno in cui esce La
linea d’ombra, un po’ il suo canto del
cigno: da allora sino alla morte, nel 1924,
le sue lettere delineano una decadenza
fisica e intellettuale cui egli bravamente
si oppone, ma che non è più in grado di
sconfiggere. Di due anni dopo è La freccia
d’oro, forse il suo peggior romanzo, a
dimostrazione di come fino all’ultimo
Conrad non rinunci: nonostante tutto, a
dispetto di tutto.
Il successo, in fondo, era arrivato abbastanza
tardi, nel 1913, con un romanzo, Un colpo di
fortuna, che da noi esiste solo nella edizione
completa delle Opere che Mursia stampò
meritoriamente negli anni Settanta. Raccontava
il riscatto di una giovane dal proprio
passato a opera di un marinaio, “una storia di
mare che si indirizza alle donne” era il messaggio
pubblicitario che la accompagnava.
Negli Stati Uniti vendette diecimila copie
nella prima settimana di uscita, e da allora,
finalmente, i lettori non lo abbandonarono
più. Ci furono adattamenti teatrali dei suoi
romanzi, pour-parler cinematografici, nuove
edizioni di cui Conrad curò prefazioni ad
hoc, il suo viaggio negli Stati Uniti del 1923,
l’unico che fece in quel Paese e l’ultimo di
una vita così errabonda nella sua prima parte,
fu un trionfo, con tanto di reporter e fotografi
ad attenderlo in porto. Oxford e Cambridge
gli offrirono onoreficienze accademiche, si
parlò di un cavalierato, tutte cose che rifiutò,
impegnato com’era a cercare una posterità
non per sé stesso, ma per le proprie opere,
cercando cioè di spiegare, analizzare, correggere
che cosa del suo mondo gli altri, semplici
appassionati e critici impegnati, pensavano
al riguardo. Era del resto proprio questa
popolarità tardiva a imbrogliare un po’ le
carte. La critica aveva riconosciuto l’importanza
di Conrad all’incirca un decennio prima,
e ora si ritrovava a non capire perché la
fama lo raggiungesse grazie a dei titoli che
invece le sembravano secondari, inferiori
comunque agli exploit del passato.
Per cercare di capirne di più si può prendere
un altro dei suoi cosiddetti romanzi “minori”,
Il salvataggio, per esempio, uscito nel
1919 anch’esso con grande successo di pubblico,
ma relegato da gran parte degli studiosi
come ennesima prova della decadenza dei
suoi ultimi anni. Eppure, era un testo che
giaceva sulla sua scrivania da quasi vent’anni,
coevo cioè al tempo della sua maturità
come scrittore. Che cosa glielo aveva fatto
lasciare allora, che cosa lo aveva spinto a
riprenderlo e a finirlo tanti anni dopo? Probabilmente,
una maggiore fiducia nei propri
mezzi e una più rilassata disponibilità di
fronte a eventuali manchevolezze, ma anche
l’essere consapevole, in quanto creatore
di un proprio universo, che quanto all’occhio
del critico poteva sembrare sovrabbondante,
mal costruito, non perfettamente
reso, agli occhi dell’autore-lettore
aveva anche altre valenze, faceva suonare
specifiche affinità elettive. Del Salvataggio
si può, legittimamente, criticare il
tono da feuilleton, l’eccesso di idealismo
e di romanticismo, la storia d’amore e di
onore troppo disperata, eppure il semplice
lettore viene subito preso nelle spire
del racconto e non lo lascia più, è condotto
in un mondo parallelo dove il cinismo
e lo scetticismo dlela vita reale non hanno
cittadinanza. Sarà pure un Conrad
minore, ma è maggiore di molti degli
scrittori nostri contemporanei.
A ottant’anni dalla morte, l’impatto del
suo universo artistico ed esistenziale è
ancora così forte da rimanene in quanto
referente di situazioni, modi di dire, stati
d’animo. Frasi come “cuore di tenebra”,
esclamazioni come “l’orrore, l’orrore”
sono entrate nel linguaggio comune e
spesso vengono dette senza una conoscenza
del loro contesto originale. La sua
eredità ha influenzato la narrativa latinoamericana,
il romanzo di spionaggio, l’idea
che si può avere della psicologia di
un terrorista o di un anarchico. Graham
Greene confessò di aver smesso a un certo
punto di leggerlo perché paralizzato
dal confronto, consapevole che in caso
contrario sarebbe finito in un vicolo cieco.
È un peccato che la biografia di Stape aiuti
poco nella ulteriore conoscenza del suo mondo
letterario. Il titolo The Several Lives, le
varie vite, le differenti vite, rimanda a una
distinzione di Conrad stesso, quella relativa
alla sua esistenza divisa in tre parti, “come
polacco, come marinaio, come scrittore“.
Stape vorrebbe invece raccontarci le altre
lasciate in penombra da questa triade, ovvero
il Conrad marito, padre, amico, ma la sua
volontà di farlo alla luce dei soli e pochi
documenti disponibili non le illumina a sufficienza
e il fatto di voler essere una biografia
pura e semplice non ci aiuta a penetrare il
suo mondo creativo, i suoi romanzi, il rapporto
fra quest’ultimi e le sue esperienze.
Infanzia e matrimonio restano singolarmente
in ombra e ci vorrebbe un romanziere, più
che un biografo, per poter rendere le privazioni
e le emozioni della giovinezza conradiana
in quella parte di Polonia sotto lo zar,
l’esilio che colpì il padre, la morte di quest’ultimo
quando il piccolo Joseph aveva
dodici anni e già da sette era orfano di
madre, il vivere a lungo in uno stato di lutto
perenne.
La modernità di Conrad sta nel fatto che a
ogni rilettura c’è qualche cosa di nuovo che
ti colpisce. In Lord Jim c’è una frase che
spiega perfettamente il perché di una
improvvisa illuminazione: “Era uno di noi”.
Conrad la usa per delineare un particolare
tipo umano, perso e preso dietro alla “acuta
coscienza dell’onore”, l’onore smarrito, l’onore
da ritrovare, l’onore da difendere. “Se
ne va col suo cuore impenetrabile e può ben
darsi che, nel breve attimo del suo ultimo
sguardo fermo e superbo, abbia veduto il
volto di quell’occasione che gli si era messa
al fianco tutta velata come una sposa orientale.
Se ne va per celebrare spietate nozze con
una vaga idealità di condotta. È soddisfatto
adesso? Dovremmo saperlo. È uno di noi”.
Quel “sentimento dell’onore” è ciò che di più
ha accomunato quelli della mia parte e della
mia generazione, sconfitti senza nemmeno
aver avuto il tempo di combattere, sempre in
attesa dell’“occasione che ci avrebbe riscattati,
sempre in guerra contro le tentazioni, gli
alibi, le compromissioni, che avrebbero potuto
rinviarla. Non c’era niente di logico in tutto
questo... Ci sono tanti modi per seppellirsi
agli occhi del mondo quando quel mondo ti
fa orrore perché ti ricorda una debolezza, perché
potrebbe rinfacciarti una mancanza... Per
espiare il suo aver ceduto alla paura, il malconcio
eroe conradiano finiva in Malesia.
Noi, più prosaicamente, ci si rintanava in libri
e riviste che non si vendevano, in editori che
non si conoscevano, in professioni che non
appagavano... Niente di logico, ripeto, ma
quella frase che chiude Lord Jim: “È soddisfatto
adesso? Dovremmo saperlo. È uno di
noi”, vale come rivelazione psicologica più di
mille tomi su cosa sia stata la destra, una certa
destra, nell’Italia di ieri. E anche per questo
Conrad è un nostro contemporaneo.