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Una pagina al giorno: la morte di Anna, di Carlo Bernari

di Francesco Lamendola - 28/03/2008

 

 

 

Dal capitolo XVII, Agosto-settembre 1921: occupazione delle fabbriche di Carlo Bernari (edizione Oscar Mondatori, 1979, pp. 217-223):

 

“Solo Marco, che s’è dichiarato più capace in queste azioni di coraggio, quando la sera è completamente calata, scavalca il muro di cinta e corre al rione da Anna. Bussa alla porta più volte, ed attende impaziente; il cuore, per la corsa fatta, gli batte forte, e nel silenzio gli pare sentire i battiti ripercuotersi sotto la gola. È fermo, alla porta della loro casina, con le spalle appoggiate al muro di cinta.

“Nessuno apre, aspetta ancora un poco e ancora bussa. Il mare schiaccia la pioggia con un rullo bianco, e dall’altra parte si stende il fitto e indecente velo degli insetti che di notte devastano la campagna. Bussa ancora una volta. Il cielo è terso, le stelle sembrano scorticature su un coperchio smaltato. Bussa ancora più forte, perché Anna ha il sonno pesante. Il cuore gli si è inquietato, ma ora le palpebre gli battono forte, perché pensa: a meno che non sia svenuta; batte ancora, e adesso dovrebbe aprire: ai pugni aggiunge dei calci rabbiosi, ma la porta resiste. Il mare, increspato fino ad un certo punto d’un colore di smalto, s’avvalla poi, gettandosi con un tonfo sordo sulla spiaggia.

“Marco dà un ultimo colpo alla porta col piede, poiché i palmi delle mani ormai gli bruciano, poi siede sul basso muro, come se non avesse a fare di meglio; pensa ad uno svenimento, pensa che Anna, uscita all’imbrunire, sia stata sorpresa dalla notte in campagna. I colpi hanno destata l’attenzione della signora che abita la camera attigua, la quale gli consiglia di provare dal fattore, che probabilmente dovrà averci una chiave che vada bene per quella serratura.

“Corre Marco, ma nella sabbia molle gli si inchiodano i piedi e il cammino gli diventa faticoso fino alla casa del fattore.

“Anche qui bussa molto tempo prima l’uomo si affacci all’uscio con il lume in una mano, e nell’altra le punte delle bretelle. Marco gli dice che bisogna cercare una chiave, oppure abbattere l’uscio, ma il fattore comincia a considerare la proposta con gravità e lentezza, perché in vita sua non gli è capitato mai di scardinare una porta; ed ora il caso è ancora più grave, poiché si tratta di rovinare la porta di una casa che appartiene ad una pubblica amministrazione. Marco freme, ma l’uomo non si decide, e invece bisogna far presto, affettarsi, si tratta di uno svenimento, forse, e alzando la voce: o forse anche di morte! Ma la frase lo fa trasalire: perché l’ha pronunciata? Si tratta di uno svenimento, è sicuro. E rifà nella mente una scena possibile di Anna che chiude la porta prima di addormentarsi; poi va a letto, e poi…

“Poi è impossibile andare più oltre in quel pensiero; attende, appoggiato al basso muro di cinta, il fattore che è andato a vestirsi e non pensa; vede la voce che di dentro s’aggira grossa a spiegare a qualcuno (forse alla moglie) chi sta fuori e cosa vuole; qualcosa sarà accaduto a quei due diavoli: mannaggia l’ora che gli ho dato la casa! Marco si sforza d’indovinare oltre il senso l’umore di quelle parole che s’avvicendano sorde nella camera chiusa, mentre altro dormono.

“Finalmente l’uomo vien fuori, con aria annoiata; si decide di svegliare un friulano dei dintorni che possiede attrezzi. Occorrerà un badile, forse un piccone; ma il fattore pensa che bisognerebbe farne a meno; è un peccato; e per nulla al mondo lui farebbe rovinare una porta che, vuoi o non vuoi, in quel momento costa un centinaio di lire, e lui, proprio pochi mesi prima, l’ha fatta verniciare, che sembra nuova.

“Sul friulano con gli attrezzi, spunta l’alba, ed il cielo sta in fondo a un mare di nuvole. Tutto rivela un aspetto più triste;, e l’estate, finita improvvisamente, sembra partita per sempre e al suo posto pare che abbia lasciato una desolata tempesta; anche le onde si son fatte scure e minacciose.

“Il friulano comincia a lavorare d’impegno, giunti che sono davanti alla porta. Non vuole demolirla; eppure quel suo cauto servirsi degli attrezzi è più inesorabile di un’opera di devastazione: Marco ha l’impressione di riceverli nello stomaco quei colpi alla porta, tanto è forte il rimbombo per le scale. Se fino a poco fa la disgrazia sembrava inverosimile; ora, a pochi secondi dalla rivelazione, gli è impossibile ammettere che dietro la porta non si celi una disgrazia. Tutto lo suggerisce, tutto dice sventura in quell’aria opaca, fra quei colpi, fra le espressioni dei due uomini chini a far saltare la serratura e a scardinare un battente, infine la sua tensione stessa. È troppo vero. Non vorrebbe neppure che si proseguisse in quel lavoro: quasi griderebbe smettetela, riposatevi, lasciatemi respirare. Suda, le braccia e le gambe gli dolgono; ma deve farsi forza, entrare, la porta pende ormai su di un cardine. Cammina lentamente, i piedi non vogliono staccarsi da terra, ma intanto tutto segue una sua legge, un suo corso, ed egli, Marco, fa una cosa che gli dicono di fare. Gli indicano di aprire una finestra e lui l’apre, perché nella stanza vi è un cattivo odore; gli dicono di aprire un uscio, e lui lo apre perché quella è la stanza di Anna. Il friulano e il fattore lo seguono sospettosi, come estranei che si lascino guidare e invece sono loro che guidano. Alla prima occhiata Marco non distingue gran che, nella penombra; le imposte sono accostate, e fa buio, come sul far della sera. Si sente un odore di medicinale e quell’odore, che si avventa alle sue nari da dietro la spalliera del letto, gli impedisce la vista. Sta fermo sull’ingresso, e non si muoverebbe più. Ansima, pare che gli manchi l’aria. Sente sul collo il respiro dei due uomini che gli stanno alle spalle. Vorrebbe ceder loro il passo ma non può mostrarsi vile fino a questo punto. È morta, fa dentro di sé, come a volersi commuovere, come a volersi strappare il pianto dagli occhi. Esser solo! Non dover fingere. Invece deve mostrarsi commosso. La stanza appare in gran disordine; ora che ci si vede meglio:  un bicchiere rovesciato sul comodino, e una macchia d’acqua per terra. Dalle scale si sentono le voci dei vicini farsi sempre più chiare, stringersi alle sue spalle e quasi sospingerlo ad avanzare avanti. Vedere, vedere tutto. Oh! ma perché non lo lasciano tornare indietro?Il fattore gli respira sul collo e spinge avanti la testa ma non muove un passo. Ora, Marco distingue una mano di Anna sul bianco della coperta, ecco: uno, due, tre, quattro, cinque dita, il polso, e il resto è nascosto.

“Il fattore infine si decide e gli passa davanti. Apre le imposte, e scopre oltre i vetri il cielo già schiarito; poi apre la finestra, ed un odore di catrame e di terra bagnata penetra nella stanza. S’è quietato il mondo e nel silenzio del creato anche le voci dei vicini; qualcuno spia ma discreto, qualche altro più ardito fa un passo, sospettoso. Ma il silenzio è legge per tutti. L’opaca opera di Dio pare compiuta nella serenità.

“Ancora metà del corpo di Anna gli rimane coperto alla vista; ma il coraggio di spingere la testa ancora un poco gli manca, tutti lo guardano, egli fissa uno per uno i volti dei presenti; poi dischiude la bocca come per parlare; deve distaccare le labbra secche che gli si sono appiccicate, piega la testa sul petto. Il fattore gli va incontro, facendo troppo rumore, con le scarpe dure, in quel silenzio; gli dice qualche cosa incomprensibile a bassa voce, come: «non vi disperate»; oppure: «non piangete». Ma non ha importanza. Lui non piange, né si dispera. Attende che il fattore si allontani di nuovo per guardare meglio il letto su cui Anna appare con le gambe penzoloni ed un pugno chiuso contro le labbra. Da sotto il cuscino, spunta un panno macchiato di sangue, anche il lenzuolo è macchiato in più punti. Ecco la boccetta della sua medicina rovesciata, vetro marrone, etichetta rosa, lo strofanto, forse glielo aveva comperato Teodoro, il termometro che spunta da un vasetto; l’astuccio per terra; anche quello comperato da Teodoro.

“Marco si passa una mano sul viso; tossisce, e in quel silenzio, l’attenzione dei presenti è rivolta a lui. Piangere? Gridare? Lo guardano, perché lo guardano? Che si aspettano da lui? Non sono soddisfatti di vederlo sudato e tremante?

“Il friulano si accosta ad Anna, la rimuove un poco, e se ne allontana. Fatto un cenno del capo al fattore tornano insieme per rimuovere il cadavere e sistemarlo a dovere sul letto: mentre marco guarda; sembra che non afferri il senso di             quell’operazione; sembra non abbia neppure compreso la gravità dell’accaduto.

“Teodoro è assediato, la fabbrica è stata circondata dai carabinieri, durante tutta la notte, ed ora non rimane che fare gli ossessi contro quella carcerazione volontaria, Il mancato ritorno di Marco lo ha innervosito facendolo incapace di qualsiasi azione. Il tecnico della rivoluzione è lì immobilizzato dalla sua sconfitta, che collimando inesorabilmente con la sconfitta generale. Ha pensato che Marco si sia allontanato per evitare fastidi; ha pensati pure che avendo trovato Anna ammalata, sia andato a chiamare un medico o forse a chieder soccorso a Maria, a questo punto il sospetto lo ferisce; perché non avvertire anche lui? Ma pensa pure ad un suicidio: che Anna si sia uccisa; e da qui comincia la 'sua' colpa.

"Con questi pensieri che lo opprimono è difficile a Teodoro interessarsi sul serio e fino in fondo della tragedia che va propagandosi intorno a lui nella Ferriera ferma. Fino a mezzogiorno ha cercato di trattare con qualche tecnico per guadagnarselo alla causa ma inutilmente, sicché alle prime ore del pomeriggio quando già tutto sembrava compromesso, quando i carabinieri dicevano: uscite che è meglio, ha rinunziato ad ogni lavoro.

"Gira per i posti più deserti del cantiere, che brucia nel sole, si ferma nell'ombra che il trenino aereo sospeso nello spazio proietta a terra, e qui soltanto trova un po' di sollievo; lontano dalle voci e dalle sofferenze altrui. Da qui vede gli operai aggrappati al cancello, sotto la bandiera rossa che batte nel vento; sotto è una siepe di capi e di voci che corono nel sole forte, lungo il muro di cinta da cui esala il puzzo di orina.

"Teodoro torna presso il cancello, nella speranza di vedere Marco fuori della fabbrica; spinge il capo fra e spalle dei compagni ma è difficile distinguere., nella folla che s'ammassa, un volto amico fra le braccia e i moschetti che s'alzano minacciosi o ammonitori, fra quei riflessi di sole che la bandiera spegne e accende sul vociare confuso. Le donne sollevano i fagotti e gridano in che punto del muro andranno a lanciare i pacchi di rifornimento; c'è da mangiare, lo vedi? L'ho portato! Non vogliono fartelo avere…"

 

Carlo Bernari, pseudonimo di Carlo Bernard, nasce a Napoli nel 1909 e muore a Roma nel 1992. I lettori del secondo dopoguerra lo ricordano soprattutto per i romanzi Speranzella (1949), Era l'anno del sole quieto (1964), Un foro nel parabrezza (1971), Tanto la rivoluzione non scoppierà (1976), Il giorno degli assassini (1980), Il grande letto (1988).

Tuttavia la sua fama di scrittore rimane legata principalmente al suo romanzo d'esordio, Tre operai, scritto fra il 1930 e il 1932 e pubblicato nel 1934, un'opera dura e disadorna, nella quale descrive il malessere e il confuso desiderio di ribellione di tre giovani proletari nel periodo delle grandi lotte operaie del primo dopoguerra, culminate nell'occupazione delle fabbriche del biennio rosso (1919-1921).

È il romanzo del 'gran rifiuto'; di come tre giovani operai - Teodoro, Marco e Anna - rifiutano la società borghese, che li vorrebbe relegare in uno stato di perenne sfruttamento; e di come essi inseguono più o meno confusamente, ciascuno con le proprie velleità, incoerenze e debolezze, ma anche con le proprie speranze e il proprio desiderio di profondo rinnovamento, l'utopia di un riscatto sociale che sia anche, al tempo stesso, esistenziale.

In questo romanzo, infatti - come, del resto, anche in quelli successivi - Bernari realizza un caratteristico intreccio di motivazioni pubbliche e private, di tensione etica e di malessere politico-sociale; dai quali scaturisce una scrittura svelta, nervosa, tutta cose, pensieri ed emozioni, senza nulla concedere alla descrizione superflua o alle sbavature sentimentali. Basti dire - per fare un solo esempio - che la Napoli in cui si svolge la vicenda di Tre operai non ha nulla dell'iconografia tradizionale, basata sul binomio mare-sole; è invece una città plumbea, oscura, immersa nello squallore dei quartieri operai che l'apparentano alle grandi, anonime città industriali del Nord Italia e, magari, del Nord Europa.

La vicenda è, per molti aspetti, una vicenda atipica nel panorama letterario degli anni Trenta,  dominato da tutt'altri miti e da tutt'altri orizzonti di senso; tanto che diede luogo a un vero e proprio caso letterario e anche, sia pure non dichiaratamente, politico; finché al libro venne inibita la libera circolazione.

Al centro della storia, comunque, non ci sono tanto le vicende dei tre protagonisti, dolenti personaggi di una società profondamente umiliata e offesa, bensì la denuncia contro la modernità e, più precisamente, contro la conduzione disumana nella quale la modernità sospinge gli esseri umani, riducendoli a puri oggetti di un processo economico alienante e di una omologazione culturale, che tutti li appiattisce e li livella.

 

Scrive Paola Papa in A. A. V. V., Mondi letterari, Milano, Paravia, 2003, vol. 4, p. 209:

 

"Il romanzo ha una struttura circolare divisa in tre fasi. La prima descrive l'incontro iniziale di Teodoro, Marco ed Anna come operai in una lavanderia di Napoli, uniti dal comune sentire la loro condizione come una prigione da cui vanamente cercano di evadere. Teodoro tenta la via dell'impegno politico e della lotta di classe; marco è più opportunista, anche se a parole sembra più radicale di Teodoro; Anna è fisicamente minata dal lavoro. La seconda parte descrive la dispersione e le peripezie dei tre protagonisti: Teodoro va prima a Taranto poi in Calabria per cercare lavoro, ma diviene un propagandista socialista e deve subire per questo l'arresto, l'invio in guerra, poi il licenziamento.  Anna, nel frattempo, è andata a lavorare a Roma, convive con un operaio da cui ha avuto un figlio, malaticcio come lei. Delusa dal compagno torna a Napoli, dove per sopravvivere abita con Marco; ma il figlio muore. Nella parte finale compaiono sia la riunificazione sia la sconfitta, perché a Napoli è tornato anche Teodoro, fuggito dalla Calabria per una risa. I tre ritornano insieme e vanno a vivere in una casa al mare, dove le condizioni di Anna peggiorano ulteriormente. È il 1920 e anche a Napoli le fabbriche vengono occupate. Mentre marco e Teodoro partecipano alla lotta, Anna muore.

"Inizia il processo di disgregazione finale: l'occupazione fallisce, Teodoro vene arrestato e quando torna in libertà si adatta ad un'esistenza  da sbandato. Marco resta solo e rassegnato, senza più progetti per il futuro. La dimensione di classe si stempera nella conclusione in una condizione  di individuale alienazione e di estraneità alla vita."

 

È stato osservato che i tre operai del romanzo non ragionano come operai, ma tradiscono una struttura psicologica tipica delle classi medie, cui lo sesso autore appartiene; tanto è vero che Bernari, inizialmente, li aveva pensati come tre piccolo-borghesi, e solo in un secondo momento li aveva 'trasformati' in operai.

A questa critica risponde Geno Pampaloni nella Introduzione alla edizione citata, pp. 15-16, con argomenti assai convincenti e di esemplare chiarezza ermeneutica:

 

"Si è più volte obiettato che i tre operai di Bernari hanno una  struttura e una fisionomia interiore borghese; più che reale coscienza di classe, volontà rivoluzionaria, la loro è un'ambigua velleità esistenziale, qualcosa di simile a una fuga dalle responsabilità profonde. Se questo, a mio giudizio, non vale per Anna, come vedremo, vale in gran parte per Teodoro e Marco. Ma un'attenta lettura del libro (se vogliamo leggere il libro dall'interno, alla luce delle sue ragioni, e non proiettato a confronto con astratti modelli di letteratura popolare) ci persuade che una simile ambiguità e sfasatura di piani costituisce parte essenziale del suo significato ,tanto in senso politico quanto in senso poetico.

"Possiamo infatti distinguere, nel nostro romanzo, tre momenti ideali di approccio alla realtà (estetico-emotivo, ideologico, morale) che idealmente si dispongono in sequenza dialettica.

"Il primo momento (estetico-emotivo) è dati dallo scenario: plumbeo, monotono, ossessivo di colori smorti e bituminosi. Piove implacabilmente da un capo all'altro del racconto («quando un operaio va in cerca di lavoro, piove sempre»); la realtà esterna ci si presenta tutta inamena, ostile, persecutoria, non solo nei meccanismi sociali, ma nel suo aspetto quotidiano, immagine plastica di «questo sporco paese» ove «questi porci fottuti non ti fanno lavorare e non ti danno soldi». Teodoro (napoletano!) vede il mare azzurro in un cartellone turistico, ma «non ricorda che mari sporchi, color marrone». La civiltà industriale si presenta come una condanna: «la gru nera è una grande forca». Uno dei pochi momenti lirici è questo: Le spalle degli uomini, nere per il tempo che s'oscurava, facevano pensare alla loro fatica, alla stanchezza; stanchezza che penetra dovunque, nelle baracche, dove si cantano lunghe canzoni, sulla spiaggia, dove i bambini si stendono con la faccia rivolta alla luna», che sembra la strofa di un malinconico pierrot operaio.

"Il secondo momento (ideologico) non è altrettanto deciso e monocromo; è il luogo di una crisi, ove si riflettono anche le incertezze e le ambivalenze autobiografiche del giovane narratore. Il lettore vedrà da sé quanto le vicende di Teodoro e Marco seguano linee insicure, quanta parte vi abbia il caso, come siano speso determinate da una sorta di opportunismo disperato, opportunismo in negativo, in che misura sia oscillante, e ancora individualistico, il loro rapporto con gli altri e con la loro stessa vocazione operaia. Basta un'osservazione come questa: «Sale nel primo tram  carico di operai, forse muratori, perché hanno le mani grigie, con certi spacchi che corrono dalle dita al polso. Pensa alla sensazione che proveranno le donne a sentirsi quelle mani sulla loro carne», per rivelare la matrice borghese della psicologia dei personaggi.

"Un altro passaggio chiave, che ci dà il timbro esatto dell'ambiguità ideologica di Tre operai è questo: «La sua vita è passata tra prove e riprove; tra la certezza di essere qualcuno e di servire una giusta causa e il timore di agire per una causa inutile. Tra la certezza di essere superiore alla cosa per cui lottava, e la paura di essere soverchiato dalla cosa stessa».

"E tuttavia una simile oscillazione tra senso di superiorità e senso di inferiorità  rispetto alla mitica cosa (il socialismo, la rivoluzione, la coscienza di classe, il proprio compito nella vita), se inteso rettamente , nel concreto contesto narrativo, ha un significato preciso: è un'immagine di solitudine, di una condizione umana disancorata stremata da una società che preannuncia il fascismo, che anzi, nella realtà poetica del racconto, è già fascismo.

"Figura discreta ma assoluta della solitudine operaia è Anna. La quale accetta tutto dalla vita, dolori, miserie, umiliazioni, situazioni imbarazzanti, ma senza rassegnazione, senza patteggiamenti, chiusa in una sua silenziosa integrità che è protesta totale e varco a una imprecisata e perciò infinita speranza. La sua morte, dove il libro tocca il vertice della denunci al disordine, squallida cosmogonia del caos, è un emblema disperato di solitudine.

"Proprio qui s'innesta il momento terzo e conclusivo, di natura morale. L'itinerario esistenziale degli operai del romanzo, si è visto, è ambiguo, confuso e senza luce, ; ma il risultato finale, l'esito decisivo che misteriosamente  ne scaturisce è il no, l'inappartenenza, il rifiuto.  (…) La singolarità di Tre operai è di essere un libro antifascista che rispecchia in sé anche la dimensione del fascismo, l'approccio sfuocato, acritico, mortificante, a valori indecisi e nebbiosi quali potevano presentarsi ai giovani di allora;  di essere un libro fedele a un'idea di vita, alla forza di un rifiuto morale, ma anche poeticamente fedele all'amara vita del suo tempo."

 

Basterebbe già quest'ultima osservazione per fare di Tre operai un romanzo che merita, comunque, di essere letto: un libro, cioè, che possiede la disarmante onestà di essere sia ciò contro cui lotta, sia ciò che è oggetto della lotta e della ribellione.

Si dirà che la dimensione ideologica è più confusa, più velleitaria che in Fontamara di Silone o in Conversazione in Sicilia di Vittorini. È vero: così come è vero che esso rispecchia più fedelmente la coscienza spirituale di quegli anni della nostra storia.

E tuttavia, nella fierezza di Teodoro, Marco e Anna noi percepiamo una volontà di contrapporre i propri valori di classe a quelli della borghesia; volontà che ritroveremo, spostandoci ormai (per effetto del boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta) verso il sottoproletariato, fra i 'ragazzi di vita' delle borgate romane cari a Pier Paolo Pasolini.

Se non altro per questo, il romanzo Tre operai è una commovente testimonianza di una fase della nostra storia in cui l'operaio era ancora orgoglioso di non assomigliare al padrone, né desiderava che suo figlio assomigliasse al figlio del padrone; in cui il livellamento consumistico-borghese non aveva ancora spazzato via specificità e differenze, all'insegna di una omologazione tanto superficiale quanto artificiosa e insincera.