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Una pagina al giorno: la fine dei sogni d'Ippolita, di Elio Bartolini

di Francesco Lamendola - 30/03/2008

 

 

Dal capitolo nono del romanzo di Elio Bartolini La bellezza d'Ippolita (pp. 145-149 dell'edizione  del 1991 nella Biblioteca Universale Rizzoli):

 

“«Dunque a Verona», pensava Ippolita, sempre seduta sul ponticello. Voleva aggiungere qualcosa al nome della città sconosciuta, un itinerario di azioni immediate e concrete, e per questo pensava con disappunto ai soldi: «c’era l’incasso di tutta la settimana nell’altro cassetto» sospirò. Ma subito alzava le spalle nel gesto del suo ritrovato ottimismo: l’autista che la prendeva a bordo, aveva senz’altro un suggerimento da darle.

“«A Verona?» avrebbe detto. «Conosco tanta gente io a Verona».

“Perché nella cabina illuminata appena dai quadranti del cruscotto, in un calore che sapeva di benzina, con i nomi dei paesi lasciati alle spalle, , subito si sarebbe creata tanta intimità da indurre facilmente a confidenza.

“«Se lei cerca lavoro, io posso aiutarla. O lei cerca qualcosa d’altro?» l’autista avrebbe aggiunto sorridendo.

“«Cerco lavoro, qualsiasi lavoro».

“«Lavorare in un bar le andrebbe?».

«Come no?».

“«Mia sorella ha un bar a Verona e ha bisogno di una ragazza, una che ci sappia fare, una come lei».

“Ippolita, «ho una pratica, io, di bar», avrebbe riso e magari anche carezzato, come per sbaglio,  il braccio del compagno o spinto le gambe,  intanto scoprendole, verso il fondo della cabina, insomma uno qualsiasi dei gesti che non costano niente e che agli uomini piacciono.

“«Ma sa che lei è bravo a indovinare? Indovina perfino che sono adatta per il bar di sua sorella».

“«Ho l’occhio, io» anche l’altro rideva.

“E, continuando, avrebbe finito col convincerla: : o nel bar di sua sorella o nel negozio di un suo amico  o nel magazzino di quest’altro suo amico, lui la sistemava in meno di una settimana.

“«Intanto le lascio gli indirizzi perché devo proseguire per Milano; ma, al ritorno, sono certa di trovarla sistemata».

“Ippolita, spingendo ancora più le gambe verso il fiato caldo del motore, avrebbe ceduto a questa sicurezza e intanto  si sarebbe goduta la sua corsa attraverso una pianura fitta  ormai di contadini che, sotto i cappelloni di paglia, sembravano girasoli. Avrebbe potuto divertirsi anche con i cartelloni della pubblicità, compitarne le frasi frantumate, un «se volete» rosso e brutale che un primo intervallo di pianura separava da «un sorriso perfetto» e da una bocca socchiusa su tutta la fila degli incisivi, e uno successivo dall’imperativo in bianco e nero «usate il nostro  dentifricio». Poi veniva la serie  delle villeggiature: Grado, cioè un ombrellone rosso da cui usciva un paio di gambe; le Dolomiti, con il fondo valle fitto di casette e due vacche sul versante di una montagna;  Venezia, decantata da tre cartelli azzurri e bianchi segnati, come da un comune marchio di fabbrica, dalla lama della  gondola. Poi, sullo sfondo di pianura e di cielo, un’altra serie da compitare: «in tutto il mondo» e sotto c’era un mappamondo con i meridiani e i paralleli; , «la donna saggia», e un faccione di donna stava estatico nell’atto di puntarsi il dito contro la fronte, «usa il nostro lucido».

"I fari di una macchina che veniva dal ponte, riflessi dai catarifrangenti  alla base dei paracarri, svegliarono anche  Ippolita e la spinsero in mezzo all'asfalto. Ma la macchina, appena scartando sulla sinistra, sfrecciò davanti al  braccio proteso e pieno di delusione. «Villani», si sfogò lei. E tornava lentamente verso il ponticello. Ad un altro balenio, ma di moto, «appena una moto», decise che si sarebbe alzata solo per un autotreno, solo la certezza d'arrivare almeno a Verona. «Verona, Verona», s'arrabbiava. «Intanto sono ancora qui».

"nella luce incerta di un giorno che non si decideva a spuntare e intirizzita da un venticello sempre più maligno, Ippolita avrebbe voluto consolarsi  con quelle fantasie di prima ma, irritata  e stufa d'attendere, badava unicamente ai rumori:  se mai le veniva fatto d'avvertire, dal ponte,  uno possente e fondo d'autotreno.  Passavano cari invece, ancora carri di tini e di gente addormentata, e tre biciclette di braccianti, e un altro carro di letame, poi un'automobile ma veniva da Casarsa, poi una ragazza con un'enorme bicicletta  da uomo, e tutto questo nella sonnolenza delle mattine d'autunno, quando un velo di nebbia, che il sole penerà a vincere,  immalinconisce le cose, e l'irresolutezza dei propositi è grande.

"Ancora un camioncino passò e Ippolita, sulle sagome argentee dei bidoni, poté  dirsi che andava verso qualche latteria; poi altri fasci di luce ma ancora erano, uno dopo l'altro, due camion  di argentei bidoni, poi finalmente  quel rumore possente e fondo che lei aspettava.

"Il rumore veniva dal ponte, invadeva tutta la campagna  e, dopo poco, ci fu anche la luce:  dalla linea in cui il grigio dell'alba e quello dell'asfalto  si confondevano, e avevano il massimo  di consistenza nei due vertici dei fari ma la spaccava, quella consistenza,  la divergeva, la variava  come nell'irrequieta paura  di non essersi fatta notare abbastanza.

"Ippolita l'aveva notata, e già batteva i piedi con impazienza preparandosi  a sorridere all'autista.

 

“Non provò nulla di quanto immaginava che si dovesse provare: nessuna cosa insopportabile brusca e rovente, ma appena un volo, un venir proiettati contro le nubi per poi precipitare in u buio viscoso e senza dimensioni. Anche perché lei non aveva fatto nulla di men che normale, quello che sempre si fa correndo verso la cabina di u n autotreno, e per questo non capiva quei cenni dell’autista. «Fermati». Doveva fermarsi adesso, quando nulla più l’ostacolava?Fermarsi e rinunciare? E perché rinunciare? Ma l’altro: «fermati», sempre urlava. Ed allora per curiosità e per un istante, Ippolita si guardò attorno, dove fosse la causa di quell’urlo, e già una forza nera velocissima e fischiante, qualcosa che per lei era come una prepotenza maschile, la travolgeva alle spalle.

“Così Ippolita aveva visto gli alberi sollevarsi e inabissarsi, poi tutto s’era raddrizzato, poi di nuovo gli alberi roteavano, poi Ippolita scivolava ancora più giù a raggiungere quel buio viscoso. Ma tutto ciò con incredulità, tutto felpato e denso e senza dolore. Doleva soltanto un posto èpiù in alto del cuore, un posto su cui Ippolita avrebbe voluto portare le mani, ma le sue mani erano lì e non l’obbedivano. Del resto, non aveva importanza. E probabilmente  la Clelia questo intendeva quando, una volta, le aveva detto che se uno deve morire, insomma muoia. Che cioè, in quel momento, a uno è lecito anche disinteressarsi di quanto prima lo interessava e vivere quei pochi istanti come vivono i tisici: senza impegni, senza responsabilità, senza pensieri  che non siano questi del morire.

“Lei moriva? Intanto sentiva la confusione, le imprecazioni, sentiva che di tratto in tratto le tornavano vicini palpandola sempre in quel posto, sentiva una voce: «muore?», e lei invece avrebbe voluto una cosa sola; che la lasciassero in pace. Ma le tornavano vicini. Lei sentiva la voce: «è grave?», sentiva che dal punto dolente toglievano qualcosa, sentiva, come un’edera, attorno ad essa la carne; quando uno strappo, quasi di coltello, dall’alto in basso; poi ancora qualcosa, di nuovo, ficcato nel foro e le pulsazioni di questo che, come un sasso nell’acqua, da lì si allargavano. Avvertì anche la cosa calda che adesso le usciva assieme col respiro, e di colpo, lasciando le mani, lasciando la testa all’indietro, lei si sentì in nessun posto, col tempo fermo e inutile,  e, sul pulsare senza tregua del sangue, tutti i pensieri di nuovo affidati a quest’unico: che la lasciassero in pace.

“Ippolita in questo momento doveva avere una brutta e grigia faccia perché qualcuno, alzandogliela come si fa con un fiore per esplorarne l’interno, disse: «non resiste»; e la testa, privata di quel supporto, ricadde ciondolando proprio in segno di morte.

“Invece Ippolita aveva tutta la vita concentrata sulle mani: le fissava instancabile e, contro l’asfalto, ora le parevano bianchi fogli di carta, ora farfalle, ora enormi margherite; e quando volle  puntarle per cambiare posizione, perché cambiare posizione le sarebbe bastato, e sullo sforzo, partendo da quel posto sopra il cuore, il dolore s’allargò fino alle estreme diramazioni del corpo, ancora fissò le mani: che per l’ultima volta si contraevano, quindi si deponevano in pace sulla terra, come staccate dal resto.”

 

Questa la tragica fine di Ippolita, la protagonista del romanzo di Elio Bartolini, strana figura di narratore e filologo classico; poco conosciuto fuori dalla cerchia della sua "piccola patria" friulana eppure scrittore di respiro europeo; regista cinematografico outsider e cultore appassionato di storia tardo-romana.

Ma chi è Ippolita?

È stata definita una "Emma Bovary" della provincia italiana e di più basso ceto, di più povere ambizioni sociali, di più angusti limiti.

Nell'Italia del boom degli anni Cinquanta e del 'miracolo economico', Ippolita è una formosa bellezza paesana, che dalla natia Gonars, nella Bassa friulana, tenta l'avventura della città: Trieste. Ha in cuore una smania di affermazione; di successo, un desiderio irrefrenabile di essere ammirata ma, più ancora, di trovare un uomo che le permetta di sistemarsi: di metter su casa, di fare una vita da signora. Più in là non arrivano le sue ambizioni di persona semplice e fondamentalmente ingenua.

Ma, se a Gonars lei è la regina incontrastata di bellezza, a Trieste passa peggio che inosservata. L'unico lavoro che trova è quello della serva e il suo corpo, così prosperoso e giunonico, sembra tradirla: perché la sua bellezza, nella quale aveva riposto ogni fiducia di riscatto sociale, nella grande città appare goffo, sgraziato, irrimediabilmente volgare. È una bellezza, quella di Ippolita, che fa voltar la testa ai maschi e strappa loro qualche commento salace, qualche fischio di ammirazione cafona; ma resta pur sempre un corpo plebeo, senza distinzione, senza finezza, che non potrà mai consentirle quel salto di ceto sociale in cui ella aveva riposto ogni speranza, lasciandosi trasportare da puerili fantasie.

Da Trieste a Genova e Milano; da serva a prostituta, per un periodo di ben tre anni: Ippolita scende sempre più in basso e vede i suoi sogni allontanarsi a misura che crescono la sua insicurezza, la sua angoscia, la sua paura.

Sconfitta nel confronto con la grande città, Ippolita finisce per tornare al paese; trova un brav'uomo che la sposa, anche se incinta, e mette su un distributore di benzina e un bar. Qui, tra le facili galanterie dei camionisti, e non più messa in ombra dalle signore eleganti e raffinate, ritrova per un momento il piacere di essere ammirata e ricomincia a sognare il grande balzo, il balzo che le permetterà di inseguire nuovamente i suoi sogni di evasione romantica, fatti non più solo di una bella casa e di abiti lussuosi, ma - soprattutto - del forte sapore dell'avventura, di un ritrovato gusto di vivere all'insegna dell'improvvisazione.

Quando non ne può più dell'odore di benzina e dell'angustia provinciale in cui la sua esistenza sembra essersi incagliata, un giorno - dopo un aspro litigio col marito - molla tutto e si rimette all'avventura. Traversa il Tagliamento quasi in fuga, in una pagina memorabile che ricorda quella manzoniana della fuga di Renzo verso l'Adda; poi, all'altezza di Casarsa, si mette a fare l'autostop, decisa a raggiungere Verona, prima tappa del suo secondo assalto al mondo delle classi alte, a bordo del primo camion di passaggio.

Invece, agitata da mille pensieri, desideri e sogni indistinti, finirà sotto le ruote di un camion e vedrà finire così, banalmente, sull'asfalto della strada statale, le sue illusioni di novità e di riscatto e la sua stessa vita.

 

Pubblicato per la prima volta nel 1955 dall'editore Mondadori, che ne fece due ristampe, e tradotto quasi subito sia in Francia che negli Stati Uniti d'America, questo singolare romanzo sembra ancora collocarsi in una prospettiva genericamente neorealista, anche se già vi s'intravede una poetica che tende allo scavo psicologico più che alla denuncia sociale.

La bellezza d'Ippolita mostra evidenti parentele con Flaubert, con Mauriac ma anche con Hemingway (specialmente a livello di scrittura); e, se ci è concesso l'accostamento, nella psicologia della protagonista vi sono diversi tratti che l'avvicinano alla indimenticabile protagonista del film La cicala (interpretata da una bravissima Virna Lisi) girato da Alberto Lattuada nel 1980; né ci stupirebbe se il bravo regista avesse avuto presenta anche il romanzo di Bartolini.

Eugenio Montale (venti anni prima di ricevere il premio Nobel per la letteratura) recensì favorevolmente La bellezza d'Ippolita, pur non tacendo alcune critiche sulle quali, tra poco, ritorneremo.

Riteniamo di fare cosa utile riportando l'articolo da lui pubblicato sul Corriere della Sera del 19 novembre 1955:

 

"(…) dobbiamo rallegrarci con il friulano Elio Bartolini per i progressi da lui compiuti in breve tempo. I suoi libri precedenti, Icaro e Petronio, di cui ci occupammo in queste colonne, e Due ponti a Caracas - ci avevano fatto conoscere un narratore di certa vocazione ,ma dotato di una insufficiente presa sulla sua materia. Non diversamente da altri scrittori suoi coetanei, Bartolini dimostrava di possedere il mestiere, ma un mestiere, come dire?, disincarnato, astratto, quasi inutile. Strano a dirsi, l'Italia, questo Paese in cui per gli stranieri tutto è romanzo, sembra non offrire plausibili argomenti ai suoi romanzieri, perennemente in cerca di personaggi.

"Sfioriamo qui un problema che tocca non solo il romanzo ma anche il teatro, e che certo non potremmo esaurire in poche righe. In ogni modo, giunto al suo terzo tentativo il nuovo narratore Elio Bartolini (nato nel '22) ha compiuto in questa Bellezza d'Ippolita un passo avanti veramente ragguardevole. Ippolita è una contadina del Friuli. È bella, ha abbandonato la casa per far la serva a Trieste e a Milano, è tornata incinta, ha trovato un povero diavolo che l'ha sposata, ha messo su un distributore di benzina a uno dei bivi «dove le grandi strade corrono verso Vienna, Lubiana e Belgrado».

"Sola col paziente marito (la bambina è nata morta), Ippolita vive coi camionisti la vita della strada; odia Luca che l'ha umiliata col suo non richiesto perdono; odia forse se stessa; è carica di sentimenti inespressi come una eroina di Racine o di Mauriac. Cento volte i neorealisti hanno tentato di attribuire anime squisitamente sofisticate a personaggi ch'erano poco più che scimmie. E l'impresa falliva, più per colpa degli autori che per l'impossibilità dell'assunto, come oggi ci dimostra il giovane Bartolini.

"Non seguiremo Ippolita fino alla sua morte sotto le ruote di un camion; non seguiremo lo svolgersi e lo sdipanarsi di questo groviglio di vipere.  Basti dire che con Ippolita e Luca Bartolini ha creato figure vive e che questa volta l'ambiente, l'atmosfera, non ha divorato il dramma. La bellezza d'Ippolita non è propriamente un romanzo, ma questo non importa: è un racconto poeticamente realizzato cui solo nuoce una certa cavillosità dell'espressione, che vuol essere duttile, colloquiale, calcata sul vero e riesce invece faticosa e talvolta poco chiara. Quasi mai, però, sommaria o aridamente stenografica, come prima accadeva al Bartolini. C'è in questo nuovo scrittore un eccessivo terrore della 'letteratura'. Un terrore che sciupa alquanto il frettoloso epilogo del libro, più pensato che visto. Se Bartolini si persuaderà che le nuove retoriche non valgono le vecchie, e che la letteratura è ancora la più certa via di accesso alla poesia, egli non deluderà le molte speranze che il suo libro fa sorgere in noi."

 

Abbiamo riportato questo brano di critica anche perché, accanto ad alcune osservazioni equilibrate e condivisibili, ci sembra che Montale, specialmente nell'ultima parte, si sia fatto prendere la mano da un certo paternalismo professorale, dall'antico vizio dei critici nostrani di giudicare un'opera non in base ai suoi criteri interni, ma alla luce della loro particolare concezione della poesia; sino a fare le pulci, puntigliosamente, a tutti quegli aspetti formali, stile compreso, che non si sottomettono al cento per cento ai loro canoni estetici.

Particolarmente evidente ci sembra tale atteggiamento di condiscendenza, oltre che nell'auspicio che Bartolini possa divenire un grande scrittore a condizione che si decida ad adeguarsi alla poetica montaliana, nella totale incomprensione dell'epilogo del romanzo, da lui definito "più pensato che visto" e, addirittura, sciupato da una espressione cavillosamente anti-letteraria. A noi, al contrario, è parso che nell'epilogo la vicenda di Ippolita trovi la sua naturale conclusione, niente affatto "frettolosa", ma sapientemente condotta e "vista", prima che pensata; ma è, certamente, questione di opinioni.

Ci piace concludere queste riflessioni critiche riportando alcuni stralci della Introduzione di Roberto Damiani all'edizione Rizzoli già citata (pp. 7-11); terza edizione del romanzo, dopo quella di Mondadori del 1955 e quella di Longanesi del 1968.

 

"Tre anni Ippolita durerà come professionista del vizio, a Genova e a Milano. Tre anni: al ritorno a Gonars, uno scrigno di poveri ricordi, cui attingere per rompere l'uggiosa monotonia del presente e d'un futuro già scritto.

"Assieme al disgusto per gli errori commessi, alla perdita di fiducia in sé - che è poi la perdita di fiducia nelle qualità risolutive della 'bellezza', alla constatazione d'aver accarezzato sogni troppo ingenui Ippolita porta nel suo ritorno un ultimo peso, della nuova vita che le sta crescendo in grembo.. A Luca, che l'ama, lei non nasconde il suo stato, anzi con brutalità gli rivela di non supporre nemmeno l'identità del padre, tanti sono stati i maschi con cui s'è accompagnata. Ma l'uomo, pur di 'averla', è disposta ad assumersi la paternità giuridica del figlio non suo: e Ippolita conosce, oltre al disprezzo rovente della famiglia e alla malignità della gente, l'altra umiliazione di un perdono che la ferisce, in attesa che la beffa d'un aborto spontaneo svuoti d'ogni plausibilità  l'appena celebrato matrimonio riparatore.

"Ippolita si sforza di reagire, di convincersi che - tramontata la stagione delle illusioni - il possesso di un distributore di benzina, poi anche di un bar, al crocevia del traffico stradale tra l'Italia, l'Austria e la Jugoslavia, incanali l'energia di sempre nella dedizione al lavoro, nell'appagamento che deriva dalla propria efficienza - alle pompe, nel commercio minuto che da corollario all'attività principale -, nella divertita perché disincantata accettazione delle galanterie dei camionisti di passaggio. La donna non rimpiange gli anni di Trieste, Genova, Milano. Ma la sensazione di aver perduto la sola opportunità di riscattarsi socialmente la opprime, insinuandole un'inquietudine che i frenetici ritmi cui si assoggetta non bastano a dimensionare, Non prova nostalgia per ciò che fatto, Ippolita, bensì per quanto avrebbe potuto fare lontana da quel dove insoddisfacente, angusto, meschino. Di tutto ha fastidio: delle pigre abitudini della provincia, delle sue pedanterie perbenistiche, delle sue grettezze moralistiche ,della generale rassegnazione a un destino mai baciato dall'imprevedibilità, mai illuminato da una trasgressione di codici comportamentali vecchi di secoli. Come per Emma Bovary, il rêve si appropria di aree sempre meno perimetrate della sua coscienza, ne deborda, si fa presenza costante, perenne assillo, compagno inalienabile d'ogni pensiero, d'ogni gesto. Abbandonarvisi conforta anche del marito che non si ama e di cui si subiscono le sgradite attenzioni sessuali nell'ambito complessivo di un rapporto coniugale inesistente, che ha drasticamente ridotto a uno soltanto il numero dei 'clienti' della prostituta Ippolita.

"Avvertendo la crescente distrazione della moglie, Luca se ne sente «imbrogliato e defraudato». Egli le ha teso la mano quando tutti la disprezzavano, l'ha condotta all'altare pronto a crescere il frutto di una colpa non sua, possibile che lei non avverta la generosa grandezza del gesto, non gli sia per sempre grata del suo perdono?

"ma la nostalgia d'Ippolita non guarda dietro a sé, si proietta verso altri 'dove', seducenti perché lontani. L'attesa che passi al distributore un giovane motociclista viennese, con cui si è accompagnata sulle rive del Tagliamento, la fa sognare e vivere. Le targhe dei camion sono ali su cui la sua fantasia spicca il volo verso l'ignoto. Ma nessun barbaro cala a spezzare l'ordine che taglia l'aria, infrangere con gesto risoluto e definitivo le regole di sempre, dissolvere la costruzione artificiosa entro cui una vita si va consumando.

"Poi - finalmente - una furibonda lite con Luca infonde a Ippolita il coraggio di lasciare la 'origine' e di vagare nella pianura , la notte, alla ricerca di un passaggio verso Verona, uno dei simboli attorno ai quali si è addensato nel tempo l'impulso di 'cambiare'.  Ma il lettore è giù predisposto al solo degli epiloghi possibili: Ippolita non è Moll Flanders, sulla via del suo miraggio di libertà e catarsi mordono le ruote omicide di un autotreno."

Ricordiamo che dal romanzo è stato tratto un  mediocre film con Gina Lollobrigida ed Enrico Maria Selerno, girato dal regista Giancarlo Zagni nel 1962, ma con un lieto fine che snatura completamente non solo la vicenda, ma anche le problematiche ad essa sottese e la stessa psicologia dei protagonisti.

Elio Bartolini, nato a Codroipo nel 1922, si è spento in silenzio nel 2006, alquanto dimenticato dalla critica "alta" che, in realtà, non lo aveva mai apprezzato al suo giusto valore.

Come narratore ha scritto - oltre a La bellezza d'Ippolita, - Icaro e Petronio (1950), Due ponti a Caracas (1953), La donna al punto (1963), Chi abita la villa (1967), Pontificale in San Marco (1978); La linea dell'Arciduca (1980), Racconti cattolici (1989). Come saggista, ha curato, per l'editore Longanesi di Milano, una gigantesca antologia di scrittori latini e greci dedicata alla storia del tardo Impero Romano e alle migrazioni dei popoli germanici, intitolata I barbari (1968); inoltre ha pubblicato la biografia Ignazio di Loyola (1986). Come poeta in lingua friulana, ha scritto Cansonetutis (1980) e Amour e dis di vore (1985). Come regista di cinema, infine, ha dato un'unica, ma interessante prova con il film L'altro Dio (1975), una riflessione sul rapporto esistente fra una famiglia e il denaro. È stato anche sceneggiatore e commediografo.

La critica ufficiale, dicevamo, non si è scomposta più di tanto per la sua scomparsa, così come non ha saputo riconoscergli, lui vivente, la qualità di un vero scrittore di livello europeo.

Tanto peggio per lei.

Prima o poi, verrà il tempo del pieno riconoscimento del valore dell'opera di Elio Bartolini: friulano schivo e artista poliedrico, troppo sui generis per piacere veramente a una cultura malata di iper-specialismo, la quale tende a considerare scorribande dilettantesche e invasioni di campo le prove di un autore che non rientrino nei rigorosi parametri e negli ambiti codificati dalla tradizione.