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Nel dramma dimenticato di Claudia Bianchi il grido d'aiuto di una femminilità infelice

di Francesco Lamendola - 30/03/2008

 

 

 

Esattamente quattro anni or sono, lunedì 8 marzo 2004 - ironia del destino, il giorno della festa della donna - veniva trovata morta nel suo letto, dai familiari, la trentaseienne Claudia Bianchi, che aveva dedicato la sua vita al body building nella sua forma più estrema. Si era spenta nel sonno, silenziosamente, per quello che inizialmente venne diagnosticato come un arresto cardio-circolatorio, poi per un aneurisma cerebrale: in pratica, la dilatazione e la rottura di un'arteria del cervello.

Ben presto, però, emersero i primi dubbi sulle cause di quella morte. La  sera precedente il decesso, infatti, sua madre l'aveva vista iniettarsi una sostanza bianca, contenuta in una fialetta che avrebbe ricevuto quella domenica. Claudia Bianchi si stava allenando intensamente in vista di un importante appuntamento sportivo internazionale: una gara che si sarebbe tenuta negli Stati Uniti d'America nel successivo mese di agosto, ed alla cui precedente edizione ella aveva partecipato, classificandosi sesta.

Non solo: la mamma della campionessa aveva scoperto, grazie alla lettura di un SMS trovato nel   telefono cellulare di Claudia, che quest'ultima, il pomeriggio di quella stessa domenica (intorno alle ore 17,00) aveva avuto un malore in palestra, nel corso degli allenamenti, ed era addirittura svenuta. Il suo preparatore atletico, nonché fidanzato - che veniva a trovarla regolarmente ogni domenica, da Modena -, e che era stato presente all'episodio, non gli aveva attribuito eccessiva importanza, dal momento che non aveva pensato di accompagnarla al pronto soccorso né di interpellare la guardia medica.

Questi sospetti portarono all'apertura di un'inchiesta e alla riesumazione della salma della giovane donna, il 22 dicembre 2004, per procedere ad una autopsia, nel contesto di una più ampia indagine  della magistratura circa alcune morti sospette di persone praticanti il body building. Diciassette erano i soggetti indagati; i carabinieri stavano cercando di chiarire i risvolti di un grosso traffico di sostanze anabolizzanti e integratori proteici d'ogni tipo, tutti dannosissimi per la salute, facente capo a Modena e ramificato in varie parti d'Italia. Dall'autopsia emerse che la vera causa della fine di Claudia Bianchi sarebbe stata l'assunzione massiccia di sostanze anabolizzanti, alcune - perfino - di uso veterinario.

Al di là dei risvolti giudiziari della vicenda - che potrebbero implicare delle precise responsabilità dell'allenatore, secondo quanto affermato dalla madre - resta il fatto che la pratica del body building, sia maschile che femminile, e specialmente nelle sue forme più estreme, si accompagna di frequente all'assunzione irresponsabile di sostanze chimiche il cui scopo è sviluppare al massimo le masse muscolari, ma che possono presentare gravissimi rischi per la salute.

La riflessione che noi, ora, vorremmo fare, soffermandoci sulla pratica del body building  femminile, non vuole essere tuttavia né di natura giuridica, né di natura medico-sportiva, bensì di costume, psicologica e, soprattutto, esistenziale.

Partiremo, dunque, dalla semplice domanda: che cosa può spingere una bella ragazza, quale era Claudia Bianchi, a imboccare la strada di questa pratica sportiva estrema, al punto di alterare completamente la propria struttura fisica, il proprio aspetto, alla ricerca di un risultato sempre più vistoso, sempre più sbalorditivo, teoricamente senza limiti di prudenza per la salute e di natura estetica per l'immagine del proprio corpo?

Romana, nata nel 1968, Claudia Bianchi si dedicava da anni alla pratica del body building e, negli ultimi tempi, aveva riportato una serie di vittorie e di eccellenti classificazioni in importanti competizioni nazionali e internazionali.

All'inizio il suo corpo, benché assai muscoloso, aveva conservato caratteri di marcata femminilità; poi, mano a mano che il suo impegno cresceva e tendeva a divenire totale, ossessivo, esso finì per diventare irriconoscibile, per certi aspetti quasi mostruoso, con quei fasci di muscoli ben oliati che guizzavano sotto la pelle con evidenza più che michelangiolesca, quasi inumana - come inumani erano i sacrifici e gli sforzi cui la giovane si sottoponeva per migliorare sempre di più le proprie prestazioni atletiche.

Ormai, quello che ella rivestiva non era più il "suo" corpo, il suo corpo naturale, ma un corpo totalmente artificiale, totalmente costruito secondo i canoni di un'estetica aliena; un corpo dalle forti connotazioni virili ma nel quale, evidentemente, Claudia Bianchi stava bene, nel quale si sentiva a suo agio e che, anzi, avrebbe voluto potenziare sempre di più, all'infinito, inseguendo il miraggio di un ideale di forza sovrumana, assoluta.

 

Perché questa vicenda - della quale i mass media hanno parlato per qualche giorno, per poi scordarsene in fretta -, ci sembra così interessante, se è lecito adoperare un aggettivo che sembra banalizzare il dramma umano che sta dietro di essa, e che costituisce una ferita sempre aperta per i familiari della vittima? Perché essa ci sembra altamente emblematica - e sia pure, beninteso, come caso-limite - di tutta una silenziosa, inespressa angoscia della psiche femminile nel mondo  contemporaneo: quasi un grido di soccorso lanciato a una società cieca e sorda, tutta presa da riti e da miti che la rendono terribilmente distratta verso le situazioni di disagio spirituale; specialmente se esse sono camuffate sotto la maschera di un apparente vitalismo e di una apparente spensieratezza.

Ce ne siamo già occupati in tutta una serie di articoli e saggi - tutti reperibili sul sito di Arianna Editrice -, tra i quali È la donna, oggi, l'anello debole della catena e Il demone nascosto dell'infelicità femminile (10/9/2007); Nella lotta con l'Angelo deforme è in gioco la salvezzza della nostra anima (6/11/2008); Cenere e povere negli amori impossibili di Renée Vivien e Ne «La prigioniera» di Proust l'inferno della gelosia retrospettiva (27/12/2007); Dietro la vendetta delle signore il disorientamento spirituale della modernità (26/1/2008); Alle radici dell'inquietudine femminile contemporanea: Marina di Malombra (29/1/2008); Seconda considerazione inattuale: ripristinare la virilità e la femminilità (16/3/2008); e, più recentemente, in Una pagina al giorno: la fine dei sogni d'Ippolita, di Elio Bartolini (31/3/2008).

Non vogliamo farne qui una sintesi, ripetendo concetti già ampiamente espressi e sviluppati; piuttosto, cercheremo di porre la questione della odierna infelicità dell'anima femminile, alla luce dell'insegnamento che ci può venire dal dramma di Claudia Bianchi.

 

Con tutto il rispetto dovuto a chi pratica, spesso con fatica e notevoli sacrifici, una qualunque disciplina sportiva, ci sembra innegabile che il body building estremo, nel caso di una giovane donna, esprima un desiderio - neanche dissimulato - di acquisire caratteri fisici tipici del sesso maschile, e sia pure esaltando - per contrasto - quelli del proprio. In questo senso, la ragazza che si dedichi con passione totale, come è stato il caso della povera Claudia, a una simile pratica, intende inconsciamente realizzare in sé il prodigio dell'androgino, che in senso filosofico (vedi Platone nel Simposio) e in senso iniziatico (vedi le trasformazioni alchemiche dell'anima umana) rinvia a uno stato di perfezione originaria, di completezza e autosufficienza: in altre parole, di assoluta autonomia e di  superamento delle contraddizioni proprie alla sfera della contingenza.

Ora, il corpo androgino essendo un corpo che riunisce in sé le caratteristiche del maschile e del femminile, è un corpo che fornisce un senso di sicurezza a coloro che, incerti dal punto di vista non tanto del proprio orientamento sessuale, quanto del proprio equilibrio esistenziale, inseguono il miraggio di una definitiva liberazione dall'insicurezza del contingente e del provvisorio. È come se, rivestendosi di un corpo muscoloso come quello di un eroe greco e, al tempo stesso, seduttivo come quello di una dea della sensualità, una giovane donna come Claudia Bianchi tentasse di superare le contraddizioni, le inquietudini e le insicurezze legate alla condizione del relativo - che, nel caso degli umani, passa di necessità anche attraverso la polarità maschile-femminile -, per acquisire uno statuto ontologico caratterizzato dalla autosufficienza: per cui, divenuta maschio e femmina al tempo stesso, non avesse più bisogno di cercare fuori di sé ciò che le mancava per raggiungere la stabilità interiore e la sicurezza di sé.

 

Vi è una pagina estremamente significativa, nel racconto di santa Perpetua, contenuto negli Atti delle sante Perpetua e Felicita (nel volume: Tertulliano, Apologia del Cristianesimo, Milano, Rizzoli, 1956, traduzione di Luigi Rusca, p. p. 141), in cui la santa, alla vigilia del martirio per la sua professione di fede cristiana, narra:

 

"Nel giorno precedente a quello del combattimento ebbi la seguente visione.

"Era giunto il diacono Pomponio alla porta del carcere e bussava forte: andai a lui e gli aprii: era vestito di candida veste e calzava piccoli zoccoli. E mi disse: «Perpetua, aspettiamo te, vieni».

"Mi tenne per mano e cominciammo a camminare per luoghi aspri e tortuosi.. Finalmente giungemmo con fatica e anelanti all'anfiteatro; egli mi fece entrare nell'arena e mi disse: «Non aver paura, io sono qui vicino a te e ti aiuto». E scomparve.

"Vidi allora una grande folla, attonita: e, sapendomi condannata alle fiere, mi meravigliavo che queste non mi fossero aizzate contro. Venne verso di me un certo Egiziano, terribile a vedersi, con i suoi aiutanti, per combattere contro di me. Intorno a me vengono giovani di bell'aspetto, aiutanti e partigiani miei.

"Venni spogliata e divenni maschio: e quei miei favoreggiatori cominciarono a spalmarmi d'olio come si fa per la lotta: invece vidi quell'Egiziano ravvoltolarsi nella polvere. E comparve un uomo di straordinaria altezza, tale che superava persino il fastigio dell'anfiteatro, in tunica sciolta, con una striscia di porpora tra le due spalle in mezzo al petto; aveva degli zoccoli svariati fatti d'oro e d'argento, e teneva in mano una verga a guisa di un capo gladiatore e un rampo verde che recava pomi d'oro. Chiese silenzio, e disse: «Questo egiziano se vincerà costei la ucciderà con la spada; se costei vincerà lui riceverà questo ramo». E se ne andò.

"Ci accostammo l'un l'altro, e cominciammo a scambiarci colpi: l'Egiziano tentava di afferrarmi i piedi, io lo colpivo in faccia con i calcagni. E mi sentii sollevata in aria, e cominciai a percuoterlo come se io non toccassi terra. Ma, quando vidi che la cosa andava per le lunghe,, congiunsi le mani intrecciando tra loro le dita, gli afferrai il capo, ed egli cadde bocconi ed io gli calcai il capo. Il popolo cominciò a gridare ed i miei aiutanti a cantare. E mi avvicinai al capo gladiatore e ricevetti il ramo. Egli mi baciò e mi disse: «Figlia, la pace sia con te». Ed io presi a camminare trionfante verso la porta Sanarivaria.

"Mi risvegliai. E capii che non dovevo combattere con le fiere, ma contro il demonio; ma sapevo che mia sarebbe stata la vittoria."

 

Abbiamo riportato questo interessante e commovente brano perché, ai fini del nostro ragionamento, ci sembra si presti magnificamente ad illustrare il concetto che abbiamo esposto.

Altri, se lo desidera, sottoponga la visione di Perpetua a una analisi di tipo psicanalitico; da parte nostra, la cosa non c'interessa affatto, dato che gli psicanalisti riuscirebbero comunque ad estrarne il senso che valga a convalidare le loro teorie di fondo. Così pure, cercheremo di fare astrazione dalle implicazioni emotive che la consapevolezza del tremendo destino che l'attendeva, può aver avuto sull'animo di una giovane donna, processata e condannata ad essere esposta alle belve feroci, nell'anfiteatro gremito di spettatori.

Quel che a noi sembra importante evidenziare è quella trasformazione della donna in maschio, in vista di un combattimento (simbolico fin che si vuole) con un misterioso e terrificante Egiziano, il quale appare, in un medesimo tempo, simbolo di un arbitrario e violento potere maschile e di una condizione di alterità e di irriducibilità alle categorie della vita ordinaria e di ciò che è già noto. Ebbene, trasformandosi in maschio, anzi un atleta di sesso maschile che i suoi compagni si affrettano ad ungere d'olio per il combattimento, si direbbe che Perpetua si sia spogliata della sua fragilità femminile per indossare la corazza dei muscoli maschili; la forza, il coraggio e la temerarietà del maschio; insomma, per affrontare il maschio ed essere in grado di vincerlo. Ciò che, di fatto, avviene (almeno nella visione).

Crediamo che il caso di Claudia Bianchi sia l'esempio estremo di una condizione psicologica femminile che si sente intimamente fragile, minacciata e spaventata e che reagisce con una classica "fuga in avanti", ossia facendosi aggressiva quanto i fantasmi che le incutono timore, e rivestendosi di una forza simbolica (e non solo simbolica) che la rassicuri circa le sue possibilità di successo, in quella grande arena di gladiatori che è divenuta la vita nella società moderna. Indossando la pelle del maschio, la donna ritrova quella (apparente) sicurezza che le permette di sentirsi in grado di battersi alla pari con lui nella competizione quotidiana dell'esistenza.

Al tempo stesso, facendosi virtualmente maschio ed esibendosi, seminuda e unta d'olio, in pose  marziali, la donna può offrirsi come oggetto di desiderio sessuale non solo al pubblico (maschile), ma anche a sé stessa, al suo ego narcisista e alle sue segrete pulsioni omosessuali: in modo da trovare in sé stessa, fino a un certo punto, quell'appagamento estetico, erotico e psicologico che, normalmente, si riceve in un rapporto interpersonale con una persona del sesso opposto.

Ma…, c'è un "ma".

Per quanto si possa spingere in avanti, con esercizi diuturni e con l'uso smodato di pastiglie anabolizzanti, la trasformazione del corpo femminile in un corpo dotato della possanza maschile, si tratterà pur sempre di un processo aleatorio e parziale, mai pienamente rassicurante; bisognerà spingerlo sempre oltre e ancora oltre, perché la meta di tutto ciò non può che essere una meta trascendente, ideale e, in definitiva, materialmente irraggiungibile.

Ecco, dunque, la segreta angoscia e la crescente insoddisfazione, ad onta delle medaglie vinte e dell'ormai raggiunta celebrità internazionale, almeno nel rampo specifico di quella disciplina sportiva. Ecco la necessità di sottoporsi ad allenamenti sempre più duri, sempre più massacranti; ecco trasparire, sotto il sorriso stereotipato, che si richiede nel corso di simili prestazioni, la maschera della sofferenza, della tensione, dello sfinimento. Ed ecco, infine, la necessità di ricorrere a dosi sempre più massicce di sostanze dopanti, non solo per reggere l'abnorme massa muscolare, ma anche per reggere psicologicamente l'impossibile sfida con sé stessa.

 

Il problema di fondo da cui nasce una tale spirale nevrotica e autodistruttiva è, evidentemente, la mancata accettazione non solo e non tanto della propria natura e del proprio ruolo femminile - percepiti, per una serie di ragioni, come meno desiderabili di quelli maschili -, quanto della propria natura di esseri umani e perciò, in quanto tali, incompleti, non autosufficienti e, se si vuole, fragili e vulnerabili.

Solo accettando questa "incompletezza", questa fragilità e questa vulnerabilità, ossia accettando i limiti della propria condizione finita e contingente, ci si può accettare veramente come persone e, dunque, anche come creature maschili o femminili. È, infatti, la nostra - a ben guardare - una  debolezza feconda; perché da essa, e dalla vulnerabilità che ne consegue, emerge la possibilità di stabilire una relazione "polare", ossia di mutuo e vicendevole completamento con l'altro: sia in senso sessuale, che in ogni altro senso possibile.

Il body building, infatti - almeno nelle sue forme estreme e tendenzialmente autodistruttive - è il rifiuto di accettare la condizione di vulnerabilità, propria della condizione contingente dell'essere umano; e il tentativo, in ultima analisi paranoico, di perseguire il sogno dell'androgino in senso grossolanamente materiale.

Ci siamo sforzati di mostrare, in numerosi altri lavori, che la possibilità di superare la nostra condizione contingente e frammentaria esiste, ma non certo sul piano fisico, bensì esclusivamente sul piano spirituale. Ma, per intraprendere un simile percorso, ci vogliono altro che attrezzi ginnici e pastiglie di dubbio contenuto ormonale e proteico.

Questa, non è che una scorciatoia; e, come tutte le scorciatoie, è illusoria e pericolosa, perché facilmente conduce là dove non si pensava di andare, né lo si desiderava.

L'unico aiuto che la donna potrebbe ricevere, nella sua ansia di fragilità e vulnerabilità di fronte a  una società che diviene sempre più aggressiva e competitiva, sarebbe quello di trovare accanto a sé un uomo che sia realmente virile: non quanto a masse muscolari, ma quanto a caratteristiche psicologiche. Ma la cosa non è facile, dal momento che - ad onta delle apparenze puramente superficiali - anche l'uomo si trova ad avere accanto a sé una donna che,  in effetti, sta diventando,  fisicamente e psicologicamente, sempre meno femminile.

 

Questa è la lezione che, pensiamo, si possa ricavare dal dramma della povera Claudia.

Speriamo che, almeno, possa servire ad altri per non commettere i medesimi errori; e per chiarire le vere radici del disagio esistenziale che, sempre più spesso, colpisce uomini e donne nella società contemporanea.