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Immagini dello Straniero

di Alessandro Puma - 30/03/2008

 

 

 

 

“Who’s that boy?”

“A boy!”

Teorema di Pier Paolo Pasolini

 

 

 

 

Il Dio di Marcione è veramente il Dio Sconosciuto di cui parla Paolo nell’Areopago, ma contrariamente a quello di Paolo non può mai darsi a conoscere, nemmeno con l’immaginazione. Egli è l’imprevisto, l’inopinabile, il trascendente che scompare non appena si realizza di averlo visto, senza averlo precedentemente riconosciuto, nonostante il rapporto conviviale e colloquiale che si è avuto con Lui, un attimo prima che scomparisse.

Mentre il Dio dell’AT è il Dio creatore di questo mondo, che si fa conoscere volontariamente come Dio della giustizia e della Legge – ed è di conseguenza, per sua stessa ammissione, anche “geloso e vendicativo” – il Dio del NT è, per Marcione, essenzialmente buono e quindi radicalmente diverso.

“Come il dio-creatore è conosciuto, evidente e ‘giusto’, così il vero Dio è sconosciuto, straniero e buono. Egli è sconosciuto perché il mondo non dice niente di lui. Non avendo parte nella creazione, non esiste in tutta la natura traccia alcuna che possa anche soltanto far sospettare la sua esistenza. […] Non essendo l’autore del mondo e neppure dell’uomo, egli è anche lo straniero. In altre parole, nessun legame naturale, nessuna relazione preesistente lo collega con le creature di questo mondo e non vi è nessun obbligo da parte sua di preoccuparsi del destino dell’uomo.”1.

Considerato, dunque, che non ha parlato per mezzo dei profeti e che le uniche Scritture legittime – e persino epurate in più parti dallo stesso Marcione – sono i Vangeli, “La sola attività con la quale il Dio buono interviene nel mondo e il suo unico rapporto con esso è quello di aver mandato suo Figlio per redimere l’uomo dal mondo e dal suo dio (corsivo mio n.d.r.)”2.

In questa fulgida relazione irrelata, persino l’aspetto soteriologico del Dio buono e sconosciuto, e cioè il dono della Grazia assolutamente estranea ed estraniata che lui concede all’uomo, assume un aspetto paradossale; poiché, essendo totalmente Altro – e cioè proprio un altro Dio – non è nei suoi confronti che l’uomo ha peccato e può peccare e quindi, teoricamente, l’uomo, che non può essere peccatore se non nei confronti del dio della giustizia, non avrebbe bisogno di un riscatto dato gratuitamente, per Grazia, o di una restaurazione spirituale da parte di un Dio che non lo ha creato.

Ciò che rimane è il prezzo del riscatto determinato dal sangue di Cristo, “che non è stato dato per la remissione dei peccati o per la purificazione del genere umano dalla colpa, oppure come espiazione vicaria in adempimento della Legge – in una parola, non per la riconciliazione dell’umanità con Dio – ma per cancellare il diritto del creatore alla sua proprietà.”3.

 

 

Una delle immagini più efficaci del dio Sconosciuto – un dio minore e, forse, proletario – che con la sua sola presenza arriva a scardinare le leggi della realtà, come le regole della società, la si può ritrovare nel film “Teorema” di Pier Paolo Pasolini, opera ancor oggi considerata tra le più esoteriche e inquietanti dell’intera cinematografia italiana.

Di questo ospite inatteso, e forse non invitato, il cui arrivo viene ad essere annunciato da una lettera – consegnata da un postino cialtronesco e dionisiaco come Ninetto Davoli – in cui sono vergate le semplici e implacabili parole: “arrivo domani”, si sa soltanto che è un normale (e apparentemente banale) ragazzo come tanti altri; ma la sua venuta all’interno di quella classica famiglia dell’alta società, che lo ospita, ne provocherà, senza la minima partecipazione attiva da parte sua, l’irrimediabile fine.

Come accade a K., il protagonista del “Castello” di Kafka, che viene subito sedotto dalla cameriera Frieda in quanto straniero, così l’intera famiglia si offre al ‘ragazzo’, che accetta tale promiscuità come un’evenienza ineluttabile. L’unica che reprime il proprio desiderio sessuale nei confronti dell’Ospite, tentando il suicidio, è la cameriera di famiglia che, già prima dell’avvento dello straniero, ha in sè qualcosa di mistico e ‘deviante’.

E’ poi la volta del figlio, che gli si intrufola nel letto; del padre, durante un passaggio in auto; della madre, all’interno delle mura domestiche, e della figlia, che passa dalla venerazione per suo padre a quella per lo straniero, mimandone i gesti e le posizioni all’interno di una sorta di allucinata ritualità profana che è al tempo stesso religiosa, un’eucaristica ‘riconfigurazione’ degli oggetti e degli spazi che intercorrono tra di essi, per dirla alla Ballard 4. Né deve stupire il fatto che l’unica modalità di fruire il rapporto con una tale mistica presenza passi attraverso il sesso, perché come afferma Calasso: “Si danno due regimi dei rapporti fra gli dèi e gli uomini: la convivialità e lo stupro. Il terzo regime, quello moderno, è l’indifferenza […]”5.

Tutti i familiari, qualche tempo dopo l’amplesso, sentono il bisogno di confidarsi, di confessarsi, vergognosi e mortificati per la vita che hanno fino a quel momento condotto, con il dio Sconosciuto, il quale, quando alla fine sarà andato via per non fare più ritorno, avrà totalmente stravolto l’esistenza dei predestinati, facendo terra bruciata di tutto quello in cui avevano sempre creduto e sperato.

Il figlio, giovane studente universitario, abbandonerà gli studi per dedicarsi anima e corpo a un tipo di arte post-moderna veramente “libera”, basata sull’istintualità irrazionale e sulla totale abnegazione della stessa figura dell’artista, il quale deve come scomparire dalla sua stessa opera d’arte (altro esempio di relazione irrelata?); la figlia, la più fragile, finirà dritto al manicomio; la madre cercherà di purificarsi dalla sua precedente ninfomania, entrando in convento; la cameriera, ritiratasi dalla vita pubblica e nutrendosi solamente di erbe, comincerà ad essere considerata una santa dal popolo che si reca a trovarla in pellegrinaggio e che un giorno la vede compiere un miracolo di levitazione che ha dell’orrido e dell’inquietante; il padre, infine, cederà tutti i suoi averi e soprattutto la sua industria ai suoi operai affinchè la gestiscano come meglio credano, in una vera e propria realizzazione dell’utopia marxista, destinata però – come tutte le soteriologie di sinistra – a non essere compresa e accettata per manifesta incapacità del proletariato di prendere in mano la situazione, come si vede nell’intervista agli operai ad apertura del film, e che denuncia, con lucida anticipazione da parte di Pasolini, tutta la fallacia degli ideali post-sessantottini.

Il sacrificio operato dal padre è dunque effimero e fallimentare, perché incomprensibile alle menti dei non-eletti che realmente ‘non sanno quello che fanno’ fino a quando non impareranno a riconoscere (ecco una contraddizione in termini!) il dio Sconosciuto; o forse la fine del potere “politico” del padre – come dio della Legge e della giustizia – è una tappa necessaria all’interno di quella economia salvifica che vede trionfante appunto il Dio straniero, sconosciuto e buono. Ma come si fa a riconoscere ciò che è sconosciuto? Ecco l’inquietante interrogativo kierkegaardiano e ancor di più kafkiano, in cui risalta la colpevolezza ontologica della ‘finitudine’ umana o la colpa – e la relativa condanna – dell’innocente, “reo” di aver trasgredito una legge divina che, appunto in quanto tale, non è più scritta e forse non lo è mai stata 6.

E, a proposito di leggi non scritte, è interessante riportare qui quasi per intero il lungo monologo sul nuovo tipo di arte che (come accennavamo) viene estrapolata dall’unico figlio maschio della famiglia, a seguito dell’esperienza mistica del “passaggio” del nume ignoto:

“…bisogna cercare di inventare nuove tecniche che siano irriconoscibili, che non assomiglino a nessuna operazione precedente, per evitare la puerilità, il ridicolo; costruirsi un mondo proprio, con cui non siano possibili confronti e per cui non valgano precedenti misure di giudizio, le quali devono essere nuove, come la tecnica.

Nessuno deve capire che l’autore non vale niente, che è un essere anormale, inferiore, che come un verme si contorce e striscia per sopravvivere. Nessuno deve mai coglierlo in fallo d’ingenuità, tutto deve presentarsi come perfetto, basato su regole sconosciute, e quindi non giudicabili. […] Un segno dipinto su vetro corregge, senza sporcarlo, un segno dipinto prima, su un altro vetro, e tutti dovranno credere che non si tratti del ripiego di un incapace, ma che si tratta invece di una decisione sicura, alta, imperterrita e quasi prepotente. Nessuno deve sapere che un segno riesce bene per caso e tremando. […] L’autore è un povero, tremante idiota, vive nel caso e nel rischio, disonorato come un bambino; ha ridotto la sua vita alla malinconia ridicola di chi vive degradato, dà l’impressione di qualcosa perduto per sempre”.  

 

 

Il padre urlante e nudo, spogliato di tutti i suoi averi, a conclusione del film, corre verso il deserto: un luogo dell’anima, reale ed immaginario al tempo stesso. Ed è nel deserto, dove tutto finisce, che tutto è cominciato.

E’ qui, in questa lieta desolazione, che, come viene riportato nella Bibbia (Genesi 18-15), Dio stesso scende sulla terra come un semplice uomo (uno straniero), accompagnato da altri due uomini vestiti di bianco come lui, che sono i due angeli che gli fanno da scorta.

Non appena li vede arrivare, subito Abramo si prostra ai loro piedi, invitandoli nella sua tenda affinché si riposino e rinfranchino, banchettando, prima di riprendere il cammino. In questo scenario, pasoliniano anch’esso, di nuda e dura verità, in cui ciò che conta è unicamente il rapporto dell’uomo con il suo Dio, Abramo non può fare a meno di ospitare quei tre esseri che egli vede come semplici uomini, non riconoscendoli per quello che sono, dunque, ma comprendendo in qualche modo di trovarsi in presenza del Dio sconosciuto e dei suoi due accompagnatori, che forse altro non sono che le due immagini riflesse della stessa unica Persona.

Quando poi, dopo essersi riposati e prima di congedarsi nuovamente, i tre Sconosciuti informano Abramo che Sara, la sua ormai vecchia moglie, metterà alla luce entro quello stesso anno il tanto agognato figlio, Isacco, l’ancora ignara Sara, per aver teso l’orecchio incredula e ridendo fra sé di quella affermazione, verrà redarguita pesantemente da Dio con le semplici parole: “Tu hai riso!”. E’ così che la donna, forse intuendo per la prima volta da che lo aveva ospitato, di trovarsi in presenza del Dio straniero, viene colta da un sacro terrore, cercando di negare la sua colpa e nulla suona più minaccioso e implacabile di questa semplice, reiterata, constatazione: “Si, tu hai riso!”.

 

 

“Dioniso apparve, Ospite Sconosciuto, nella casa di un vecchio giardiniere dell’Attica.”7 Icario (che viveva con la figlia Erigone) “Accolse lo Sconosciuto con il gesto abramico che invita l’angelo, lasciando vuoto nella mente il luogo dell’ospite. Da quel gesto discende ogni dono”8. Per la probità ed equità di Icario, Dioniso gli avrebbe fatto conoscere “qualcosa che nessuno aveva mai conosciuto prima: il vino. Erigone (già sedotta e concessasi allo Sconosciuto) ora versava al padre coppe e coppe di quel nuovo liquore. Icario si sentiva felice.”9 Ma, come ogni dono della rivelazione esige, questa felicità doveva essere condivisa da tutto il genere umano, anche a costo della vita, e Icario s’incamminò per l’Attica mostrando quella pianta dal succo mirabile.

“Una sera, beveva con certi pastori. Alcuni caddero in un sonno profondo. Sembrava che non dovessero più svegliarsi. I pastori cominciarono a sospettare di Icario. Non era forse venuto ad avvelenarli, per portar via i loro greggi? Sentirono allora l’estro omicida. Circondarono Icario. Uno aveva in mano un falcetto, un altro una vanga, un altro un’ascia, un altro una grossa pietra. Tutti colpirono il vecchio. E alla fine uno lo trafisse con lo spiedo della cucina. […]  Mentre moriva, Icario ricordò una piccola storia che gli era successa non molto tempo prima. Dioniso gli aveva insegnato a piantare e curare la vite. Icario ne seguiva la crescita con lo sguardo amoroso che aveva per gli alberi, nell’attesa di poter spremere con le sue mani il succo. Un giorno sorprese un capro che mangiava le foglie della vite. Sentì una grande furia e uccise il capro sul posto. Ora sapeva che quel capro era lui stesso”10.

Questo mito, oscuro e sinistro, che è anche alla base della nascita della tragedia, non poteva che finire in modo tragico: Erigone, dopo aver saputo dell’uccisione del padre, s’impicca ad un albero come Odino e Giuda; i responsabili dell’omicidio, per non aver saputo comprendere il dono divino apportato da Icario, vengono giustiziati da Aristeo, re dell’isola di Ceo, dove gli assassini si erano rifugiati; infine, per cercare di placare l’inarrestabile ondata di suicidi tra le giovani fanciulle dell’Attica a seguito dell’empietà manifestatasi in quella regione (fanciulle che s’impiccavano senza motivo apparente, ripetendo il gesto di Erigone), venne istituita una festa, su consiglio dell’oracolo di Apollo, in onore di quella figlia di contadino appesa ad un albero che ha molte affinità con l’Yggdrasill della mitologia scandinava.

Al centro della festa era il gioco dell’altalena. Poi si appendevano bambole e maschere alle fronde degli alberi. E oscillavano al vento.  

 



1 Lo Gnosticismo di Hans Jonas, Società Editrice Internazionale, Torino, 2002.        

2 Lo Gnosticismo op. cit.

3 Ibidem.

4 Soprattutto nell’opera allucinata e perturbante dal titolo “La mostra delle atrocità”, J. G. Ballard dimostra interessanti e pericolose ‘deviazioni’ dalla logica ordinaria, in concomitanza con il nesso tra psicopatologia e (nuova forma di) religione “degli spazi interni”, specie laddove si afferma che: “Più tardi, l’atto sessuale che consumarono diventò la frettolosa eucaristia delle dimensioni angolari dell’appartamento. Nelle posizioni che andavano assumendo, nel profilo delle cosce e del torace, Travis esplorava la geometria e il tempo volumetrico della camera da letto” ecc.

5 Le nozze di Cadmo e Armonia, R. Calasso, Ediz. Adelphi, 1988.

6 Al di là della colpevolezza ‘ontologica’ dell’uomo davanti a Dio, è bene sottolineare un aspetto del dono umano – e dei motivi per cui esso non viene accettato – in Kierkegaard, sul quale già G. Modica si era soffermato sul suo saggio “Fede, libertà, peccato” (Palumbo ed.), in particolare nel punto in cui afferma: “Solo una potenza infinita, osserva Kierkegaard, può rendere indipendenti e dunque pienamente liberi. L’onnipotenza è infatti la sola capace di rendersi per così dire irrelata, di ritrarsi cioè da quel che dona e a colui a cui dona, sicchè quel che essa dona è un autentico dono, ossia qualcosa di totalmente affrancato dal donatore. Infatti, “ogni potenza finita rende dipendenti” poiché, lungi dal sapersi ritrarre da ciò con cui entra in rapporto, ne rimane in qualche modo legata, rendendolo a sua volta dipendente da sé. Ecco perché: “un uomo non può mai rendere perfettamente libero un altro: colui che ha la potenza, ne è per ciò stesso legato e sempre avrà un falso rapporto rispetto a colui che vuol rendere libero”.

7 Le nozze di Cadmo e Armonia, op. cit.

8 Ibidem.

9 Ivi.

10 Ivi.