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La base “rossa” di Vicenza. Qualche riflessione

di Carlo Gambescia - 31/03/2008

 

Il fatto che l’appalto alla costruzione dell’aeroporto Dal Molin sia stato assegnato a due “cooperative rosse” (si veda http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/29-Marzo-2008/ ), merita la massima attenzione, proprio per comprendere l’importanza della posta in gioco e delle forze in campo.
La vicenda, infatti, potrebbe essere superficialmente liquidata, come l’ennesima prova della connivenza tra sinistra e interessi economici, come usa fare la stampa di destra. In realtà siamo davanti a qualcosa che va oltre i soli rapporti di potere, all’interno di una sinistra dei “buoni affari”. Il problema è sistemico e contrappone logiche sociali completamente diverse.
Cominciamo col dire che il movimento che si oppone al Dal Molin, si muove coraggiosamente nell’ambito di una razionalità finalizzata ai valori. Nel senso che, per i suoi membri, l’opposizione alla costruzione di un gigantesco aeroporto militare non è razionale rispetto al valore “pace”. Certo, vengono anche invocate ragioni di tipo organizzativo, ecologico, eccetera. Ma la ragione predominante è dettata dal “valore” pace.
Ma esiste anche un altro movimento, quello, semplificando al massimo, delle “cooperative rosse”, che agisce a vari livelli, e anche nell’ambito delle costruzioni come nel caso delle due grosse cooperative, alle quali è stato assegnato l’appalto: la CMC (Cooperativa muratori e cementisti) e il Ccc (Consorzio cooperative costruzioni), entrambi di Ravenna.
Ora, a differenza del "Movimento No Dal Molin", le due coop assegnatarie si muovono nell’ambito di una razionalità finalizzata allo scopo. Nel senso che, per i suoi membri, la costruzione di un gigantesco aeroporto militare è razionale rispetto allo scopo societario, che è quello di rispondere agli imperativi economici dell’efficienza e dell’utilità economica (in termini di profitti crescenti per i suoi associati).
Ci si può rispondere che lo scopo delle cooperative, almeno quando nacquero intorno alla metà dell’Ottocento in Gran Bretagna, diffondedosi via via anche in Italia, era quello di difendere “gli spazi sociali stravolti dallo sviluppo capitalistico, [nonché] la costruzione di istituzioni capaci di garantire ‘ai liberi produttori’ una presenza autonoma nel mercato del lavoro”, puntando così su una nuova società, da ricostruire su basi socialiste o comunque mutualiste, non regolata principalmente dalla razionalità rispetto alla scopo (si veda “Movimento Cooperativo” in Enciclopedia della sinistra Europea nel XX secolo, diretto da A. Agosti, Editori Riuniti, Roma 2000, p. 497).
Giustissimo. Ma è propro questo il punto. Perché ci aiuta capire l'avvenuta, e probabilmente inevitabile, transizione storica e sociologica, interna all movimento cooperativo, da una razionalità legata al valore (il cambiamento della società, attraverso lo strumento cooperativistico, che scorge nella pace un valore) a una razionalità legata allo scopo (l’accettazione della logica organizzativa capitalistica, fondata sul profitto, a prescindere dai valori, incluso quello della pace).
Va comunque precisato che nella realtà gestionale, le due logiche tendono sempre a confondersi, pur nel predominio di una delle due forme. E qui entra il gioco la forza sistemica del capitalismo, che in un secolo e mezzo, come la goccia che piano piano erode anche la roccia più resistente, ha praticamente ridotto al lumicino qualsiasi volontà di trasformazione socialista della società italiana, imponendo anche alle "coop rosse" la razionalità rivolta allo scopo. In particolare, questo processo sembra essere diventato più rapido nel corso degli ultimi tre decenni del Novecento, grazie ai processi di crescente deideologizzazione della cooperazione ma anche della politica, principalmente a sinistra. Per un verso è cresciuta nel movimento cooperativo la neutralità rispetto alle tradizionali identità politiche di riferimento. Mentre, per l’altro, gli stessi partiti di sinistra, a cominciare dal Pci, soprattutto dopo la caduta del Muro, hanno smesso, chi più chi meno, di rappresentare una riserva di valori socialisti, spostandosi a destra…
Di qui, purtroppo, quella pressoché scontata volontà delle “cooperative rosse” di fare affari con le forze armate americane, esito, appunto, di una accettazione della razionalità rispetto allo scopo. Ma anche la difficoltà, oggettiva, del "Movimento No Dal Molin", costretto a muoversi sullo scomodo piano della razionalità rispetto al “valore”, in un mondo apparentemente governato dall’utile. E dunque di non poter competere adeguatamente con avversari invece in piena sintonia con quella logica del profitto, e della guerra per la guerra, che oggi sembra vincere e pervadere ogni rapporto sociale.
Tuttavia, come abbiamo scritto in altre occasioni, l’ultima parola spetta sempre agli uomini, soprattutto se coraggiosi. Qui ci siamo limitati, come nostro solito, a ricostruire una genealogia sociologica della questione. Il che non significa che non ci si debba opporre alla costruzione di questa gigantesca base militare. Certo, il nemico è forte, ma non invincibile.
Viva il "Movimento No Dal Molin"!