Semi, guerre e carestie - Capitolo IV
di Romolo Gobbi - 01/04/2008
4. Sovrappopolazione, sedentarietà e guerraIn circa un milione di anni homo era passato da 125.000 individui a circa 10 milioni, alla fine del Paleolitico: la popolazione che viveva di caccia e raccolta raddoppiò dunque ogni 170.000 anni circa. Dopo l'adozione dell'agricoltura la crescita della popolazione assunse ritmi sempre più veloci; passò infatti da 10 milioni, 10.000 anni fa, a 300 milioni nell'anno primo della nostra era; raddoppiò dunque ogni 2.000 anni circa. Ci vollero poi 1.500 anni per raggiungere i 600 milioni di individui; 300 anni per raddoppiare un'altra volta, e raggiungere un miliardo e 200 milioni nel 1800; 150 anni per raggiungere due miliardi e mezzo nel 1950; 36 anni per raddoppiare un'altra volta, raggiungendo i 5 miliardi nel 1986. La crescita della popolazione è dunque diventata esponenziale dopo l'adozione dell'agricoltura, anzi iperbolica: "I periodi di tempo entro i quali la quantità ogni volta si raddoppia diventano in tal caso sempre più brevi. In assenza di limitazioni, la quantità dovrebbe diventare infinitamente grande in un tempo finito"(1).
A partire dal 1986 le previsioni sul prossimo raddoppio della popolazione umana sono state più volte modificate, perché l'adozione di politiche di controllo delle nascite da parte di vari paesi ha rallentato questa corsa verso la catastrofe. Anzi, secondo le previsioni più recenti delle Nazioni Unite (febbraio 2003), la popolazione globale raggiungerà gli otto miliardi nel 2050; dopodiché comincerà a diminuire. Ma secondo Carl Haub, del Population Reference Bureau: "Se dovesse verificarsi una nuova inversione e il tasso di fertilità, invece di scendere a 1.85, come dicono le Nazioni Unite, dovesse stabilizzarsi a quota 2.5, nel giro di un secolo la popolazione mondiale sarebbe di 27 miliardi di persone. Il pianeta potrebbe non essere in grado di sostenere un numero tale di abitanti."(2)
Non si possono certo accusare gli "inventori" dell'agricoltura per non aver previsto le catastrofiche conseguenze che avrebbe avuto la loro scelta ispirata da motivazioni irrazionali e non da calcoli demografici. I responsabili sono invece colore che continuano a propalare il mito della "scoperta dell'agricoltura" come primo passo verso il progresso della civiltà occidentale.
Indubbiamente una delle prime conseguenze dell'agricoltura fu lo sviluppo della stanzialità nelle abitudini di vita della popolazione umana, e questa fu la vera base della civilizzazione. In effetti anche nella fase della caccia e raccolta homo, nei vari stadi, aveva fissato delle dimore più o meno stabili, nelle quali poteva avvenire la spartizione del cibo, la cura dei piccoli e degli anziani, e dove nascevano i primi legami familiari. Ma, a parte le caverne, nessuna di queste dimore aveva carattere di fissità in uno specifico terreno; il nomadismo era la forma di vita più diffusa, e le dimore dovevano avere una struttura facilmente spostabile; ma: "In altri casi lo sfruttamento delle risorse poteva portare a forme protratte di sedentarietà, e a concentrazioni demografiche notevoli, fenomeni questi che erano stati tradizionalmente associati soltanto ai più tardi sviluppi agricoli" (3). Alcune di queste dimore fisse potevano essere state costruite attorno a luoghi di macellazione e conservazione della carne. Tanto più logico fu costruire dimore stabili intorno o vicino ai campi coltivati per proteggere le messi dagli erbivori e il raccolto da chiunque volesse appropriarsene. Così come già durante la fase della caccia e raccolta esistevano forme di aggregazione tra individui su base parentale, anche dopo il passaggio all'agricoltura gli uomini si unirono per la coltivazione, il raccolto, la sua conservazione e il suo consumo: "Quanto più risaliamo indietro nella storia, tanto più l'individuo - e quindi anche l'individuo che produce - si presenta privo di autonomia, come parte di un insieme più grande: dapprima ancora in modo del tutto naturale nella famiglia e nella famiglia sviluppatasi in tribù; in seguito nelle varie forme della comunità, sorte dal contrasto e dalla funzione delle tribù"(4). Dunque le prime forme di abitazione dovettero offrire il riparo a più persone contemporaneamente, e in una porzione di territorio più o meno vasta: il villaggio. I più antichi villaggi del mondo vennero costruiti da cacciatori e raccoglitori, fondamentalmente di cereali selvatici, che immagazzinavano per consumarli durante l'anno. Questi villaggi appartenevano alla cosiddetta civiltà natufiana, che prende il nome dall'uadi en natuf, e che si sviluppò sulle colline del Libano, Siria, Palestina e Giordania circa 12.000 anni fa. Il villaggio di Ein Mallaha poteva ospitare alcune centinaia di persone: "E' composto di una cinquantina di costruzioni circolari di varie dimensioni che, oltre che ad abitazioni, potevano essere adibite alla conservazione del cibo, o anche a scopi cerimoniali. I villaggi natufiani comprendevano anche pozzi sotterranei per la conservazione del raccolto e buche, probabilmente usate per arrostire i chicchi di grano"(5). Le case sorgevano lungo il pendio di colline, a vari livelli, ed erano vicine a sorgenti d'acqua o a torrenti stagionali dal cui letto si potevano raccogliere le pietre per le varie costruzioni. Nei siti natufiani, oltre ai resti delle costruzioni, è stato trovato un vasto "repertorio di utensili in pietra che comprende lame di falcetto in selce, mortai, e pietre da macina, spesso costituite da blocchi di basalto. Sebbene i reperti paleobotanici siano ancora scarsi, sembrerebbe che gli abitanti dei siti natufiani sfruttassero i cereali selvatici; fra i resti animali si contano daini, gazzelle, capre selvatiche, cinghiali e bovini selvatici, ma, ad eccezione del cane, non sembra attestata con certezza la domesticazione animale"(6). I villaggi natufiani avevano mediamente 150 abitanti, i cui rapporti erano regolati da prime forme di organizzazione gerarchica, anche se all'interno di legami di consanguineità. Le posizioni sociali di prestigio vengono dedotte dalle tombe, alcune delle quali erano particolarmente ricche di corredi funerari comprendenti: "ornamenti come pendenti e perline, per lo più di osso o di conchiglia. Spesso essi erano incorporati anche in forme più elaborate come copricapo, collane e braccialetti. Un elemento decorativo assai diffuso e chiaramente associato a posizioni sociali di grande prestigio era costituito dalle conchiglie del genere Dentalium, che provenivano da zone più lontane, come il Mar Rosso, ed erano, come abbiamo visto, oggetto di scambio con le popolazioni della cultura Mushiabian."(7). La civiltà natufiana scomparve, dopo circa duemila anni, intorno a 10.500 anni fa, per ragioni non ben conosciute, forse in seguito a un cambiamento climatico.
Contemporaneamente, più o meno nella stessa zona, avvenne il passaggio vero e proprio all'agricoltura con la coltivazione dei cereali e poco più tardi dei legumi: "Molto probabilmente le comunità agricole erano collocate prevalentemente nei pressi di sorgenti o fiumi o laghi in cui le granaglie venivano seminate nel terreno alluvionale senza procedere a una preparazione del suolo."(8) I villaggi di questo periodo erano ancora costituiti da case circolari od ovali, fatte con mattoni di fango essiccato, ma erano probabilmente più vasti di quelli natufiani, fino a comprendere circa 400 persone. Ma il più famoso di essi, sorto in un'oasi nella valle del Giordano, raggiunse i 2000 abitanti, ed è conosciuto come la città di Gerico: "circondata almeno in parte da mura in pietra dello spessore di tre metri, con una solida torre. Gerico è straordinariamente grande se confrontata con gli altri siti dell'epoca, per cui si è ipotizzato, anche in relazione alle mura che la circondavano, che l'antica città fosse un importante centro per il commercio di beni essenziali come sale, bitume e zolfo."(9) Nonostante quanto riferito dalla Bibbia, Gerico non venne distrutta dagli ebrei, dopo aver fatto crollare le sue mura col suono delle loro trombe, semplicemente perché Gerico è molto più antica, e forse crollò prima dell'immigrazione degli israeliti. Senz'altro la città durò a lungo, al punto che tra le sue rovine si sono trovate le tracce del passaggio alla fase della domesticazione degli animali: se negli strati più antichi i resti animali erano rappresentati prevalentemente da animali selvatici (gazzelle, volpi), negli strati di mille anni dopo (9000 anni fa) erano invece in maggioranza gli animali addomesticati (pecore e capre), anche se non era venuta meno la caccia alle gazzelle e alle volpi.
I villaggi del periodo che aveva adottato l'allevamento del bestiame, oltre all'agricoltura, erano: "caratterizzati da abitazioni più solide di fango, di forma rettangolare, suddivise in vani di varie dimensioni, contenenti focolari, forni, scale. Anche esteriormente le case sono più rifinite: pareti e pavimenti sono ricoperti di intonaco che può essere lasciato bianco o dipinto di rosso, bruno, nocciola o nero, e qualche pannello è ornato con motivi geometrici (...) Si tratta insomma del passaggio dai piccoli villaggi del periodo precedente a villaggi più grandi che possono ospitare più di un migliaio di persone."(10)
La diffusione dell'agricoltura e dell'allevamento del bestiame raggiunse aree geografiche vicine: a est verso il Tigri e l'Eufrate e a nord-ovest verso la Turchia. E proprio qui venne scoperta un'altra grande città risalente a 9000 anni fa, Çatal Hüyük, che occupava un'area di circa tredici ettari, e poteva ospitare dai cinque ai seimila abitanti: "Fin negli strati inferiori Çatal Hüyük era fatta di mattoni di argilla misti a paglia e seccati al sole, ma non cotti col fuoco. Questi mattoni presentavano in genere lo stesso formato che ha alla base l'apertura di una mano: otto per sedici per trentadue cm, dove ogni misura è il doppio della precedente [...]. Era perciò evidente che i mattoni venivano fabbricati in forme di legno di grande precisione."(11) La struttura portante era fatta da travi in legno che si incrociavano: "Çatal Hüyük era una città di case a intelaiatura reticolare visibile, costruite con lo stesso sistema delle nostre vecchie case europee."(12) Ma la cosa più sorprendente di Çatal Hüyük è la struttura stessa della città, senza strade e fatta di case una addossata all'altra, in modo da costituire un perimetro esterno inaccessibile se non dall'alto, per mezzo di scale di legno. Anche le singole abitazioni erano accessibili solo dal tetto e vi si entrava per mezzo di scale; esse erano divise in più vani: stanze da letto e cucina con focolare e forno. La struttura della città era stata chiaramente studiata per difendersi da un attacco esterno: "Essi costruirono così, vano dopo vano, un agglomerato senza vie di accesso, dove il nemico fosse costretto ad abbattere muro dopo muro per poter avanzare, trovandosi ogni volta di fronte a una famiglia pronta a difendersi, senza altra via possibile."(13) Çatal Hüyük era insomma costituita come i pueblos degli indiani d'America, il che significa che l'uomo può arrivare alle stesse soluzioni senza trasmettersele per vie culturali, usando il suo grande cervello che funziona secondo schemi fissi. Un'altra somiglianza con le abitazioni di alcune popolazioni messicane, di parecchi secoli dopo, conferma l'uniformità globale di certi comportamenti umani: "Per macabro che possa apparire le famiglie di Çatal Hüyük seppellivano i loro morti, divisi per sesso, sotto i rispettivi letti nelle loro abitazioni. Sotto un divano si trovano sempre e solo resti maschili, dunque si tratta del giaciglio del marito; sotto l'altro divano stavano solo scheletri femminili, e di bambini, quindi qui dormiva la moglie."(14) I corpi, prima di essere sepolti sotto i letti, erano stati esposti agli avvoltoi che li avevano scarnificati, usanza praticata dagli zoroastriani nell'antichità, e ancora oggi dai seguaci di Zoroastro in India, i Parsi. Si tratta comunque di una forma evidente di culto dei propri avi, praticata da molti altri popoli, dalla Cina a Roma antica, ed è chiaramente il segno di una religiosità innata.
Un altro culto era praticato dagli abitanti di Çatal Hüyük: quello del toro; in molte abitazioni vi erano appese alle pareti grandi teste di toro in terracotta, ma con corna vere: "Le teste di questo genere sono disposte in fila, fissate lungo le pareti in strati sovrapposti, così che somigliano a trofei di caccia di un cacciatore [...]. Che non si tratti di una collezione di trofei fatta semplicemente per ricordare il numero di tori uccisi risulta da altri locali destinati al culto [...]. In un locale adibito al culto del VII strato troviamo per esempio, insieme con l'immagine di un avvoltoio gigantesco, immagini di toro e crani umani [...]. In conclusione, il culto del toro può essere collegato con il culto dei morti."(15) Ma il culto del toro doveva avere anche altri significati, visto che in un altro locale dedicato al culto dello strato VI A si vede la nascita di un toro, ma non si vede alcuna traccia di una mucca, e invece vi è la figura di una donna partoriente: "Ora, siccome immediatamente sotto la partoriente, si riconosce una testa taurina, ne consegue che è la donna a partorire il toro."(16) Anche per questo mito degli antichi ittiti di Çatal Hüyük si possono trovare i riscontri nella mitologia greca (Minotauro), nella civiltà micenea, in Egitto, presso gli stessi ittiti dei millenni successivi, e, più tardi, nella civiltà etrusca, e in quella dei Galli e dei Germani. In questi casi si può pensare ad una trasmissione per via culturale del culto del toro, ma anche a un'analoga connessione cerebrale tra l'immagine di forza e virilità dell'animale e le facoltà superumane di un dio.
Gli abitanti di Çatal Hüyük furono anche abili tessitori; fabbricavano stuoie e tappeti: "In alcuni casi si è anche potuto determinare anche il disegno delle stuoie, che correva diagonalmente verso il bordo del tappeto, e che è identico a quelli tuttora usati, a oltre 8000 anni di distanza, nella piana di Konya, e nell'Anatolia meridionale."(17) Anche in questo caso di può pensare a una trasmissione per via culturale, ma altrettanto al fatto che certi schemi figurativi siano presenti nel cervello umano di qualsiasi epoca; altrimenti sarebbe inspiegabile la duratura sensazione di gradevolezza di fronte ad essi. Ma anche in altre manifestazioni umane questi antichi ittiti dimostrarono di essere dei precursori, oppure di essere giunti insieme ad altri ad apprezzare i vantaggi dell'agricoltura; infatti coltivavano: "il frutto del bagolaro, presente già negli strati più antichi della città, e che serviva manifestamente per la fabbricazione del vino. Oltre al vino era sicuramente nota la birra, che, secondo testi sacri posteriori, veniva offerta copiosamente agli dei."(18)
Il primo mito che viene demistificato dalla religiosità della città di Çatal Hüyük è quello di una fantastica civiltà delle origini di tipo matriarcale, con divinità femminili, città pacifiche senza mura, che sarebbe stata soppiantata da una civiltà maschilista di guerrieri indo-europei. (19) Infatti nella più antica civiltà del Mediterraneo si adorava una divinità prettamente maschilista, il toro, collegata a una religiosità imperniata sul culto dei morti.
Un altro mito va sfatato: quello dell'inizio della civiltà occidentale a partire dalla scoperta della scrittura da parte degli accadi-sumeri. A parte il fatto che anche la scrittura è stata "inventata" più volte e da più parti, dalla Cina all'America, in epoche diverse e senza connessioni tra di loro. Se la parola civiltà deriva dal latino civitas, cittadinanza e civis, cittadino, perché non dovrebbero essere definiti "civili" gli abitanti delle prime città della storia: Gerico e Çatal Hüyük? Indubbiamente, con la nascita della scrittura, è più facile avere notizie sulla vita e sulle vicende storiche dei popoli, sempre che non siano stati sistematicamente distrutti i testi scritti, come accadde in seguito alla Conquista cristiana delle Americhe. Relegare invece nella categoria della preistoria le civiltà delle più antiche città del mondo, sempre che l'archeologia non ci smentisca in futuro, fa parte di un euro-centrismo o di un "occidental-centrismo", che, sulla base della mancanza di una scrittura conosciuta di un popolo, lo pone automaticamente in una posizione di inferiorità e ne giustifica la conquista per portarvi la civiltà. Così è stato per l'Africa, l'Australia e l'America, e via via per tutte le parti del mondo che l'Occidente dichiarava non civilizzate. Così, per il solo fatto che non si conosce la storia di Gerico e di Çatal Hüyük, non si può negare l'evidenza che si tratti di due città fortificate, e che quindi l'invenzione della guerra le abbia precedute.
Certamente la guerra è nata con l'agricoltura; infatti, fin dall'antichità classica è stato identificato nell'atto della delimitazione del campo coltivato l'antefatto logico dell'aggressività potenziale o effettiva nel difenderlo. A maggior ragione andavano difesi i depositi dei raccolti, e le famiglie che di essi vivevano; di qui le città fortificate. Con questo non si vuol demonizzare l'agricoltura; basterebbero gli atti di cannibalismo dimostrati dai fossili di erectus ritrovati ad Atapuerca per capire che anche i cacciatori-raccoglitori non scherzavano in fatto di aggressività verso gli estranei. Certamente la densità di popolazione era così ridotta tra i cacciatori-raccoglitori da rendere quasi impossibile che gruppi diversi si incontrassero. La territorialità, che è una delle molle dell'aggressività animale, funziona solo quando il territorio è delimitato con varie manifestazioni, odorose o visive. Comunque, esistono le prove che i cacciatori-raccoglitori sopravvissuti non sono dei buoni selvaggi: "Quando gli eschimesi di Bering volevano fare la guerra per prima cosa mandavano ambasciatori ai gruppi amici, per informarli delle loro intenzioni. Poi circondavano di nascosto il villaggio nemico. Nottetempo strisciavano fino alle case degli avversari, barricavano le entrate dall'esterno e tiravano indisturbati verso i nemici attraverso gli sfiatatoi del fumo. Saccheggiavano i villaggi e depredavano i corpi dei vinti. Gli eschimesi della Baia di Bristol si portavano via le teste come trofei; esse venivano infilzate su pali, e nelle narici venivano infilate frecce incrociate [...]. Un pigmeo pedina la selvaggina e la vince d'astuzia, così quando combatte, s'avvicina di soppiatto al nemico, lo attende all'imboscata e lo abbatte con una freccia da una posizione ben coperta. [...] I Kung in armi irrompono nel campo del gruppo nemico alle prime luci dell'alba. Uccidono tutti coloro che non riescono a scappare, anche le donne e i bambini, appiccano il fuoco alle capanne e portano via come bottino tutti gli oggetti che sono in grado di trasportare"(20).
A Çatal Hüyük non sono state ritrovate armi da guerra, ma in una pittura murale, ritrovata in uno strato risalente a 8000 anni fa, è raffigurata una scena di caccia lunga oltre un metro e mezzo: "In essa si riconoscono cinque o sei uomini di diversa grandezza, armati di archi, fionde o clave: l'uomo chinato sotto il cervo più in basso adopera forse addirittura un lasso. Una parte dei cacciatori è chiaramente nuda, mentre alcuni portano un perizoma che si stacca orizzontalmente dal corpo. Il branco di cervi nobili consta di tre cervi, due cerve e due cerbiatti in fuga davanti ai cacciatori. Un cervo, gettato a terra da due uomini, sta venendo ucciso. In complesso una scena vivacissima, che ci informa tra l'altro circa le armi e la tecnica venatoria dei nostri antenati."(21) Ma i pigmei usano indifferentemente sia l'arco che le frecce per colpire sia prede che uomini. Dunque, anche senza una storia scritta, possiamo immaginare che gli abitanti di Çatal Hüyük fossero attrezzati anche per la guerra, se non di conquista, per lo meno di difesa, come peraltro è dimostrato dal lungo muro perimetrale senza accessi della città.
Accanto alla scena di caccia si è trovato un altro dipinto lungo sei metri, su tre pareti, che rappresenta un grande toro lungo più di due metri, con intorno tanti piccoli uomini, che forse stanno facendo "una danza di caccia a carattere sicuramente propiziatorio. Le figure si volgono infatti in direzioni diverse, facendo balzi e saltelli oppure stando in posizione eretta [...]; due figure della serie mediana si distinguono ulteriormente per il fatto che sono dipinte non continuamente in rosso, ma in rosso e bianco, o completamente bianco. Le figure differiscono poi in un altro particolare: sono decapitate [...]. Le due figure senza testa rappresentano delle guide morte, uomini morti durante la caccia, oppure -secondo il pittore- destinati ad essere sacrificati in occasione della prossima caccia, e perciò si muovono come vivi. "(22) Ma forse queste figure di colore diverso rappresentano dei nemici ai quali era stata tagliata la testa, un trattamento universale praticato dagli eschimesi della baia di Bristol, ai tagliatori di teste della Nuova Guinea, ai soldati gurkha.
Un altro mito viene sfatato dai reperti rinvenuti a Çatal Hüyük; infatti tra le suppellettili sono stati individuati brandelli dei "più antichi capi di vestiario dell'uomo finora rinvenuti. Si tratta di stoffa con frange e cordoncini, che già allora era stata rammendata e rattoppata con punti grossolani. Sono fili delicati e sottili, di una lana che forse è di angora, ma certo non di lino, perché la lavorazione del lino non era ancora iniziata. Ora, siccome nelle case finora dissotterrate non sono stati trovati né fusi né pesi in pietra da telaio, si può supporre che a Çatal Hüyük esistesse già una corporazione di tessitori specializzati, di cui non è stato ancora localizzato il quartiere."(23) Dunque la divisione del lavoro all'interno delle comunità apparve molto prima di quanto immaginato finora. Se poi teniamo conto che tra gli oggetti ritrovati vi sono dei piccoli cilindri di rame che appesantivano l'orlo di una gonna, o che era conosciuta la tecnica della stampa della stoffa, si può addirittura parlare dell'esistenza di una "moda" di ottomila anni fa. Più in generale, si può dire che: "Sembra insomma che abbiamo largamente sottovalutato le capacità artigianali del cosiddetto uomo dell'età della pietra, sopravvalutando invece decisamente le innovazioni delle civiltà posteriori a noi note. Sicchè, se prima poteva sembrare che Babilonesi, Sumeri, Egiziani, Fenici e Cretesi balzassero improvvisamente dal nulla, dalle 'tenebre della storia', nel pieno della loro civiltà, ora si ammette che esistettero prima di essi altri popoli con capacità differenziate che noi non avevamo saputo riconoscere."(24)
Che non si trattasse di un fenomeno isolato ma dello sviluppo di un'intera zona è confermato dai ritrovamenti di altre città simili: "In dozzine di scavi, qua e là per l'Anatolia, da Troia all'Ararat, siamo in grado di riconoscere, sia per espansione, che per evoluzione, tutto quanto abbiamo già visto in nuce a Çatal Hüyük&"(25). D'altra parte questa città era al centro di un vasto commercio: &"Infatti il legno da costruzione, come quercia e ginepro, bisogna importarlo dalle montagne. Il legno di abete veniva certo dal Tauro, l'alabastro dalla zona di Kayseri, il marmo dall'Anatolia occidentale [...]. La maggior parte delle lame e delle armi di Çatal Hüyük erano comunque di ossidiana, che non stava precisamente sull'uscio di casa, dato che ci volevano faticose marce per andarla a prendere ai margini della pianura di Konya."(26) Se a tutto questo aggiungiamo che gli abitanti di questa città sapevano fondere i metalli, saltano anche le vecchie distinzioni delle vecchie ere storiche classiche (età della pietra, del bronzo e del ferro): "Ciò significa che alcune migliaia di anni prima dell'inizio dell'età del Bronzo propriamente detta - e sottolineo alcune migliaia di anni prima!- già si sapeva come ottenere il metallo. A Çatal Hüyük rame e piombo fuso sono presenti in strati risalenti inequivocabilmente al primo neolitico."(27)
Se le armi del neolitico erano ancora appartenenti all'età della pietra, la premessa per il passaggio alle armi di metallo fu possibile per l'esperienza accumulata dagli antichi ittiti nella fusione dei metalli, e quindi non può più stupire che siano stati proprio gli ittiti a costruire le prime armi in ferro, né che gli stessi avessero scoperto il carro da guerra.
1. M. Eigen, R. Winkler, Il gioco, Adelphi, 1986, pag 183
2. Corriere della Sera, 3 febbraio 2003, Popolazione, il mondo cresce meno, pag 18
3. F. Giusti, La scimmia e il cacciatore, op cit, pag 155
4. K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, La Nuova Italia, 1963, p.5
5. F. Giusti, La nascita dell’agricoltura, op cit, pag 67
6. A.J. Ammerman, Luca Cavalli-Sforza, La transizione neolitica, Boringhieri, 1986, p.41
7. F. Giusti, op cit, pag 73
8. ivi, pag 83
9. ivi, pag 85
10. ivi, pag 87
11. J.Lehman, Gli Ittiti, Garzanti, 1997, pag 103
12. Ibidem
13. ivi, pag 106
14. ivi, pag 117
15. ivi, pag 150
16. ivi, pag 152
17. ivi, pag 121
18. ivi, pag 118
19. G. Bocchi, M. Ceruti, Origini di storie, Feltrinelli, 2000, pp 21-35
20. I.Eiibl-Eibesfeldt, op cit, pp 141-50
21. J. Lehman, op cit, pag 135
22. ivi, pag 136
23. ivi, pag 119
24. ivi, pag 123
25. ivi, pag 157
26. ivi, pag 124
27. ibidem