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La Rivoluzione d’ottobre era inevitabile? Ma, soprattutto, fu una rivoluzione?

di Francesco Lamendola - 01/04/2008

 

 

 

Allo storico marxista Roy Medvedev  va riconosciuta l’onestà intellettuale di aver agitato gli stracci in casa dello straccivendolo e di aver contestato la visione rozzamente trionfalistica della Rivoluzione d’ottobre che, fra i suoi colleghi sovietici, era praticamente d’obbligo; e questo in anni non sospetti, quando non era facile - in U.R.S.S. - sfidare certi tabù.

Nel suo saggio degli ani Settanta del secolo scorso, tradotto in italiano col titolo La Rivoluzione d’ottobre era ineluttabile? (tr. di Gianna Catullo, Roma, Editori Riuniti, 1976) egli ha affrontato di petto due questioni: se la Rivoluzione d’ottobre fu un eventi inevitabile e se la decisione di Lenin di dare l’assalto al Palazzo d’Inverno - decisione che lo vide duramente impegnato a convincere un riluttante Comitato centrale del Partito comunista -  fu prematura.

Eppure, benché sia giusto riconoscergli il merito di avere avuto una buona dose di coraggio e di aver tracciato una strada del tutto inesplorata al lavoro storiografico nell’ex Unione Sovietica, giudicata in prospettiva la sua ricerca appare ancora viziata da una distorsione ideologica: quella di dare per scontato che la cosiddetta Rivoluzione d’ottobre fu una rivoluzione.

Medvedev, in effetti, si è premurato di dare una definizione preliminare di cosa sia una rivoluzione, distinguendo un significato generale ed uno più ristretto e specifico (Op. cit., pp. 13-15).

 

“Nella prima accezione, s’intende per rivoluzione sociale una trasformazione radicale della società in senso socio-economico, il passaggio da un ordinamento socio-economico a un altro, prescindendo dalla forma politica concreta che questo passaggio viene ad assumere. (…)

“In questo senso lato del termine le rivoluzioni sociali sono inevitabili e ineluttabili. Le insurrezioni politiche del 1848-49in Germani e nell’Austria-Ungheria si risolsero in una sconfitta ma determinarono nell’Europa centrale, nella seconda metà del XIX secolo, un cambiamento radicale, e cioè il passaggio dal feudalesimo al capitalismo: si realizzò in altri termini una rivoluzione sociale che doveva però essere portata a termine, con una serie di azioni politiche, solo dopo la prima guerra mondiale. (…)

“Il concetto di ‘rivoluzione sociale’  può essere inteso tuttavia anche nel senso ristretto del termine – come fanno solitamente gli stoici sovietici – per indicare il radon e brusco passaggio del potere politico da una classe ad un’altra grazie a un’azione diretta dal basso, cioè a manifestazioni o insurrezioni popolari. (…)

“In questo senso più ristretto del termine, qualunque rivoluzione sociale nasce non solo dall’azione delle leggi interne allo sviluppo sociale, non solo dal rapporto che viene necessariamente a stabilirsi tra i diversi fattori sociali, ma anche dall’attività di singoli gruppi e partiti, nonché dall’azione di singole personalità che in un dato momento del processo rivoluzionario si trovino a capeggiare il campo della rivoluzione o il campo della reazione. Il comportamento, le scelte di questi personaggi storici non sono e non possono essere completamente determinati, ma dipendono da numerosi fattori soggettivi e fortuiti, il che conferisce inevitabilmente al corso concreto degli avvenimenti storici un elemento di incertezza e di casualità.”

 

La distinzione fra le due accezioni del termine ‘rivoluzione’ permette a Medvedev, in un certo senso, di rendere ragione del fatto che, presso gli storici occidentali, generalmente viene negato il carattere ‘ineluttabile’ della Rivoluzione d’ottobre, mentre quelli sovietici (e, in genere, marxisti) insistono sulla sua intrinseca necessità storica.

Naturalmente, da un punto di visto rigorosamente storiografico, una tale divaricazione e contrapposizione di giudizi - che, guarda caso, passava dai due lati della cortina di ferro’ -, non avrebbe alcuna giustificazione scientifica. Ma sappiamo bene che la storia non è una scienza, quindi eviteremo di fingere meraviglia o addirittura scandalo per una circostanza che la dice lunga su un fatto ben noto, e cioè fino a che punto gli studi storici dipendano da fattori ideologici contingenti che poco o nulla hanno a che vedere con lo sforzo verso l’obiettività che dovrebbe costituire il loro tratto saliente e caratteristico.

Scrive, infatti, Medvedev (Op. cit.., pp. 9-119:

 

“Una delle affermazioni che si sentono ripetere più di frequente dagli storici occidentali è che la Rivoluzione di ottobre in Russia non fu il logico risultato dei fenomeni sociali, economici e politici in atto nel paese. E, a maggior ragione, la Rivoluzione di ottobre non sarebbe pensabile a loro avviso come lo sbocco logico degli avvenimenti che si producevano a quel tempo in Europa e nel mondo. La rivoluzione d’ottobre sarebbe tata piuttosto il risultato di un concorso imprevedibile di circostanze fortuite del quale Lenin e i bolscevichi seppero abilmente approfittare. Il sovietologo inglese D. Lane scrive ad esempio: «La rivoluzione bolscevica non fu un evento inevitabile. […] Dopo l’abdicazione dello zar si creò un vuoto politico che fu colmato dai bolscevichi». E lo storico americano R. Daniels sostiene in un articolo: «La rivoluzione bolscevica fu da ogni punto di vista un disperato gioco d’azzardo con debolissime chances di successo e chances ancora più deboli di durata. Un puro caso portò Lenin al potere e gli permise di restarvi nei giorni difficili seguiti alla vittoria […]. Fu sempre un concorso di circostanze imprevedibili a determinare il discostarsi ella Russia dalla rotta abituale seguita dalle rivoluzioni moderne e ad aprire la strada a quel fenomeno unico al mondo che è il comunismo del XX secolo».

“Accanto a simili affermazioni si hanno molto spesso punti di vista diametralmente opposti sulla necessità e l’inevitabilità della realizzazione e della vittoria della Rivoluzione di ottobre.«Anche se si può dire che Lenin e i bolscevichi che erano al suo fianco hanno 'fatto' la rivoluzione - scrive J. Berger, già membro del Comintern, - si è però più vicini al vero se si afferma che furono essi stessi il risultato di una rivoluzione 'che si era compiuta'. Personalmente, sono convinto che era in atto un movimento che niente e nessuno avrebbe potuto più fermare e che […] portò in primo piano Lenin e i suoi compagni. Non voglio disconoscere l'importanza delle decine di anni di lavoro preparatorio compiuto dai rivoluzionari russi, ma è mia ferma convinzione che la ragione fondamentale della vittoria dei bolscevichi nell'ottobre fu che il popolo era con loro. La pace, la divisione delle terre, lo Stato dei soviet dei deputati operai e contadini, tutto questo, mi sembra, rispondeva alle speranze del popolo; non solo, ma furono proprio queste speranze a dettare le parole d'ordine del partito bolscevico […]. È per questo motivo che i bolscevichi riuscirono a conquistare il potere».

"Anche il filosofo russo N. Berdjaev ha parlato più di una volta, nello stile che gli è congeniale, della fatalità della Rivoluzione di ottobre e della vittoria dei comunisti. «(…) In una rivoluzione spontanea, e soprattutto in una rivoluzione generata dalla guerra, non possono mai trionfare gli elementi moderati, liberali. I principi democratici si impongono in tempo di pace, e non sempre, ma mai in epoca di rivoluzione. In un'epoca rivoluzionaria sono gli estremisti a trionfare, gli uomini inclini alla dittatura e adatti ad una dittatura. Solo una dittatura poteva mettere un freno al processo di definitiva disgregazione, al trionfo del caos e dell'anarchia […]. Solo il bolscevismo si rivelò capace di prendere in pugno la situazione, solo il bolscevismo rispondeva agli istinti delle masse, ai reali rapporti di forze. E fu […] il bolscevismo a trionfare, a trovare le parole d'ordine alle quali il popolo accettò di sottostare. È questo il merito indiscutibile del comunismo nei confronti dello Stato russo. La Russia era minacciata da un'anarchia totale, da una disorganizzazione anarchica: questa disorganizzazione fu bloccata dalla dittatura comunista».

 

Ora, è evidente quale sia la posta in gioco delle due contrapposte interpretazioni circa la 'ineluttabilità'' della Rivoluzione d'ottobre (cui la dissoluzione dell'U.R.S.S. e il crollo dell'ideologia marxista non tolgono pregnanza storiografica). Se la Rivoluzione d'ottobre fu davvero un eventi spontaneo e irrefrenabile, allora i bolscevichi altro non fecero che interpretare legittimamente una reale esigenza storica; anzi, per dirla con N. Berdjaev, ebbero il merito di salvare la Russia 'dal caos e dell'anarchia'. Se, al contrario, la Rivoluzione d'ottobre fu una 'forzatura' e un azzardo dei bolscevichi, allora questi ultimi portano la responsabilità di avere instaurato una dittatura che tolse al popolo russo la possibilità di scegliere liberamente il proprio destino e di darsi altri modelli e altri riferimenti politici, economici e culturali per uscire dall'emergenza del 1917. La posta in gioco, pertanto, è la 'legittimità' storica di quanto fecero Lenin e i suoi seguaci; e, di conseguenza, della realizzazione del primo Stato marxista al mondo.

Significativamente, un tale dibattito si concentra sull'ottobre e ignora il marzo; passa sotto silenzio il fatto che, nel 1917 (come recita il titolo dell'ottima monografia di John Shelton Curtiss) vi furono due rivoluzioni russe; nonché la circostanza che, nell'ottobre, il potere del Governo provvisorio era ridotto a un velo puramente simbolico, mentre il potere reale era già saldamente concentrato nelle mani dei Soviet, nei quali - ecco il punto -, tranne che a Pietrogrado e Mosca, i bolscevichi erano in netta minoranza. Le elezioni per l'Assemblea Costituente lo avrebbero confermato: nell'autunno-inverno  del 1917, la prima forza popolare in Russia era costituita, senza confronto, dai socialisti rivoluzionari; poi venivano i menscevichi e i bolscevichi - questi ultimi nella proporzione di 1 a 4 rispetto ai SR.

Lo stesso Medvedev, pur definendo menscevichi e SR 'partiti della piccola borghesia' (ma riconoscendo loro il titolo di socialisti e riscattandoli dal marchio di 'agenti della controrivoluzione' appioppato loro dagli storici marxisti 'ortodossi'), riconosce che i bolscevichi avevano la maggioranza dei consensi (e della forza effettiva, ossia le Guardie Rosse) solo nelle due capitali, la vecchia e la nuova; non nel resto dell'immenso Paese; e meno ancora al fronte, ove si trovava ancora un esercito di milioni di uomini, benché disorganizzati e sempre più demoralizzati, dopo il clamoroso fallimento dell'offensiva Kerenskij in Galizia orientale (Op. cit., p. 53-56):

 

"Non è difficile rendersi conto che nell'ottobre del 1917, sia a Pietrogrado che a Mosca, la vittoria dei bolscevichi era praticamente sicura; di ciò Lenin aveva cercato di convincere i suoi compagni di lotta per quasi due mesi. (...)

"Il sovietologo occidentale B. Wolfe, parlando con Kerenskij (il primo ministro ormai vegliardo (visse negli Stati Uniti fino alla morte, avvenuta sul finire degli anni sessanta), gli rivolse questa domanda: «Perché i bolscevichi non furono liquidati una volta che ebbero dichiarato pubblicamente il loro proposito di muover guerra al governo?», e Kerenskij rispose: «»E con quali forze avrei potuto farlo?.

"Secondo alcuni storici sovietici, nella sola Pietrogrado i bolscevichi disponevano alla vigilia dell'insurrezione di ottobre di almeno trecentomila uomini armati - operai, soldati, marinai - mentre il governo provvisorio contava su non più di trentamila uomini. La sera del 25 ottobre quasi venticinquemila tra guardie rosse, soldati e marinai erano concentrati intorno al palazzo d'inverno, l'ultimo rifugio del governo provvisorio. A fronteggiarli, all'interno del palazzo e sulla piazza antistante, v'erano non più di tremila uomini. (…)

"Nel resto del paese, invece, la situazione era molto più complessa: il rapporto di forze non era altrettanto netto e favorevole come a Pietrogrado. (…)

"La decisione presa da Lenin di sostituire il generale Duchonin e di nominare al suo posto u ufficiale di complemento bolscevico, Krylenko, fu un gesto estremamente arrischiato. Ma citiamo in proposito i ricordi di Stalin. «Ricordo - scrive - che Lenin, Krylenko (il futuro comandante supremo) e io ci recammo allo stato maggiore di Pietrogrado per comunicare per telegrafo direttamente con Dukhonin. Il momento era terribile. Dukhonin e lo stato maggiore rifiutavano categoricamente di eseguire l'ordine del Consiglio dei commissari del popolo a proposito del cessate il fuoco e dell'apertura dei negoziati con i Tedeschi I comandanti d'armata erano completamente nelle mani dello stato maggiore. Quanto ai soldati, nessuno sapeva che cosa avrebbe detto quell'esercito di dodici milioni di uomini che obbediva alle cosiddette organizzazioni militari, ostili al potere sovietico».

"Ancora più complessa e imprevedibile era la situazione internazionale. L'esercito russo, indebolito e demoralizzato, doveva battersi contro le truppe ancora relativamente forti e disciplinate della coalizione austro-tedesca. Gli alleati della Russia - Dgran Bretagna, Francia, Stati Uniti d'America e Giappone - disponevano di milioni di soldati, una parte dei quali poteva essere facilmente essere impiegata dall'Intesa per schiacciare la rivoluzione russa e riorganizzare il fronte occidentale [evidentemente, l'Autore usa la terminologia militare rissa dell'epoca, intendendo per 'occidentale' il fronte russo-tedesco che, in Occidente, tutti gli storici designano come 'fronte orientale', per distinguerlo da quello franco-tedesco].

"Spingendo nel senso di una rivoluzione socialista in una Russia  ancora in stato di guerra Lenin sperava che il proletariato russo avrebbe avuto ben presto l'appoggio attivo degli operai dei grandi paesi europei. Nel 1917 Lenin e gli altri dirigenti bolscevichi non osavano nemmeno pensare che la Russia potesse resistere a lungo accerchiata da un mondo capitalista ostile. Il problema era un altro: dare inizio a una rivoluzione non tanto russa quanto mondiale e resistere il più a lungo possibile, fino a quando gli altri paesi fossero stati 'maturi' per la rivoluzione. Era questo il grande piano strategico di Leni, ed era questo, al tempo stesso, l'elemento di pericolo. Era impossibile, infatti, prevedere un'infinità di fattori essenziali dai quali dipendevano la situazione internazionale e l'andamento della guerra. Lenin non s'ingannava: sapeva benissimo che fomentare un'insurrezione nelle retrovie di un esercito in guerra significava ben più che affrontare un rischio, significava affrontare il tutto per tutto. E con lui ne erano perfettamente consapevoli anche gli altri dirigenti bolscevichi."

 

Dopo una tale ammissione, ci si potrebbe aspettare che Medvedev riconosca che la Rivoluzione d'ottobre, ineluttabile o no, forse - dopotutto - non fu affatto una rivoluzione, ma qualche cosa d'altro; qualche cosa di simile a un colpo di Stato, a una conquista violenta del potere che espropriò il popolo russo,  a pochi giorni di distanza dalle elezioni per l'Assemblea Costituente, della possibilità di esprimersi liberamente circa il proprio futuro.

In effetti, lo steso Lenin e gli storici marxisti della prima generazione - a cominciare da Trotzkij nella sua tendenziosissima Storia della rivoluzione russa - percepirono la gravità, per loro, implicita in una tale interpretazione dei fatti dell'ottobre, e se ne difesero sempre sostenendo - misero gioco di parole - che il comunismo rappresenta una forma di democrazia molto più avanzata di quella borghese; e che, pertanto, le elezioni dell'Assemblea Costituente - che, ancora dopo la presa del Palazzo d'Inverno, avevano dato clamorosamente torto ai bolscevichi, e ragione ai menscevichi e soprattutto ai SR - si erano svolte in un quadro di democrazia borghese che non rispecchiava i 'veri'  sentimenti e le 'vere' aspirazioni del popolo russo.

Perfettamente logico: dal momento che il Partito comunista aveva sempre sostenuto di essere il 'vero' interprete di tali sentimenti e, soprattutto, delle reali esigenze del popolo russo. È ben per questo che la 'dittatura del proletariato' (ossia, fuor di ogni ipocrisia, del Partito comunista, anzi del suo vertice ristretto) era ritenuta una fase 'transitoria' (e si è visto…), ma assolutamente necessaria: perché solo il Partito sapeva quel che andava fatto, immediatamente dopo essersi impadronito del potere. Ossia, come dice Berdjaev, doveva 'salvare' il paese dall'anarchia…

Ma, tornando a Medvedev, bisogna rendergli atto - lo abbiamo detto fin dall'inizio - di una notevole onestà intellettuale. Egli riconosce che la Rivoluzione d'ottobre fu un 'azzardo', e che, pertanto, non fu affatto 'ineluttabile' ; non per nulla finì per essere espulso dal PCUS, per aver firmato, con i fisici Sacharov e Turchin, il cosiddetto Manifesto dei tre scienziati e per aver partecipato alla formazione del Comitato sovietico per i diritti dell'uomo. Anzi, egli si spinge ancora più in là, riconoscendo che in essa tutto fu preordinato e programmato, tutto fu pianificato militarmente, sicché - nel suo svolgimento - non vi fu assolutamente nulla di spontaneo.

Ma ascoltiamo le sue stesse parole (Op. cit., p. 52):

"La Rivoluzione di ottobre fu di fato la prima grande rivoluzione popolare nella quale il fattore della spontaneità non ebbe un'importanza decisiva la prima ad essere condotta in modo organizzato e preciso seguendo quasi passo per passo un piano prestabilito. Trovò così conferma la tesi di Lenin secondo la quale era possibile e addirittura auspicabile non solo preparare politicamente la rivoluzione, ma anche 'pianificarla' e 'organizzarla'. Contrariamente a quanto sosteneva Rosa Luxemburg, le rivoluzioni possono essere 'educate'."

 

Dal momento che nessuna rivoluzione a noi nota si è mai svolta così, Medvedev è addirittura costretto a inventarsi una nuova 'classe' di rivoluzioni, delle quali quella di ottobre sarebbe stata la prima e il modello. Delle rivoluzioni 'pianificate', 'organizzate', poco o nulla spontanee, 'organizzate con precisione'.

Possibile che uno storico onesto come Medvedev non si sia accorto che questi attributi non pertengono al campo delle rivoluzioni, ma a quello dei colpi di Stato? Eppure, lui stesso ha riconosciuto che, a Pietrogrado, i bolscevichi avevano una superiorità militare schiacciante sul Governo provvisorio, nella proporzione di almeno 10 a 1.

Non solo: egli fa l'elogio di una rivoluzione come quella di ottobre, perché si svolse praticamente senza spargimento di sangue. Questo è vero, e tutti gli storici obiettivi lo riconoscono. Ma come tacere, subito dopo, che la guerra civile russa costò milioni di morti? Forse perché la responsabilità di essa ricadde sui 'bianchi' e non sui 'rossi'? Francamente, ci sembra una tesi un po' difficile da sostenere. E non dimentichiamo che, fra quei 'bianchi', non c'erano solo generali zaristi e proprietari terrieri, ma anche operai e contadini di idee mensceviche e socialiste-rivoluzionarie, come è stato ampiamente documentato, fin dagli anni Sessanta, dalle eccellenti ricerche di Leonard Shapiro e di altri storici non sovietici.

E i milioni di morti provocati dallo stalinismo, non devono essere calcolati sul conto spese della Rivoluzione d'ottobre? No, se consideriamo lo stalinismo una 'anomala' degenerazione del marxismo-leninismo; sì, se - al contrario - in esso vediamo svilupparsi, fino alle estreme conseguenze, la logica dell'ottobre, ossia della 'dittatura del proletariato' e del Partito comunista quale custode unico e insindacabile delle vere esigenze del popolo.

 

In conclusione, ci sembra che il saggio di Roy Medvedev La Rivoluzione d'ottobre era ineluttabile? si possa considerare come il più onesto tentativo d'interpretazione dei fatti dell'ottobre 1917, da parte di uno storico marxista; e, al tempo stesso, come la prova eloquente del fatto che la storiografia marxista, per definizione, non può che produrre una interpretazione tendenziosa di quei medesimi fatti. In altri termini, il marxismo non può condannare se stesso: e in ciò risiede il dramma di quelle coscienze rette le quali, dopo avervi aderito, lo vorrebbero riformare dall'interno.

Abbiamo sostenuto in altra sede (cfr. il nostro saggio Il marxismo e il suo esito fallimentare: quale la sua eredità nell’epoca della tecnologia?, consultabile nel sito dell'Associazione Eco-Filosofica) che il marxismo fu, dal punto di vista sociologico, né più né meno che una religione, e, più precisamente, una tipica religione di salvezza: un po' come il cristianesimo delle origini, nell'ambito del mondo tardo antico. Ora, una religione soteriologica non è in alcun modo riformabile: si presenta ai suoi fedeli come l'unica strada percorribile verso la salvezza , nella logica pressante del 'tutto o niente', ovvero del 'o con noi o contro di noi'.

Il marxismo non possiede gli strumenti critici per dare torto a sé stesso, pena la sua autodistruzione: e tale, per inciso, è stata la tragedia di Gorbaciov e della perestrojka. Quando il leader del Cremlino visitò la Cina, esortò gli esponenti del governo di Pechino a prendere esempio dalla glasnost e dalle riforme da lui avviate in Unione Sovietica: chi avrebbe predetto, allora, che il regime di Pechino sarebbe durato, mentre quello sovietico aveva i mesi contati? Eppure è stato così.

Come già faceva notare Karl Popper, la principale debolezza teoretica del cosiddetto 'socialismo scientifico' risiede nella sua non falsificabilità. In altre parole, lo storico marxista, che sia veramente conseguente, non può non aver sempre ragione - come lo Spirito Assoluto di Hegel, da cui la dialettica marxista discende. Anche se i fatti hanno il pessimo gusto di starsene lì, a dargli torto.