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La rivoluzione non verrà trasmessa in TV

di Noreena Hertz* - 17/01/2006

Fonte: Nuovi Mondi Media

*Brano tratto dall'antologia Tutto in Vendita – Ogni cosa ha un prezzo. Anche noi, Nuovi Mondi Media
L'idea secondo la quale le multinazionali starebbero assumendo il ruolo dei governi potrebbe sembrare a prima vista anche attraente, ma i rischi che ne deriverebbero non ci lascerebbero possibilità di fare ricorso

J-20. Per i ben informati, l'acronimo è facile da decifrare: July 20, 2001 - 20 luglio 2001, la chiamata all'azione trasmessa a centinaia di migliaia di persone con il semplice click di un mouse. J-20, a Genova.

Ho saputo delle proteste previste a Genova tramite internet, come hanno fatto gran parte di coloro che si sono riuniti là. Una catena inviata per e-mail a migliaia di persone e inoltrata ad altrettante migliaia che, alla fine, ha raggiunto anche me. Una guerra cibernetica dichiarata con un messaggio chiaro: siate presenti, se pensate che la globalizzazione non funzioni. Siate presenti, se volete protestare contro il capitalismo globale, se pensate che le multinazionali siano troppo potenti, se non credete più che i rappresentanti da voi eletti vogliano ascoltarvi. Siate presenti, se volete essere ascoltati.

Il 20 luglio, Genova ospitava il summit annuale del G8, ed era il luogo in cui si sarebbero radunati i “veterani” delle proteste di Seattle e Melbourne, degli scontri di Londra nella City e a Parliament Square, i “veterani” di Washington, Praga, Nizza, Quebec City e Göteborg (se mai sia appropriato definire “veterani” gli aderenti a un movimento nato appena due anni prima).

Si erano riversati là a frotte: travestiti, agghindati come fatine rosa, diavoli rossi che distribuivano volantini per il boicottaggio della Bacardi, anarchici italiani con improbabili armature imbottite, ambientalisti con telefoni cellulari, borghesi dei tranquilli quartieri residenziali armati di macchine fotografiche che scattavano foto come se fossero in gita in città - una babele di lingue e intenzioni diverse riunite sotto un unico vessillo, quello dell'essere “contro”.

Ero preparata al gas lacrimogeno: avevo letto il manuale della Ruckus Society californiana (associazione di attivisti anti-globalizzazione, NdT), la lettura fondamentale di ogni manifestante, e come prescritto avevo portato con me limone, aceto e un fazzoletto da mettere sul viso, oltre a del sangue finto in una bottiglietta di shampoo (ottimo, se volete che vi lascino passare in mezzo a una folla). Ero preparata ai blocchi della polizia: avevo studiato le tattiche di disobbedienza civile e azione diretta non violenta ai laboratori cui avevo partecipato quello stesso anno, a un raduno tenutosi in una sorta di hangar nella periferia nord-occidentale di Praga. Ma nulla avrebbe potuto prepararmi a dovere contro la brutalità della polizia italiana.

Non immaginavo certo che mi sarei trovata di fronte a una così estesa comunità in grado di condividere interessi divergenti, e spesso tra loro contrastanti, a un tale senso di intrinseco cameratismo e unanime compattezza nel volersi opporre al vigente status quo. Né ero tanto meno preparata a quell'esplosione di rabbia pura, infiammata dall'insistente suono dei tamburi e dal lugubre guaito dei fischietti arcobaleno venduti a un dollaro l'uno: quella rabbia che vidi negli anarchici del black bloc intenti a fracassare le vetrine dei negozi, nella ferma determinazione dei tanti attorno a me che volevano abbattere le enormi barriere presenti in città, erette dalle autorità italiane per difendere i potenti del mondo e lasciare fuori tutti i manifestanti.

Ma la cosa a cui forse ero in assoluto meno preparata era la grande e totale disillusione che i miei interlocutori esprimevano nei confronti della politica e degli uomini politici - così come verso le corporation e gli uomini d'affari - e la misura in cui erano determinati a spezzare quella che vedevano come una cospirazione del silenzio. Tra essi un giovane a torso nudo, con le braccia aperte in segno di pace, rimasto poi in piedi anche se bersagliato dal getto di un idrante contro la schiena; o Venus, la ragazza con i capelli rosa e le stelline lucenti attaccate agli occhi, che mi ha detto nella sua dolce cadenza irlandese di essere “disposta a morire per questa causa”.

Anche se sono passati quattordici anni dall'ultima volta che i carri armati si sono diretti verso la Piazza Rossa, anche a sedici anni dall'abbattimento del muro di Berlino, anche dopo il più lungo periodo di boom economico dei tempi moderni, il dissenso continua comunque a crescere a una velocità considerevole.

Si manifesta non solo nelle centinaia di migliaia di dimostranti riunitisi a Genova o a Göteborg, a Praga o a Seattle, non solo nei guerrieri arcobaleno, ma proviene anche dalle parti più disparate e sorprendenti: persone ordinarie con vite ordinarie, casalinghe, insegnanti, oltre ad abitanti dei sobborghi residenziali e delle grandi città.

In tutto il mondo, si sollevano dubbi e preoccupazioni sulla lealtà dei governi e su quali siano i veri obiettivi delle multinazionali. Si teme che il pendolo del capitalismo abbia oscillato un po' troppo in una sola direzione, che la nostra relazione idilliaca con il libero mercato abbia occultato durissime verità, che in molti non riescano a farcela. Si teme di non poter fare affidamento sullo stato affinché tuteli i nostri interessi, di pagare un prezzo troppo alto per la nostra continua crescita economica. I dimostranti temono che il rumore del mercato stia soffocando le voci della gente.

Il lieto fine della storia cominciata a Westminster il 3 maggio 1979 (il giorno in cui Margaret Thatcher giunse al potere) e replicata poi negli Stati Uniti, in America Latina, nell'Asia orientale, in India, in gran parte dell'Africa e nel resto dell'Europa - la storia delle strade lastricate d'oro, della realizzazione del sogno americano - non viene più dato per scontato.

I miti perpetuati durante l'era della Guerra Fredda, nati dalla paura dell'indebolimento della “nostra” posizione, cominciano a venire demoliti. La ricchezza non necessariamente confluisce dall'alto al basso; ci sono limiti alla crescita; lo stato non ci proteggerà; una società unicamente guidata dalla mano invisibile del mercato non solo è imperfetta, ma è anche iniqua.

Il mondo che sta emergendo dalla Guerra Fredda è l'antitesi del mondo unico, sotto vuoto, teorizzato dagli iperglobalisti: è invece confuso, contraddittorio e mutevole. È un mondo in cui molti iniziano a sciorinare una litania di dubbi, e non alle urne, ma nelle cattedrali, nei centri commerciali e per le strade. È un mondo in cui la lealtà non può più essere determinata in maniera assoluta, e in cui le fedeltà mai messe in discussione prima cominciano a vacillare. Mentre la British Petroleum avviava un programma sul futuro del capitalismo destinato ai suoi 200 maggiori dirigenti, in cui si sarebbero discussi i meriti e i demeriti della globalizzazione, il governo laburista britannico lottava per privatizzare il controllo del traffico aereo.

Lo scenario evocato da “2001: Odissea nello spazio” in realtà si sta pericolosamente congiungendo alle visioni apocalittiche di film come “Rollerball”, “Quinto potere” e “2022: i sopravvissuti”. È un mondo in cui le corporation si stanno impossessando dello stato, in cui l'uomo d'affari sta diventando più potente dell'uomo politico e in cui gli interessi commerciali dominano incontrastati. E in cui la protesta di piazza sta rapidamente diventando l'unica maniera di intaccare la politica e di controllare gli eccessi della grande impresa.
Possiamo far risalire l'inizio dello sviluppo di questo mondo, il mondo della “Conquista Silenziosa”, all'ascesa di Margaret Thatcher. La Lady di Ferro dall'acconciatura impeccabile fece proseliti, promuovendo un certo modello di capitalismo poi adottato dal suo socio Ronald Reagan, che affidò alle corporation un potere smodato facendo guadagnare loro quote di mercato a spese non solo della politica, ma anche della democrazia. E si è trattato di un prodotto duraturo: se si esclude qualche piccola e discreta modifica, questa rimane l'ideologia dominante in gran parte del mondo moderno. La politica nell'era post-Guerra Fredda è diventata sempre più omogenea e standardizzata - una merce.

Benetton rappresenta una metafora adeguata della politica di oggi. Nel corso degli ultimi diciotto anni, la società italiana di abbigliamento ha portato avanti le più provocatorie campagne pubblicitarie mai viste. Cartelloni di sette metri rappresentanti un bambino nero che muore di fame, un malato di AIDS ripreso al momento della morte, l'uniforme insanguinata di un soldato bosniaco morto; oppure la cosiddetta campagna “United Killers of Benetton”, un supplemento di novantasei pagine con fotografie di condannati che languivano nei bracci della morte delle prigioni americane. Benetton ci ha scioccati, certo, ma senza offrire niente di più: non ci ha invitati ad agire, né ha tentato a sua volta di affrontare tali questioni. Non ha spinto ad approfondire il senso dell'immoralità della guerra, né ha cercato in alcun modo di mitigare le sofferenze della povertà o di curare l'AIDS con la sua pubblicità.

L'unico obiettivo è stato quello di aumentare le vendite, non di avviare una discussione sulla questione della pena capitale. E se nel farlo ha approfittato delle miserie altrui, che importa?

Noi viviamo in un mondo illusorio, come è lo stile di Benetton. Siamo costretti ad assistere a immagini scandalose di politici che cercano di conquistarsi il nostro favore demonizzando i loro avversari ed evidenziando i pericoli di una rappresentazione “sbagliata” del mondo.

Dicono di voler fare la differenza e cambiare le nostre vite. I partiti dominanti ci offrono presunte soluzioni e scelte diverse: i democratici ostentano virtù liberal, conservatorismo e valori repubblicani, tutto nel tentativo di assicurarsi i nostri voti.

La retorica, tuttavia, non trova una corrispondenza nella realtà. Le soluzioni che i nostri politici offrono sono fasulle quanto quelle di Benetton: una ragazza cinese a fianco di un ragazzo americano, una donna nera che si tiene per mano con una donna bianca. Modelli con volti insoliti, volti forti, a volte bellissimi, a volte no. Persone multicolori in abiti multicolori.

Le risposte politiche sono diventate illusorie quanto le file interminabili di vestiti invece tutti uguali, di magliette e cardigan identici ripiegati con cura in ogni negozio Benetton: conservatorismo e conformismo popolare par excellence. I politici offrono solo una soluzione: un sistema basato sulle teorie economiche del laissez-faire, sulla cultura del consumismo, sul potere della finanza e del libero mercato. Cercano di vendercela in diverse forme e tonalità, dal blu al rosso al giallo, ma rimane sempre un sistema in cui le corporation sono sovrane, lo stato è il suo suddito e i cittadini sono i suoi consumatori. Un tacito annullamento del Contratto Sociale.

È tuttavia innegabile che il sistema non funziona. Dietro il consenso ideologico e il presunto trionfo del capitalismo, compaiono le incrinature. Se tutto è così meraviglioso, perché le persone non si preoccupano di andare alle urne e scelgono invece di scendere in strada e nei centri commerciali? Che significato ha la democrazia se solo metà dei cittadini si reca a votare, come nelle elezioni americane che hanno contrapposto Bush a Kerry, anche se tutti sapevano che sarebbe stata una competizione serrata? Che valore ha la rappresentanza politica, se i nostri politici si piazzano al posto di comando delle imprese invece di pensare ai propri cittadini?

Ci è voluto tempo affinché le persone si decidessero ad alzare la voce per protestare, a rendersi conto che il loro stato inconsistente molto probabilmente non avrebbe consegnato il mondo pulito e sicuro in cui volevano che crescessero i loro figli. Per molto tempo, le persone non hanno mai messo in dubbio la sola ideologia esistente, il mondo omogeneo. Perché avrebbero dovuto? Per molti, la vita era tranquilla, e andava migliorando. Per gran parte degli ultimi vent'anni, il mercato azionario è stato in crescita e i tassi d'interesse in calo; mai, come in questo periodo, ci sono state tante persone proprietarie della casa in cui vivono. I due terzi di noi, nel mondo evoluto, hanno impianti televisivi propri; gran parte di noi (in Occidente, cioè) possiedono auto; i nostri bambini indossano Nike e Baby Gap. La middle class non ha fatto che crescere.

Noi siamo come immagini alimentate artificialmente che rinforzano questo sogno del capitalismo: studios cinematografici e reti televisive ne beatificano la quintessenza; le regole comunemente accettate e i pensieri prevalenti sono registrati, replicati e consolidati in Technicolor, mentre qualsiasi critica rivolta all'ortodossia viene deliberatamente repressa. Gli elementi pacifici delle proteste di Seattle, Göteborg e Genova sono entrati a malapena nei nostri schermi televisivi.

La Procter & Gamble proibisce esplicitamente di mandare in onda, insieme ai suoi spot pubblicitari, programmi “che possano in qualsiasi maniera incoraggiare l'idea che il Business sia freddo o spietato”. Viene richiesta una programmazione consona, che rafforzi l'immagine proposta dagli inserzionisti. “Ogni volta che si accende una televisione, vengono implicitamente legittimati i fondamenti politici, economici e morali di un ordine sociale all'insegna del perseguimento del profitto”.

Nel 1997 Adbusters, un'organizzazione canadese “per la mescolanza delle culture”, ha cercato di diffondere uno spot contro il consumismo, in cui un maiale protagonista di un cartone animato si sovrapponeva a una cartina dell'America del Nord schioccando un bacio e dicendo: “In media un nordamericano consuma cinque volte quello che consuma un messicano, dieci volte quello che consuma un cinese, trenta volte quello che consuma un indiano… Lasciategli finire il suo pasto. Il 28 novembre è la 'Giornata del Non Acquisto' ”.

I network televisivi statunitensi come NBC, CBS e ABC avevano nettamente rifiutato di mandare in onda l'iniziativa, rinunciando così a una forma di finanziamento. “Non vogliamo impegnarci in nessuna campagna pubblicitaria che contrasti con i nostri legittimi interessi”, ha dichiarato Richard Bitter - vice presidente e responsabile pubblicitario network NBC di General Electric Company. CBS, di Westinghouse Electric Corp, era andata oltre, rifiutando la proposta commerciale con una lettera. Aveva motivato la propria decisione sostenendo che la 'Giornata del Non Acquisto' risultava “inconciliabile con la politica economica vigente negli Stati Uniti d'America”.

Tutto questo fa parte della nostra eredità: un mondo in cui la tutela degli interessi dei consumatori è posta sullo stesso piano delle politiche economiche, un mondo dove regnano gli interessi delle corporation, un mondo dove i responsabili delle grandi multinazionali vomitano il loro linguaggio professionale all'interno dei palinsensti radio-televisivi e soffocano le nazioni con il loro stile imperialista. Le corporation sono diventate degli animali mastodontici, degli enormi colossi globali dotati di un immenso potere politico. Promosso dalle politiche governative di privatizzazione, di deregolamentazione e di liberalizzazione del mercato e dagli sviluppi tecnologici degli ultimi vent'anni, ciò che si è instaurato è un grande flusso di trasferimento del potere.

Le centinaia di gruppi multinazionali di tutto il mondo controllano attualmente circa il 20% delle risorse internazionali, e un terzo delle cento più grandi economie nel mondo sono corporation. Il volume di vendita di General Motors è maggiore del prodotto interno lordo dell'intera Africa sub-sahariana; la disponibilità finanziaria di IBM, di British Petroleum e di General Electric supera di gran lunga l'economia della maggior parte delle piccole nazioni; Walmart, il gigante dei supermercati, genera più profitti della maggior parte degli Stati dell'Europa centrale ed orientale.

La dimensione delle corporation è in crescita. Nel primo anno del nuovo millennio Vodafone si è fusa con Mannesman (per un valore di acquisto di 183 miliardi di dollari), Chrysler con Daimler (la neonata compagnia ora dà lavoro a 400.000 persone), Smith Kline Beecham con Glaxo Wellcome (ora riportano profitti, esenti da tasse, del valore di 7,6 miliardi di dollari), AOL con Time Warner per un valore di fusione di 350 miliardi di dollari - complessivamente 5.000 operazioni di fusione nel 2000, esattamente il doppio del decennio precedente. Queste fusioni hanno ridicolizzato le attività aziendali di vendita e acquisizione (M&A activity) degli anni ottanta. Ogni nuova fusione è maggiore della precedente, e i governi difficilmente tengono il passo. Ogni nuova fusione conferisce alle corporation sempre più potere. Tutti i beni che compriamo o utilizziamo - i nostri carburanti, i farmaci che i nostri medici ci prescrivono, beni essenziali come acqua, trasporti, salute e istruzione, anche i nuovi computer per le scuole e le colture che crescono nei campi attorno alle comunità urbane - sono soggetti alla stretta delle corporation, le quali, a loro piacimento, possono nutrirci, sostenerci o strangolarci.

Questo è il mondo della 'Conquista Silenziosa', il mondo in questo primo scorcio di nuovo millennio. Mentre cresce sempre più la nostra dipendenza dalle corporation, le mani dei governi appaiono legate. Il Business è al posto di guida, le corporation stabiliscono le regole del gioco. I governi sono diventati semplici referenti che garantiscono il rispetto delle norme decise da altri. Le agili corporation saltellano ora tra i banchetti offerti loro dai governi, e questi non fanno altro che cercare sempre più di portare le corporation dalla loro parte. Più di un occhio viene chiuso di fronte alle scappatoie fiscali. I magnati delle corporation ricorrono a sofisticati stratagemmi per mantenere i propri bottini offshore. News Corporation di Rupert Murdoch paga in tutto il mondo solo il 6% di tasse; in Gran Bretagna, sebbene la multinazionale di Murdoch abbia realizzato dal 1987 un volume di profitti pari a un miliardo e quattrocentomila sterline, dalla fine del 1998 essa non ha pagato nessuna tassa. Questo è un mondo in cui, sebbene l'effetto dell'evasione fiscale sia già evidente guardando all'aspetto decadente dei nostri servizi pubblici e delle nostre infrastrutture, i rappresentanti politici degli elettori si inchinano alla logica del Business, danzando come serpenti sulla melodia di un incantatore - negli Usa il governo federale sborsa ogni anno oltre 100 miliardi di dollari sotto forma di sussidi alle multinazionali.

Un tempo i governi combattevano per conquistare territori, oggi combattono per conquistare quote di mercato. Essi vedono nel loro compito principale l'assicurare un ambiente favorevole in cui il Business possa fiorire, e che a sua volta possa attrarre nuovo business. Il ruolo degli stati nazionali è diventato semplicemente quello di fornire quei beni pubblici e quelle infrastrutture di cui le corporation necessitano ai minor costi, e garantire il sistema mondiale di libero mercato.

In questo processo giustizia, equità, diritti, tutela ambientale e persino questioni di sicurezza nazionale scivolano in secondo piano. Emblematico è il caso del regime talebano, sostenuto dagli Stati Uniti fino al 1997 per gli interessi delle compagnie petrolifere Usa, nonostante la disumana noncuranza dei diritti umani. La giustizia sociale è diventata sinonimo di accesso ai mercati. Le reti della sicurezza sociale sono state indebolite. La forza dei sindacati è stata soppressa.

Nell'era moderna mai era accaduto che il gap tra la popolazione ricca e quella povera fosse così pesante, mai era accaduto che in tanti fossero così esclusi, che scomparissero i difensori degli oppressi. Quarantacinque milioni di cittadini statunitensi non possiedono assicurazione sanitaria. A Manhattan si pescano bottiglie vuote dai cassonetti dell'immondizia per recuperare quei cinque centesimi che si possono ottenere da ognuna. A Londra i lavavetri, armati di tergivetri e secchi di acqua putrida, aspettano in agguato gli automobilisti agli incroci metropolitani. Gli americani spendono ogni anno otto miliardi di dollari in prodotti cosmetici mentre il mondo non riesce a trovare quei nove miliardi che secondo le stime delle Nazioni Unite sarebbero necessari per assicurare acqua potabile pulita e assistenza sanitaria a chi non ne ha accesso. Il partito laburista britannico ha dichiarato ufficialmente che la creazione di ricchezza è ora più importante della sua redistribuzione.

Negli Usa, dal 1988 al 1998, il reddito delle famiglie più povere è cresciuto di meno dell'1%, mentre quello delle classi più ricche ha registrato un balzo del 15%. A New York il 20% della popolazione più povera percepisce annualmente 10.700 dollari, il 20% di quella più ricca 152.350 dollari. I salari per coloro che si trovano ai margini sono così bassi che, nonostante il tasso di disoccupazione del paese sia contenuto, milioni di occupati Usa e un bambino su cinque vivono nella povertà.

Dagli anni venti negli Stati Uniti non era mai successo che il divario tra i ricchi e i poveri fosse così enorme. A tal proposito basta pensare alle immagini dello stadio di New Orleans durante l'emergenza Katrina, tanto per fare un esempio. Tutto ciò ricordando che la ricchezza di Bill Gates alla fine del secolo scorso eguagliava la ricchezza complessiva del 50% delle famiglie a basso reddito statunitensi. Il capitalismo ha trionfato, ma i benefici non sono equamente condivisi. I fallimenti del capitalismo sono ignorati dai governi che, grazie ai provvedimenti politici che hanno promosso, sono sempre più incapaci di affrontare le criticità di questo sistema.

Questo sistema è marcio. Gli scandali politici sono all'ordine del giorno. Persino quei politici non direttamente convolti in atti di corruzione sono sempre più indebitati o invischiati col Business. Da nessuna altra parte del mondo questo è più chiaro che negli Stati Uniti. La presidenza Clinton è stata coinvolta in uno scandalo dopo l'altro: dalle accuse per lo scandalo 'Whitewater' alle notti passate, grazie alle casse dei partiti, nella 'Lincoln bedroom' della Casa Bianca fino all'ultimo atto del chiudere un occhio sulla vicenda dell'evasore fiscale e commerciante d'armi Marc Rich.1 Per i candidati delle ultime elezioni presidenziali negli Usa, la vera abilità consisteva nel disporre di un sicuro finanziamento da parte di uno o più gruppi multinazionali.

Non è una sorpresa che la stella dei politici stia perdendo luminosità. La gente riconosce i conflitti d'interesse che gravano sulla classe politica e la loro inettitudine a risolverli, e sta iniziando a disinteressarsi delle vicende politiche en masse. Mentre gli anni ottanta avevano visto la democrazia - imbevuta di un'unica legittimazione e del sostegno delle masse - emergere in tutto il mondo come il predominante sistema di governo, gli anni novanta hanno visto le partecipazioni elettorali crollare, la classe dei partiti in declino, la stima verso gli uomini politici scendere al livello dei guardiani dei giardini pubblici. Ovunque nel mondo, dalle vecchie democrazie degli Stati Uniti e dell'Europa occidentale alle giovani nazioni dell'America Latina e dell'estremo Oriente, la gente oggi ha meno fiducia nelle istituzioni governative di quanta ne avesse dieci anni fa. Il 61% dell'elettorato britannico ha votato alle elezioni del 2001, rispetto al 69% del 1997. Negli Usa, in quasi duecento anni non era mai stata avvertita una così forte astensione dalle partecipazioni elettorali come negli ultimi dieci anni. Il giocattolo venduto dai politici sembra essersi rotto, non si ritiene più che valga la pena acquistarlo.

Questo è il mondo della 'Conquista Silenziosa': un mondo in cui le risorse delle corporation cancellano quelle delle nazioni, dove gli uomini d'affari sovrastano gli uomini politici; un mondo in cui i tre quarti dei cittadini statunitensi oggigiorno credono che il Business abbia preso potere di troppi aspetti della loro vita, un mondo in cui, nonostante la propaganda attuata dai partiti politici, sempre meno persone vanno a votare.

Le scienze economiche godono oggi di una maggiore considerazione rispetto a quelle politiche: i cittadini sono stati abbandonati, i consumatori costituiscono tutto ciò di cui bisogna preoccuparsi. 'La partecipazione ai mercati ha sostituito quella alla vita politica'.

Il Business come detto, ha esteso il proprio ruolo, arrivando a definire il dominio pubblico. Lo Stato politico è diventato lo Stato della corporation. I governi, senza nemmeno rendersi conto del passaggio di poteri, stanno rischiando di smantellare l'implicito contratto esistente tra Stato e cittadini che risiede nel cuore di ogni società. da qui il rifiuto delle urne e l'adozione di forme di partecipazione politica non tradizionali che possano proporre alternative sempre più attraenti.

Oggi ci troviamo in una congiuntura molto critica. Se non ci muoviamo, se non lanciamo la sfida alla 'Conquista Silenziosa', se non discutiamo della nostra fiducia nel sistema, se non ammettiamo la nostra responsabilità nell'aver contribuito a creare questo “nuovo ordine mondiale”, tutto andrà perduto. L'inequità dei redditi è un male non solo per le classi povere, ma anche per quelle ricche. Il persistente declino dei governi e della politica in generale è un rischio per tutti, indipendentemente da ogni singola convinzione politica. Un mondo in cui George W. Bush scavalca legge dopo legge per favorire gli interessi dei grandi gruppi, un mondo in cui Rupert Murdoch ha più potere di Tony Blair, un mondo in cui le corporation definiscono l'agenda politica è un mondo inquietante e anti-democratico.

L'idea secondo la quale le multinazionali starebbero assumendo il ruolo dei governi potrebbe sembrare a prima vista anche attraente, ma i rischi che ne deriverebbero non ci lascerebbero possibilità di fare ricorso.



Note
1 Un finanziere scappato in Svizzera per sottrarsi a una sentenza di 325 anni di carcere per associazione a delinquere, frode fiscale e violazione d'embargo in relazione alla vendita di armi a paesi nemici degli Stati Uniti, colui che aveva finanziato il partito democratico e donato due milioni di dollari alla famiglia Clinton, NdT.

 


Traduzione a cura di Silvia Magi e Luca Donigaglia
Brano tratto dall'antologia Tutto in vendita – Ogni cosa ha un prezzo. Anche noi, Nuovi Mondi Media, 2005


Noreena Hertz, condirettrice del Centre of International Business and Management di Cambridge, commentatrice della BBC e della CNN, è stata definita da 'The Observer' "una delle maggiori personalità intellettuali del mondo", mentre il 'New Statesman' l'ha nominata "Best of Young British"
In Italia ha pubblicato
“La conquista silenziosa” (Carocci, 2001) e “Un pianeta in debito” (Ponte alle Grazie, 2005)