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Giovannino Guareschi: biografia di uno scrittore

di Stenio Solinas - 02/04/2008

 

Quest’anno sono cent’anni
dalla nascita e
quaranta dalla morte,
ma che Guareschi sia
ancora e sempre vivo
non lo testimonia solo
o tanto il successo che
continua ad arridere ai suoi libri e ai passaggi
televisivi, divenuti ormai innumerevoli,
dei film della serie Don Camillo. È un qualcosa
di più sottile e che ha a che fare con il
carattere dell’uomo, il suo modo d’essere. In
fondo Guareschi è stato l’unico scrittore italiano
ad avere pagato con la galera il suo
diritto ad esprimersi in uno stato democratico,
e nella tanto citata quanto pasticciata
vicenda delle “false” lettere di De Gasperi
che ne furono la causa, il tempo ha più premiato
l’onestà cristallina di chi per sé non
chiese comunque sconti, che il combinato
disposto di ipocrisia, ferocia istituzionale,
cinismo ammantato da rispetto per la legge,
di chi lo sbattè in galera.
È un dato di fatto che Guareschi cominciò a
morire allora e che nella nuova Italia che alla
fine degli anni Cinquanta voleva svoltare a
sinistra, si decise che uno scrittore popolare
e di destra qual era lui andasse schiacciato.
L’editore Rizzoli fu in pratica costretto a
toglierlo dalla direzione di Candido, poi dalla
collaborazione allo stesso, per evitare
ritorsioni sui finanziamenti come produttore
cinematografico, nessun grande quotidiano
nazionale gli offrì una sponda... C’è una dittatura
del silenzio che è più efficace di quella
che ti nega con la violenza la libertà di parola.
Ti lascia libero di parlare, ma fa finta che
tu non esista, ti toglie gli spazi, ti trasforma
in una via di mezzo fra la macchietta e il
sopravvissuto. Quello oche non poterono
togliergli furono i lettori dei suoi libri, perché,
e questa fu comunque la sua consolazione,
Guareschi era un autore da decine di
migliaia di copie (nel tempo, e complessivamente,
da milioni)...
E tuttavia, prima e a fianco dello scrittore,
c’era stato negli anni Trenta il genio del Bertoldo
e negli anni Quaranta e sino all’arresto
il genio di Candido, ovvero il più incredibile
fenomeno di giornalismo umoristico politico,
un termometro perfetto per capire gli
umori e il costume di una nazione. Togliendo
di mezzo il giornalista, la politica italiana,
ma meglio sarebbe dire la politica democristiana
d’allora, gli tolse l’aria e quindi lo
strangolò. Guareschi morì d’asfissia, con la
disperata consapevolezza che tutto quello
che aveva fatto non era alla fine servito a
niente, che forse avrebbe fatto meglio, come
tanti altri che con lui erano cresciuti o che da
lui erano stati tenuti a battesimo, a seguire la
corrente e a fare del conformismo ideologico
il loro nuovo credo.
In occasione di questo doppio anniversario,
Guido Conti manda in libreria un massiccio
volume dall’icastico titolo Giovannino Guareschi.
Biografia di uno scrittore (Rizzoli,
587 pagine, 21,50 euro), la prima che affronti
a tutto tondo quella che fu un’avventura
umana e intellettuale, sentimentale e sanguigna.
Perché Guareschi fu in una persona sola
tante cose: vignettista satirico, fotografo,
fondatore di giornali, sceneggiatore, autore
di teatro, polemista politico, illustratore,
autore di pubblicità per caroselli, paroliere
per canzoni, autore radiofonico e critico televisivo.
Poliedrico, tradizionalissimo, ma
all’avanguardia; non nuovo, ma di sconcertante
attualità; moderno nel nome di un’inattualità
che sapeva calarsi nel suo tempo e
tuttavia restare sopra al contingente.
Il sottotitolo della biografia, va da sé, è quello
che dà l’elemento nuovo, perché al di là
dell’infelice articolo dell’Unità che ne “salutò”
la scomparsa (“È morto lo scrittore che
non era mai nato”), la grande fortuna editoriale
di Guareschi è stata sempre derubricata
a successo di una letteratura di evasione, più
o meno dozzinale, e non si è mai voluti andare
un po’ più in profondità e rendersi conto
che dietro di esso c’era uno scrittore che
conosceva bene la tradizione letteraria popolare
italiana, uno che era perfettamente in
grado di ricollegarsi alla oralità contadina e
alla novellistica, capace quindi di creare dei
caratteri che fossero anche degli archetipi,
maschere nazionali, emblemi di una certa italianità.
Conti è anche bravo nel lasciar cadere quella
lettura spuria del binomio Don Camillo-Peppone,
divenuta di moda che – per fortuna –
lo scrittore era già morto e tendente a vedere
in quello scontro-incontro una sorta di compromesso
storico ante-litteram, la prova che
cattolici e comunisti potessero, dovessero
andare d’accordo. Non c’era naturalmente
nulla di vero, e una semplice lettura sarebbe
bastata (basterebbe) a dimostrarlo. Ma la
politica, così come aveva deciso lo strangolamento
di Guareschi, tentò anche una sorta di
contaminazione che, nel metterle l’anima in
pace, sterilizzasse quanto di più profondo
c’era nella costruzione di quell’epopea. Perché
proprio il predominio delle ideologie,
delle segreterie di partito e dei comitati centrali,
era quello che Guareschi aveva eletto
come nemico principale: i trinariciuti, il contr’ordine
compagni, le veline del Minculpop...
Non c’era un accordo fra due forze
politiche in quell’epopea, ma la
sintonia fra persone di buon
senso che scattava
sempre e
comunque
allorché Peppone
prima che comunista si
rendeva conto di essere un soggetto con la
sua testa, il suo cuore, i suoi pensieri...
Dice Conti che Guareschi fu “un tradizionalista
della modernità. Un umorista che,
attraverso la cultura delle riviste satiriche,
fiorente anche in provincia durante il fascismo,
ha filtrato l’esperienza delle avanguardie
storiche, il Futurismo innanzitutto,
mescolandolo alla comicità popolare. Senza
il suo lavoro e quello dei suoi amici e sodali,
Zavattini, Metz, Mosca, Manzoni, non
avremmo avuto il neorealismo prima e la
commedia all’italiana poi. E neppure giornali
satirici come Il Male negli anni Settanta
o i più recenti Cuore e Comix”.
Il 2008, dunque, sarà l’anno di Guareschi: lo
aprirà ufficialmente, proprio oggi a Parma, in
San Ludovico, la mostra “Giovannino Guareschi
nascita di un umorista”, lo chiuderà,
sempre a Parma, ma all’Università, il convegno
internazionale dal titolo “Giovannino
Guareschi un autore moderno”. Il che, avrebbe
detto il festeggiato, è bello e istruttivo.
Sulla sua modernità qualche cosa va detta,
perché poi non è vero, per contraddire almeno
una volta il diretto interessato, che il suo
fosse un vocabolario di duecento parole.
Guareschi fu un creatore di neologismi,
ridiede dignità alla lingua parlata e popolare,
fu molto attento nel mischiare piani alti e
piani bassi della cultura tradizionale, sveltì il
suo linguaggio, ma non lo immiserì mai,
costruì i suoi romanzi secondo un’architettura
che nasceva da un impasto intelligente del
materiale eventualmente già edito, rivisto, e
corretto e incanalato in una cornice dove
con l’ausilio di elementi retorici (i capitoli
preceduti da una sorta di riassunto ragionato
degli stessi, un deus ex machina narratore
esterno) propri della letteratura umoristica
europea trovava la sua ragion d’essere e una
nuova vita.
Dal punto di vista dell’uomo, il Guareschi
che esce dalla
biografia di
Conti non agggiunge
molto, a
quello che conosciamo.
Perché poi
egli fu uno dei pochi
scrittori veramente
pubblici
del suo tempo: da
un lato in quanto, in
forma più o meno surreale,
la sua vita privata
passò per intero
nei suoi scritti, da La
Scoperta di Milano al Corrierino
della famiglia, dai Racconti
del Boscaccio al Diario clandestino
alla Favola di Natale... E perché, da
intellettuale cosciente di
avere un pubblico e di esercitare
un’opinione,
con questo pubblico
Guareschi mantenne
un contatto trentennale, si
confidò, si confessò, lo
incitò, lo strattonò.
Due sue frasi sono
rimaste, fra le tante,
celebri e lo spiegano
meglio di qualsiasi
analisi psicologica.
Una riguarda il suo
internamento in un
campo di prigionia tedesca,
all’indomani dell’Otto
settembre del’43.
“Non muoio neanche se
mi ammazzano” si disse
mentre lo portavano in Germania. Tornò con
35 chili di meno, il cuore malandato, il fisico
stremato. Ma tornò. L’altra riguarda, appunto,
il suo rientro dopo la prigionia, in un’Italia
che si avviava verso il nuovo corso della
Repubblica e della democrazia. Incontrò il
cugino, Pietrino Bianchi, che nel dopoguerra
si sarebbe affermato come brillante critico
cinematografico. “Dove va il mondo?” gli
chiese. “A sinistra” fu la risposta. “Bene,
allora io vado a destra”.
Quello che non riuscì al fascismo, il metterlo
a tacere, in fondo riuscì proprio a questa
democrazia per la quale Gaureschi aveva fatto
molto. Il successo del fronte moderato alle
elezioni del’48 si deve anche a lui, alle sue
vignette, alla sua vis polemica e satirica.
Pensò che come ironicamente aveva fatto le
pulci al Regime e al comunismo le potesse
fare anche alla partitocrazia in generale e alla
Democrazia cristiana in particolare. Si sbagliava
e lo pagò sulla propria pelle. Era un
italiano perbene e non si è mai dovuto vergognare.