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Il cadavere rimosso di Ulrike Meinhof ingombra la coscienza della democrazia tedesca

di Francesco Lamendola - 03/04/2008

 

  

Una scia di saliva colava dalle labbra del cadavere di Ulrike Meinhof e scendeva giù, lungo la gola  ed il petto, fino all'ombelico. Come mai? Forse perché la donna era nuda quando la vita uscì dal suo corpo, e poi venne rivestita perché nessuno se ne accorgesse?

E perché gli esperti trovarono tracce di liquido seminale sulla sua biancheria intima, nonché tracce di ecchimosi sui fianchi e sul bacino? Era stata picchiata, aveva subito violenza fisica e sessuale, prima di morire?

Ed era credibile che la giornalista quarantaduenne si fosse strangolata da sé, impiccandosi con un paio di calze all'inferriata della finestra della sua cella, in un carcere tedesco di massima sicurezza come quello di Stammheim, a Stoccarda, quel 9 maggio del 1976?

Interrogativi scomodi, interrogativi politicamente molto scorretti.

Con i quali la democrazia tedesca non ha ancora fatto i conti; al contrario, ha attuato una vera e propria rimozione di tutto quel periodo storico, che pure tante cose avrebbe potuto insegnare, a chi avesse voluto ascoltarlo.

 

Nata a Oldenburg il 7 ottobre del 1964, Ulrike Meinhof aveva qualcosa della pasionaria, qualcosa di una Rosa Luxemburg: un vivo senso della giustizia, una intransigenza e una coerenza di ideali che l'avrebbero portata ben presto in rotta di collisione con i suoi colleghi giornalisti politicamente moderati e con il salotto buono della cultura della Repubblica Federale Tedesca. Amica di autorevoli esponenti dell'intellighenzia e personalmente stimata  da scrittori come Heinrich Böll, era già un personaggio scomodo, ma celebre, quando si avvicinò al movimento antinucleare tedesco. Firmava programmi per la radio e per la televisione, partecipava come ospite fissa a un talk-show di successo e insegnava part-time alla Libera università di Berlino.

Nel 1958, a ventiquattro anni, aveva incominciato la sua militanza politica, aderendo ad un gruppo d'azione contro l'atomica nell'università di Münster. Poi era diventata editorialista del giornale radicale Konkret, manifestando una crescente esasperazione per quello che lei giudicava il moderatismo dei gruppi della sinistra e per la svolta filo-fascista, sempre a suo dire, del governo della RFT. Ma il suo bersaglio principale, sul piano della politica interna, era Franz Joseph Strauss, contro il quale scriveva articoli di fuoco.

Nel 1961 Ulrikre Meinhof aveva sposato l'editore del giornale Konkret, Klaus Rainer Röhl, militante comunista; e, l'anno dopo, in settembre, le erano nate due gemelle, Bettina e Regine. Ma il suo impegno politico non era diminuito; finché, nel 1968, aveva divorziato. Le bambine erano finite in una comune hippy in Sicilia, dove un amico del padre, più tardi, le avrebbe ritrovate e riportate a casa, dal genitore.

Nubi sempre più pesanti si addensavano sulla società tedesca tra fine degli anni Sessanta e l'inizio degli anni Settanta. Le tensioni sociali erano fortissime, specie tra i giovani; la Germania Occidentale era, insieme all'Italia, il Paese d'Europa (e del mondo) dove il 1968 aveva aperto la più dura stagione di confronto politico-sociale fra capitale e lavoro, fra intellettuali e società, fra nuove generazioni e borghesia conservatrice e penpensante. Un abisso si andava scavando fra istituzioni e Paese reale, che i successi economici e il diffuso benessere non avrebbero dissimulato a lungo.

Nonostante il prestigio e il carisma di Willy Brandt (i cui discorsi venivano preparati dallo scrittore Günther Grass, l'autore del celebre Il tamburo di latta), presidente della coalizione social-liberale dal 1969, gli intellettuali più sensibili, come Heinrich Böll, intuivano che si stava avvicinando una terribile tempesta, e che solo una maggiore capacità di dialogo e di riforme, da parte delle forze politiche tradizionali, avrebbe forse potuto scongiurarla. Ma ciò avrebbe richiesto una lungimiranza e una capacità di ascolto che ben pochi, nell'ambito delle istituzioni, possedevano; e, dall'altra parte, una disponibilità al dialogo che i gruppi più estremi della sinistra giovanile rifiutavano a priori, convinti di essere alla vigilia di un grande processo rivoluzionario: di quella rivoluzione che la società tedesca non aveva mai conosciuto, almeno dopo il fallimento della grande insurrezione contadina del 1525.

 

Ecco come il giornalista Enrico Nassi ha rievocato quel periodo del movimento studentesco tedesco e della vita di Ulrike Meinhof, nel suo libro-inchiesta La banda Meinhoff (Milano, Fratelli Fabbri Editori, 1974, pp. 43-45 e 60-61), scritta, peraltro, ancora "a caldo" , ma due anni prima del tragico epilogo della sua vita, nel carcere di Stammheim.

 

"La repressione del movimento giovanile di protesta è stata particolarmente dura all'inizio del '68, dovunque., ma soprattutto nella Germania Federale. «Era inevitabile - racconta Peter Lange - perché la pace politica realizzata col governo cristiano-socialista sembrava aver dato alla potenza economica federale un carattere permanente, irreversibile. Quindi, la classe dirigente, come del resto la grande massa del 'Kleiner Mann', il ceto medio, non poteva tollerare che la protesta extraparlamentare s'incuneasse nel sistema come una bomba a miccia corta». Peter Lange, come molti esponenti dell'avanguardia rivoluzionaria che nel '67 hanno trasformato le città tedesche in teatri di battaglia, sta vivendo il suo momento di riflusso cercando di capire perché, dove, come e quando la contestazione ha sbagliato. «Nel 1967 - dice ancora - il nostro movimento era cresciuto, anche ideologicamente, passando dalla fase emotiva della sfida a quella più politica dell'alternativa rivoluzionaria. I nostri messaggi, anche i più confusi, avevano immediata risonanza in tutto il mondo occidentale, persino a Praga, dove Dubcek tentava di sperimentare un comunismo più umano La nostra capacità di mobilitazione non aveva limiti. Gli intellettuali erano con noi, qualcosa cominciava a muoversi anche nelle fabbriche. Eppure il crollo è stato improvviso e non basta a giustificarlo la violenza della repressione». Secondo un'analisi del '69 del sociologo Erwin Schiech, questo è accaduto perché la grande capacità di attrazione e di mobilitazione del movimento antiautoritario non dipendeva tanto da una convergenza politica tra avanguardia e massa giovanile, quanto dalla possibilità di far apparire la protesta come una protesta 'del' corpo studentesco. La scelta dei temi era 'giusta', perché corrispondeva a una generale insoddisfazione per la propria esistenza. I messaggi infine avevano una forte carica emozionale. «Paradossalmente - dice Lange - siamo crollati quando abbiamo capito, e cioè quando abbiamo preso coscienza dei limiti 'corporativi' del movimento studentesco, della sua radice piccolo-borghese». La realtà è che il processo di maturazione è avvenuto in modo confuso, acritico, quando l'utopia aveva già corroso il movimento come un cancro.

"La sfida al sistema era stata pesante, per il carattere di globalità in cui era maturata.; ed aveva portato alle barricate nella convinzione di «dover sfruttare la situazione 'subito', passando all'azione per dare alla teoria lo sfogo naturale della prassi». L'elaborazione di questo passaggio,  che Rudi Dutscke aveva definito 'salto di qualità', è avvenuta attraverso drammatiche rotture «e in un clima esaltante, di delirio intellettuale». Sulle barricate del movimento di protesta, e particolarmente su quelle di Berlino Ovest, per tutto l'arco del 1967 si sono dati convegno tutti gli intellettuali della contestazione. Alken Ginsberg vi ha recitato L'urlo, il suo poema più forte. Paul Sweezy e Herbert Marcuse vi hanno tenuto lezione. Giangiacomo Feltrinelli vi aveva predicato la necessità di un collegamento internazionale e di una saldatura di tutti i movimenti in lotta contro l'imperialismo, dai tupamaros del Sudamerica ai fedayn palestinesi, dai cattolici dell'IRA irlandese ai baschi di Spagna. «La guerra - diceva Giangiacomo Feltrinelli - deve essere universale»; e, citando Marcuse, aggiungeva che «con la lotta non si inizia una nuova catena di atti violenti, ma si spezza quella costituita». «Era troppo - dice oggi Peter Lange - e allo stesso tempo troppo poco: tanto, comunque, da provocare tra di noi un grosso sommovimento, con esplosione di crisi di coscienza e contrasti violenti: un terremoto che ha avuto effetti centrifughi di grande portata anche perché una caratteristica peculiare del nostro movimento ,come del resto di tutta la contestazione, è stata quella di non avere avuto né strutture né quadri né capi. Le discussioni sul primato della prassi ci hanno perciò frantumato facilmente, proprio mentre la repressione si andava sviluppando dovunque in modo organico, a giri concentrici sempre più stretti, sempre più duri». L'APO (l'associazione extraparlamentare fondata ad Hannover nel giugno del '67) si dissolve in una miriade di gruppuscoli che rivendicano autonomia d'azione accentuando il distacco e l'isolamento non solo dai corpi sociali, ma persino dalla massa studentesca, anticipando, ancora una volta, quello che poi sarebbe accaduto dovunque, particolarmente in Italia e in Francia. Le frange più politicizzate e più colte rifluiscono verso la sinistra storica, o, per lo meno, si propongono un processo di rifondazione della sinistra marxista cercando legami di classe organici e razionali. Ma la maggior parte delle mini-formazioni, spesso vaganti nella subcultura dell'hascisc e del misticismo religioso d'origine tibetana, non riescono ad inserirsi nel processo storico del riflusso e oscillano ora attratti dalla suggestione del rifiuto ed ora dal fascino dell'azione violenta…"

 

"Ulrike Meinhoff è a Berlino da qualche mese [nel 1969], scrive per Konkret, il più raffinato periodico radicale che si stampi in Europa. «Ero una bambola di lusso - dice - e ora sto cercando me stessa». È venuta da Amburgo con due gemelle di sette anni, Regina e Bettina, e un guardaroba «da puttana del sistema»; i bauli sono l'unico arredamento della casa che affitta, ma non li apre mai, preferisce comprare 'vecchi stracci' al 'mercato delle pulci' dietro la moschea pakistana, a un tiro di schioppo dal Senato che governa la città. Scrive ancora per Konkret e i suoi articoli sono molto apprezzati tra gli intellettuali di sinistra. La sua campagna di stampa cntro Franz Joseph Strauss (definito come «il più infame degli uomini politici» è stata ripresa ed elogiata dal Times di Londra. Nella kommune 1 ha conosciuto Horst Mahler che, come lei, ha abbandonato la famiglia «per tentare di vivere in modo nuovo». Hors Mahler, che la ricorda come un'arrampicatrice sociale colta elegante e sofisticata, la provoca. «La lotta di classe - le dice - non è come la carriera… Non dà pensione». Ulrike sconvolge i suoi comportamenti e lo fa lucidamente, senza aiutarsi con la droga: frequenta le cellule sindacali, e in particolare quelle degli immigrati, racconta degli scioperi 'a gatto selvaggio' dei gruppi operaistici italiani che ha intervistato a Milano, parla delle catene di montaggio che ha visto e fotografato a Torino-Mirafiori; tenta di politicizzare i ragazzi delle case di rieducazione; milita nell'APOP, l'opposizione extraparlamentare, e scrive un originale televisivo mai trasmesso, Bambule, ambientato in una casa di correzione femminile. Mahler le propone d'intervistare Andreas Baader e Gudrun Ensslin. Accetta con entusiasmo. «Il mio articolo - dice - sarà protesta, sovversione e libertà». Mantiene la parola: mai prima, su Konkret, è stata pubblicata roba così forte. Klaus Reiner Rohel, editore e redattore di Konkret, ha esitato a lungo prima di pubblicarlo e si è deciso a farlo solo 'per motivi personali': Ulrike è sua moglie e malgrado il divorzio, spera ancora che torni a vivere con lui nell'immensa villa che s'erano costruiti nel '62 alla periferia di Amburgo. L'articolo viene ripreso dai giornali di protesta in tutto il mondo occidentale: il processo a Baader diventa un 'caso nazionale' a Parigi come a Berkeley, a Roma come a Londra. Il senatore agli Interni di Berlino invece non riesce a sensibilizzare come vorrebbe la stampa tedesca benpensante: ha la frustrante sensazione che anche la repressione, come la protesta, sia entrata in fase di riflusso."

 

Andreas Baader, Gudrun Ensslin e altri due giovani di estrema sinistra erano stati condannati per una bomba incendiaria in un negozio di Francoforte.

Dopo 14 mesi erano usciti dal carcere grazie ad un ricorso, sotto sorveglianza, in attesa della nuova decisione della corte. Ma Baader, Ensslin e un terzo, Proll, si erano messi al sicuro in Svizzera, per poi rientrare clandestinamente in Germania, nel 1970. Qui, però, Baader era caduto nuovamente nelle mani della polizia ed era stato rinchiuso nel carcere di Tegel a Berlino Ovest.

Il 14 maggio 1970 fuggì dalla prigione proprio con l'aiuto di Ulrike Meinhof. Le autorità carcerarie gli avevano concesso di scrivere un libro sulla insoddisfazione giovanile e lo avevano autorizzato a  frequentare l'Istituto tedesco per i problemi sociali di Berlino Ovest (situato nel quartiere di Dahlem), allo scopo di raccogliere i materiali necessari.

Gudrun Ensslin, la sua compagna, aveva deciso di farlo evadere con qualsiasi mezzo ed era entrata in contatto con la Meinhof, che si rivelò la pedina vincente per l'azione clamorosa che avevano meticolosamente preparato.

Ecco come hanno rievocato questa fase cruciale della vita di Ulrike Meinhof i saggisti inglesi Colin e Damon Wilson (ne Il grande libro dei misteri irrisolti, apparso nel 2000 in Gran Bretagna, e tradotto in italiano da Franco Ossola per la Casa editrice Newton Compton di Roma nel 2002, pp. 609-610):

 

"14 maggio 1970. Ulrike Meinhof si presenta all'istituto per i problemi sociali. Il bibliotecario che apre la porta dice che quella mattina è giornata di chiusura. La Meinhof afferma di saperlo, ma di aver avuto il permesso di dare una mano a Andreas Baader nella stesura del suo libro. Poiché la donna è famosa e viene subito riconosciuta, questi non può immaginare che lo stia ingannando. Viene chiamato Baader, che arriva libero dalle manette. A questo punto il campanello suona di nuovo. Si presentano due donne che dicono di dover consultare con grande urgenza dei documenti. Appena la porta si apre, un uomo col volto mascherato irrompe nel locale imbracciando un'arma. All'istante le due donne estraggono altre armi dalle loro borsette e nella confusione che segue - con la gente in strada coricata a terra spaventata - Baader e Meinhof scappano da una finestra e si infilano nell'Alfa Romeo che li aspetta fuori, con alla guida Astrid, la sorella di Proll. Nella sparatoria un bibliotecario viene gravemete ferito.

"Ora Mahler predispone una fuga collettiva - lui, Baader, Ensslin e Meinhof - con meta il Medio Oriente, dove i quattro sovversivi si addestrano nei campi paramilitari nelle tecniche terroristiche presso i centri del PFLP, il Fronte Popolare per la liberazione della Palestina. È in questo momento che decidono di chiamarsi RAF (Frazione dell'Armata Rossa), a imitazione del gruppo terroristico Armata Rossa giapponese.

"Una volta rientrato in Germania, Mahler organizza colpi alle banche per poter finanziare il movimento e lui stesso, nell'ottobre del 1970, viene arrestato. Nel maggio del 1972 la RAF firma l'attentato al quartier generale del Quinto corpo d'armata americano a Francoforte, dove un colonnello trova la morte e altre tredici persone sono gravemente ferite. I danni stimati ammontano a non meno di un milione di dollari. Una telefonata anonima rivela che le bombe sono da collegarsi alla guerra del Vietnam. Il giorno dopo, alcune scatole contenenti degli ordigni esplosivi, fanno saltare la stazione di polizia di Augsburg, in Baviera, provocando il ferimento grave di cinque agenti. Passano cinque giorni e la moglie di un giudice di Karlsruhe rimane ferita seriamente per lo scoppio di un'auto bomba. Il 19 maggio, due ordigni a orologeria deflagrano negli uffici della segretaria della casa editrice di destra di Springer ad Amburgo. Infine, il 25 maggio del 1972 una violenta esplosione alla base militare americana di Heidelberg provoca la morte di tre militari e il ferimento di cinque.

"Immediatamente dopo quest'ultimo fatto, la polizia di Francoforte riceve una soffiata che conduce gli agenti nel garage di una casa a nord della città. In un box si trova tutto il materiale necessario per la fabbricazione di ordigni esplosivi. E così quando alle prime ore del 1° giugno 1972, Andreas Baader arriva al garage a bordo della sua sfavillante Porsche color lilla, trova la polizia armata che lo aspetta. In auto ci sono con lui Jan-Carl Raspe e un altro terrorista, Holger Meins. Alla vista dei poliziotti Raspe apre il fuoco e cerca di scappare, ma viene falciato. Baader e Meins riescono a infilarsi lo stesso nel garage, ma vengono catturati col lancio di gas lacrimogeni. Baader esce lievemente ferito sa un fianco, lo stesso fa Meins che si consegna in mutande ai poliziotti, con le mani ben alzate sulla testa.

"Passano sei giorni e Gudrun Ensslin viene pizzicata in una boutique di Amburgo, dove una commessa le aveva notato la pistola nella borsetta e aveva subito avvertito la polizia.

"Ulrike Meinhof viene arrestata a Hannover una settimana dopo, a seguito di una clamorosa soffiata operata dagli stessi esponenti della sinistra rivoluzionaria, convinti che la giornalista stesse per tradirli e passare su un altro fronte politico. Il 25 giugno a Stoccarda un ragazzo inglese di nome Ian MacLeod viene colpito a morte da un poliziotto che tenta di arrestarlo perché accusato di essere sul punto di acquistare clandestinamente delle armi per sostenere un gruppo eversivo.

"I componenti della banda vengono rinchiusi nel carcere di sicurezza Stammheim di Stoccarda, dove sono condannati a tre ani di detenzione."

 

Durante i Giochi olimpici di Monaco, nel 1972, alcuni terroristi arabi di Settembre nero presero in ostaggio nove atleti israeliani, ne uccisero due e posero alle autorità tedesche una serie di richieste, tra le quali il rilascio dei membri della banda Baader-Meinhof (così era ormai stata battezzata dai mass-media, anche se il cervello di essa non era la Meinhof e nemmeno Baader, ma, semmai, la Ensslin). I corpi di sicurezza tedeschi attaccarono i terroristi all'aeroporto e, nella sparatoria, trovarono la morte sia i rapitori, che gli ostaggi.

Il 27 febbraio del 1975 un gruppo di terroristi della RAF rapì il capo del Partito cristiano democratico, Peter Lorenz, e chiese in cambio la liberazione di sei terroristi (uno dei quali, Mahler, rifiutò); stranamente l'elenco non comprendeva né Baader, né Ensslin e nemmeno Meinhof. Comunque il governo cedette, e cinque terroristi vennero liberati e trasferiti all'estero.

Un nuovo tentativo per liberare i capi storici della RAF venne compiuto il 24 aprile del 1975, ad opera di un commando che si autodefiniva Holger Meins (in ricordo del terrorista deceduto in carcere l'anno precedente, in seguito a un prolungato sciopero della fame). Questa volta fu  l'ambasciata tedesco-occidentale a Stoccolma a venire presa d'assalto; ma un'esplosione accidentale mandò a monte il piano, un terrorista rimase ucciso e gli altri furono catturati e trasferiti in carcere nella Repubblica Federale Tedesca.

Infine, il 9 maggio del 1976, Ulrike Meinhof venne trovata morta nella sua cella, nelle circostanze che abbiamo descritto all'inizio di questo articolo.

 

Il processo al resto della banda, iniziato nel maggio del 1975 e definito il più imponente e costoso  della storia tedesca moderna, si concluse nell'aprile del 1977 con la condanna all'ergastolo per Baader, Ensslin e Mahler (più quindici anni aggiuntivi per una rapina in banca).

Ma non era ancora finita.

Il 13 ottobre del 1977 quattro terroristi palestinesi dirottarono un aereo della Lufthansa e, dopo una serie di scali intermedi, lo condussero all'aeroporto di Mogadiscio, in Somalia. Chiedevano la liberazione di undici membri della RAF, tra i quali i capi storici. Il 18 ottobre, truppe speciali antiterrorismo, giunte segretamente dalla Germania,  attaccarono l'aereo fermo sulla pista, penetrarono all'interno e ingaggiarono una battaglia con i dirottatori, tre dei quali  rimasero uccisi, insieme a uno dei passeggeri, mentre il quadro venne ferito.

Il mattino di quello stesso giorno, 18 ottobre (prima, quindi, dell'assalto all'aeroporto di Mogadiscio, che ebbe luogo nel pomeriggio), i corpi di Jan-Carl Raspe, Andreas Baader, Gudrun Ensslin vennero trovati morti o moribondi nel carcere di massima sicurezza di Stammheim, ove già era deceduta Ulrike Meinhof. Raspe e Baader erano stati uccisi con dei colpi di pistola, Ensslin era stata trovata impiccata alle sbarre di ferro della sua cella, proprio come Meinhof l'anno prima. Una quarta terrorista, Irmgard Moller, colpita da quattro pugnalate al petto, venne ricoverata d'urgenza per un intervento chirurgico, e salvata in extremis.

Le autorità carcerarie parlarono di un suicidio multiplo concordato fra i terroristi, e questa divenne la versione ufficiale del governo tedesco-occidentale. Ma una parte dell'opinione pubblica non ci ha mai creduto e pensa che i tre, come pure Ulrike Meinhof, vennero 'suicidati', proprio per prevenire, una volta per tutte, ogni possibile azione terroristica finalizzata a chiederne il rilascio.

 

È una pagina oscura della storia tedesca contemporanea; una pagina brutta.

Sono in molti, in moltissimi, a non voler più sapere, a non voler ricordare.

Non è un segno di buona salute, per una democrazia degna di questo nome. La verità, anche se sgradevole, deve venire alla luce.

Gli scheletri chiusi negli armadi finiscono per ammorbare l'aria, rendendola irrespirabile.

Noi, in Italia, ne sappiamo qualcosa: le molte verità negate sugli 'anni di piombo' intossicano la vita democratica, continuano ad avvelenare l'atmosfera anche dopo venti, trenta, quaranta anni (e l'anno prossimo sarà, appunto, il quarantennale della strage di Piazza Fontana).

Esattamente come nella vita dei singoli individui, nessuna società può tornare ad essere 'normale' se non dopo avere fatto i conti con il proprio passato, e averli fatti sino in fondo: senza sconti per nessuno.

Lo vogliono i vivi, lo esige il rispetto per i morti.