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Donne sole, con dignità

di Francesco Lamendola - 04/04/2008

 

 

È passata da molto l‘epoca in cui il matrimonio era visto come la meta necessaria per realizzare l’obiettivo di una vita felice, e in cui esso era considerato praticamente indispensabile perché una donna potesse realizzarsi pienamente.

Tuttavia, sia la convivenza di fatto, sia la promiscuità sessuale che lo hanno sostituito, o, più semplicemente, che lo hanno relegato in posizione cronologicamente secondaria, non hanno scalfito nel profondo, al di là delle apparenze, il vecchio assunto in base al quale la persona sola (e non single, che è cosa ben diversa) è una persona non realizzata, fallita e infelice, specialmente se si tratta di una donna.

Nonostante la cosiddetta rivoluzione sessuale degli ani Sessanta e Settanta del Novecento, nonostante il femminismo o, molto più semplicemente, il pragmatismo e perfino il cinismo con cui moltissime persone si pongono nei confronti dell’altro sesso, rimane al fondo di quasi tutti la segreta e radicata convinzione che, se non si possiede un compagno o una compagna almeno per andarci a letto, si è dei frustrati pieni di complessi, invidie e rimpianti o, quanto meno, delle persone di poco valore, che non sono amate perché non sanno voler bene a se stesse. Il grado di autostima, sempre più spesso, è legato alla propria capacità seduttiva e al numero di uomini o donne che ci si  porta a letto; e ciò, per tutta una serie di ragioni che altrove abbiamo cercato di lumeggiare, vale specialmente per il sesso femminile.

La conseguenza di tutto questo è che lo spauracchio di rimanere “zitella” è più vivo che mai, a dispetto della apparente evoluzione della società e della cultura. Un tempo, le donne senza marito venivano crudelmente derise in certe feste di paese, quando i giovanotti appendevano alle loro finestre simboli allusivi al loro forzato celibato; e la parola stessa “zitella” suonava come decisamente offensiva, al massimo come pelosamente compassionevole. Oggi, invece, le cose sono rimaste esattamente allo stesso punto: anche se non ci sono più crudeli scherzi di paese e anche se la parola tende a scomparire. Sono allo stesso punto, perché le donne sole, per prime, hanno introiettato a fondo una tale filosofia: e, se anche il mondo non le giudica, loro stesse si ergono a giudici estremamente severi di se stesse.

Esse pensano che, se non sono state capaci di acchiappare un marito, un fidanzato, un compagno o, almeno, un certo numero di amanti, vuol dire che non valgono davvero nulla: inevitabile conseguenza di una società in cui l’avere prevale sull’essere, l’apparire sul sentirsi, la vox populi sulla voce della propria interiorità; e dove i miti sociali sono costruiti dalla pubblicità televisiva più che da qualunque altro fattore, sia esso materiale o spirituale.

Naturalmente, vi è una grossa differenza tra la frustrazione della donna sola della società post-moderna e la donna non sposata di due o tre generazioni fa.

La donna non sposata si sentiva fallita perché non avrebbe potuto realizzare la sua naturale vocazione alla maternità, di cui il matrimonio era il passaggio obbligato, ma non la parte veramente essenziale; tanto è vero che la donna sposata, ma senza figli, viveva la propria condizione quasi altrettanto malinconicamente della donna che non era riuscita a trovare un marito; con l'aggravante del senso di colpa verso l'uomo e verso la sua famiglia.

Al contrario, la donna sola dei nostri giorni si sente una fallita perché non è stata capace di sedurre uno straccio di uomo, o, dopo averlo sedotto, di trattenerlo almeno un poco presso di sé; si sente umiliata non nella propria (possibile) maternità, ma nella propria concreta e immediata femminilità, nel proprio valore di appartenente al genere femminile. Un po’ come se avesse subito l’asportazione, diciamo così, mentale degli organi sessuali.

 

Grazie al cielo, non tutte le donne sole vivono la loro solitudine in questo modo.

Ve ne sono alcune che, indipendentemente dal fatto di essere (o di sentirsi) belle o meno belle, giovani o meno giovani, intelligenti o meno intelligenti, vivono con dignità la propria condizione e, pur non sfuggendo gli uomini, hanno smesso di rincorrerli per implorare quel po’ di amore che le faccia sentire veramente donne. Si sono organizzate con realismo e con buon gusto, non si vantano ma neanche si vergognano della propria solitudine; non escludono di trovare un uomo, ma non ne fanno la propria ragione di vita.

In fondo, il dramma psicologico di molte donne sole (le quali come tale lo vivono) rientra nella più vasta problematica dell’atteggiamento che gli esseri umani della società post-moderna sono in grado di elaborare nei confronti del proprio progetto di vita; a cominciare dal fatto di averne uno e di esserne consapevoli.

Dopo che il rullo compressore dell’omologazione della società di massa è passato, con la sua tremenda potenza e forza ricattatoria, sulla società del secondo Novecento, gli esseri umani (di entrambi i sessi) si possono classificare in due grandi categorie: i liberi e i sottomessi. La grande maggioranza si è sottomessa o si sta sottometendo e, in cambio delle misere sicurezze di una schiavitù dorata, ha fatto propri, ciecamente, miti e riti del consumismo più demenziale, fino a smarrire completamente la domanda di senso che è insita nella vita di ciascuno. A costoro, parafrasando Einstein, non sarebbe necessario possedere un cervello: un midollo spinale è più che sufficiente.

Non pensano più con la propria testa, non parlano con le proprie parole, non si emozionano con il proprio cuore: vivono di riflesso sugli stereotipi che vedono sul piccolo schermo, al cinema o sulle pagine dei rotocalchi illustrati, che non valgono neppure il costo della carta su cui sono stampati. Basta osservare come si vestono, come si muovono, come si esprimono o perfino come  stanno (o non sanno stare) in silenzio: burattini piuttosto che uomini; e, per giunta, burattini grottescamente truccati e dipinti da bambole sessuali. Qualche cosa che sta a mezza strada fra il patetico e il ripugnante: tanto più ripugnanti quanto più sono truccati da bambole di plastica, tanto più patetici quanto appaiono inconsapevoli di ciò che sino diventati.

Tale è il contesto in cui si colloca la situazione esistenziale della donna sola, oggi.

Al di là delle diverse reazioni, che dipendono dai tratti individuali del carattere - siano esse di fuga in avanti, verso il modello della divoratrice di uomini, vera o presunta; siano, invece, di fuga all'indietro, verso il modello regressivo (e depressivo) della rinunciataria amareggiata e piagnucolosa -, un tratto comune si può facilmente riconoscere nella maggior parte di loro: l'insoddisfazione ansiosa, il senso di fallimento, il bisogno patologico di aggrapparsi a qualcosa o la sfiducia, altrettanto patologica, in sé stesse (che, magari, si traveste con la maschera di una artificiale e aggressiva ostentazione di sicurezza).

Molto più rare sono le donne sole che hanno accettato con serenità la propria condizione e, pur non escludendo di poter fare l'incontro giusto al momento opportuno, non passano la loro vita a leccarsi le ferite di delusioni e torti più o meno immaginari, né a compiangere la propria sfortuna o a invidiare con malevolenza, e perfino con cattiveria, le altre donne che, bene o male, un uomo se lo sono trovato.

Più rare; ma esistono: e meritano tanta più stima, quanto più forte è il cima di pressione psicologica che la cultura dominante esercita su di esse - e su noi tutti.

Un caso a parte, ma altrettanto significativo e altrettanto ammirevole, è quello delle donne che scelgono di rinunciare all'uomo non per aridità di cuore o per sfiducia in se stesse e nemmeno per paura dell'altro, della vita, del domani, ma perché hanno maturato una seria vocazione religiosa e intendono seguirla sino in fondo.

 

Qualche tempo fa, ad un mercatino dell'antiquariato, ci è capitato fra le mani un vecchio Pocket Longanesi di parecchi anni fa, il cui titolo ci ha incuriosito, benché l'autore ci fosse (e ci rimanga) un perfetto sconosciuto: La donna sola (titolo originale: The Single Woman, 1952) di John Laurence (traduzione dall'inglese di Elisa Morpurgo, Milano, Longanesi & C., 1969).

Sfogliandolo, ci siamo accorti che si tratta di un libro strano, alquanto sui generis.

Tanto per cominciare, l'autore si dichiara un prete cattolico; ma, forse perché sudafricano che ha soggiornato a lungo negli Stati Uniti d'America, e precisamente a Washington, si può dire che egli sa trattare l'argomento con un taglio abbastanza spregiudicato, anche se - nell'ultima pagina, come si vedrà - non sa resistere alla tentazione di dichiarare apertamente il suo auspicio che il tipo "migliore" di donna sola (che lui chiama la realista), sia d'esempio a quelli più imperfetti (e specialmente a quello ch'egli chiama la vergine suo malgrado) nel mostrare, con la propria vita, l'importanza di una  profonda fede in Dio per accettare lietamente il proprio stato.

Benché scritto più di mezzo secolo fa, il che non è certo poco con gli attuali ritmi di trasformazione sociale, il libro offre alcune pagine interessanti e perfino belle, che ci sono parse non prive di interesse anche per uno smaliziato lettore del terzo millennio. Alcune delle sue osservazioni psicologiche ci sono sembrate fini  e pertinenti: molto meglio, comunque, di tanta robaccia che si vede in libreria, sotto la firma di qualche celebre psichiatra o sessuologo, opinionista, tuttologo; o, peggio, che ci tocca sentire alla  televisione, per bocca di qualche piccolo Narciso, ospite fisso (e sussiegoso) di qualche squallido talk-show mandato in onda nelle ore di minore ascolto.  

Abbiamo scelto, per dare un'idea del libro, di riportarne l'ultimo capitolo (pp. 217-225), intitolato, appunto, Ritratto di una realista.

 

“Un personaggio assai più confortante della vergine suo malgrado è un’altra donna senza marito che comporta in modo diverso: la realista. Anch’essa avrebbe preferito sposarsi, ma dato che non s’è sposata non vede che cosa ci sia da guadagnarci a piangervi sopra. Per quanto abbia una certa tendenza a sognare a occhi aperti,non permette che i suoi sogni sopraffacciano la realtà. Forse avrebbe potuto essere una moglie felice, forse no; ma è soltanto questione di ipotesi, mentre la sua felicità o infelicità attuali sono problemi che meritano di essere affrontati. La realista non si concede illusioni sulla vita o su se stessa.

“Ha una sua teoria che spiega perché non si è sposata, giacché sostiene che una donna intelligente deve essere capace di giustificar l’incidente del proprio celibato o la scelta di un marito; ma non considera necessario diffondere tale sua giustificazione tra amici o parenti.

Non si sente inferiore alle alte donne per il semplice fatto di non aver marito, poiché sa che vi sono donne nubili intellettualmente e fisicamente più dotate di lei, e donne maritate meno intelligenti e meno graziose di lei. Il suo amore per l’obiettività non le consente falsa modestia; la realista conosce a fondo i suoi meriti e le sue manchevolezze.

“Per l’occhio itterico del cinico il matrimonio è la prova evidente che in due si è ancora più infelici che da soli. Ma se il cinico esagera da un lato, la realista non cadrà nell’eccesso opposto, non si illuderà che il matrimonio aporia le porte di un perenne idillio; essa si rende conto che quanto meno fantasiose saranno le sue idee sulla vita coniugale, tanto maggiori saranno le probabilità di essere felice anche da sola. Manterrà una saggia via di mezzo, a prudente distanza dal cinico disprezzo e dalla lacrimosa invidia. Il matrimonio è felice quando una donna sposa l’uomo che le conviene e viceversa, e ambedue si mettono d’impegno per difendere la loro felicità da ogni insidia. Nessuna donna, a meno che si tratti di una cacciatrice di ricchezza, di una sadica o di una sciocca, sposa deliberatamente l’uomo che non fa per lei; tuttavia la realista sa che molte unioni diventano insopportabili per ambedue i coniugi. Pur essendo convinta di sapere evitare un simile errore, essa si rende conto che l’infatuazione acceca e paralizza le facoltà di giudizio.

“A conti fatti, è più facile vivere bene da soli ce in compagnia di certi uomini, e mentre bisogna essere in due per assicurare il successo di un matrimonio, chi è solo sarà responsabile soltanto di fronte a se stesso.

“La realista ammette con serenità che se non si è sposata la colpa è probabilmente sua. Se non fosse stata così esigente quando le opportunità di scelta erano maggiori, avrebbe potuto trovare un compagno. Ma con il passare degli anni, invece di rimpiangere ciò che è accaduto, pensa soprattutto a prendere il meglio di quanto accade. A certi innegabili vantaggi di una donna sposata, essa può contrapporre, ad esempio, una libertà di azione e di decisione di cui raramente godono le madri di famiglia. Essa non esclude in maniera assoluta la possibilità di sposarsi, ma sa che una donna matura è meno adattabile di una ragazza e non aspetta di trovare facilmente l’uomo col quale potrebbe essere felice.

“Prima di aver messo in chiaro il fatto che la compagnia maschile non è essenziale per la felicità di una donna, gli uomini rappresentavano per lei un grave problema, non riusciva a distinguere l’amicizia dall’amore e spesso equivocava tra i due sentimenti, procurandosi inutili dispiaceri. Ora non cade più in questo errore perché ha imparato a vivere con gli uomini, e ammette che avrebbe potuto evitare di versare tante lacrime se avesse avuto idee più precise circa il problema sessuale. Il sesso, di volta in volta, una cosa cattiva o buona, il coronamento Dell’amore o l’0arna segreta della lussuria. La realista ora non ha più dubbi in proposto, sa esattamente quel che il sesso può o non può dare a una donna, e ha scoperto perché chi parla continuamente di piaceri sessuali ne conosce in realtà ben poco.

“Se ripensa alla sua vita passata le sembra di aver percorso un lungo cammino. Ride all’idea che la gente consideri strambe le zitelle e non si preoccupa più delle frustrazioni, perché sa che le frustrazioni sono una parte inevitabile della vita di ciascuno. Le piacerebbe vivere con un uomo amato e dargli dei figli, ma ha conosciuto mogli che si angustiavano perché non potevano diventare madri, altre che non volevano bambini e mariti che non riuscivano a vivere in pace con le donne che avevano sposate.

“La realista è una vergine che non ha intenzione di cambiare stato finché l’uomo ideale non verrà a chiederla in sposa.. Ha tenuto gli occhi bene aperti ed è giunta a questa conclusione: la verginità può essere sgradevole, ma rimane un fatto positivo.

“Anche il matrimonio è un fatto positivo, ma può diventare sgradevole. Le altre alternative, comunque, , comunque le si consideri, non danno mai buoni risultati.

“La realista forse non è vergine, ma rimpiange di non esserlo e non ha intenzione di ricadere nei vecchi errori; ha capito, pagando di persona, che essere l’amante di un uomo è ben diverso che essere sua moglie.

“Gli uomini stimano l’amicizia della realista perchè essa sa capirli e apprezzarli; ed è vero, benché la comprensione della realista non sia intuitiva, , ma basata su un attento studio collettivo e individuale. Essa non sospetta che in ogni uomo si celi un satiro, ma sa però che non tutti gli uomini  sono santi. Ognuna delle sue amicizie è un mondo a sé, retto da un particolare codice. Vi sono uomini che la considerano loro pari, altri che l’amano come una sorella o come una madre.

“La realista non rincorre gli uomini, ma non li sfugge. Prima di acquistare la sua attuale esperienza ha commesso ambedue questi errori; ora invece apprezza troppo la compagnia degli uomini per evitarli, ed essi dal canto loro la trovano molto simpatica. Evitano di trasgredire le leggi dell’amicizia, anche se a volte sono tentati di farlo, perché non vogliono perdere la stima della realista. È il tipo di donna che un uomo presenta senza timore alla propria moglie e che ogni moglie intelligente dovrebbe accogliere con gioia. La prova del suo successo sta nel fatto che non ha bisogno di definire platoniche le sue amicizie, anche se in certi casi la definizione calzerebbe.

“Le donne la trovano simpatica e a volte ne sono gelose, ma senza ostilità. Capiscono che  essa è molto più felice di quanto lo siano abitualmente le nubili e se ne chiedono il perché. Per le ragazze che escono dall’adolescenza la realista è un ottimo esempio, giacché non v’è in lei nulla della vecchia zitella e la sua vita è una chiara smentita del pregiudizio che una donna, se non si sposa, avvizzisce.

“Bruttina o bellissima, la realista non è mai chiusa e opaca come la vergine suo malgrado.  Sfrutta al massimo le sue doti fisiche, intellettuali e spirituali.  La sua conversazione è brillante, i suoi abiti sono eleganti e discreti.  Sa interessare perché si interessa, è sofisticata nel miglior senso della parola, e giacché si tiene sempre in ordine perfetto, il passare degli anni  sembra accrescere anziché diminuire il suo fascino.

“Di solito la realista è una career woman, sa benissimo  dove vuole arrivare e come. Tuttavia non diventa schiava della sua professione e trova sempre il tempo per godere  delle gioie più spensierate della vita. Legge con intelligenza, sa distinguere un buon lavoro teatrale  da uno cattivo, si interessa vivamente alla vita della comunità , gioca bene a golf o a tennis o a bridge, è al corrente di quel che accade nel mondo politico. Anche l’arredamento  della sua casa reca l’impronta del suo gusto e della sua personalità. La sua vita è così bene organizzata che quando gli uffici chiudono e le luci si accendono nelle vie, la realista non indulge alla malinconia, non maledice il suo destino.  Essa infatti non ritiene che il destino sia stato ingiusto con lei,  pur ammettendo che, se potesse ricominciare tutto da capo, saprebbe sfruttare meglio certe occasioni.

“Animata da vera fede, la realista sa che lo scopo ultimo della vita  è l’amore di Dio. Senza questo amore,  l’esistenza umana diventerebbe un triste caos  concluso dalla morte.

“la realista ama tanto la vita  da non poter ammettere che la morte ne segni la fine.  Ama anche la gente, le cose,m e  sa che nell’eternità potrà dare libero sfogo  a quella ansia di felicità che la breve vita terrena  non può soddisfare.

“La realista si rende conto che fisicamente  e fisiologicamente la donna è fatta per l’amore e per la maternità; ma sa che vi sono cose ancora più importanti del sesso e considera il suo celibato non come un’ingiusta calamità, ma come parte del complicato e provvidenziale scopo della creazione. Anche se a volte se ne rammarica, non penserebbe mai di ribellarsi, perché non si considera più saggia di Dio. Gode di una pace che nulla e nessuno potrà strapparle, giacché non è di questo mondo.

“La donna priva di fede le fa pietà, e a volte si chiede come si possa vivere così, senza uno scopo. Vorrebbe aiutare l’agnostica che non sa colmare l’abisso aperto tra ciò che si ha e ciò che si vorrebbe avere; sa capire perché la materialista si aggrappa freneticamente a tutto ciò che l’esistenza può dare, senza limiti alla sua smania di amare quando e come si vuole. Se non credesse in Dio, anche la realista si unirebbe forse alla schiera di coloro che si buttano alla ricerca della felicità, convinti che la morte incalzi, seguita dal nulla.

“È possibile che un donna che non crede in Dio e nella propria immortalità arrivi a un compromesso e viva in pace con se stessa e cl mondo; ma non è il genere di pace che riesce a soddisfare la realista.

“C’è qualcosa di molto pratico nel misticismo della realista. La sua fiducia nella provvidenza di Dio non degenera mai in presunzione. Essa sa che una donna sola deve pensare al proprio avvenire, e di conseguenza predispone  con cura i suoi piani. Non si lascia tuttavia scoraggiare  se tali piani vengono sconvolti  da circostanze imprevedibili, giacché si rende conto  di non poter anticipare il futuro.  È dunque pronta a tutto, anche al matrimonio,  che essa spera, se mai le capitasse, di organizzare bene quanto la sua vita solitaria.

“La realista è una donna che preferisce sempre l’esperienza pratica alle teorie, ma che sa accettare e vagliare l’opinione degli altri.

“La realista è un esempio che non ci stancheremo mai di proporre alla vergine suo malgrado. Può capitare a tutti di non trovar marito; ma rammaricarsene  di continuo avvelenando l’esistenza propria e quella degli altri è un errore in cui si cade soltanto volontariamente. Un marito può essere di grande aiuto per una donna che cerca la felicità; ma è anche possibile che accada il contrario. E Dio, che ha creato tutte le donne, può aiutare ciascuna di loro a essere felice anche senza la cooperazione di un marito. La realista ne è convinta, e giacché il suo coraggio è saldo quanto le sue convinzioni, gli anni che passano non le fanno paura né attenuano il suo sorriso.”

 

Bella l'ultima frase: "gli anni che passano non le fanno paura né attenuano il suo sorriso.”

Infatti, solo le persone veramente adulte (siano esse uomini o donne) non temono di invecchiare e non si inacidiscono sotto il peso delle amarezze e delle delusioni che la vita, inevitabilmente, riserva a ciascuno.

Il segreto di una vita realizzata, piena e coraggiosa, sta proprio in questo concetto: imparare a vincere la paura. Non  diciamo: non averne, ciò che è impossibile, almeno qualche volta; ma imparare a vincerla.

È la paura che ci spinge ad essere delle persone mediocri, scontente e infelici; che ci rende avari e, al tempo stesso, esosi nei rapporti con gli altri; è la paura che ci rende duri e insensibili, oppure aggressivi, oppure esageratamente timidi e scoraggiati; è la paura che ci spinge a voler apparire diversi da quello che siamo, per piacere agli altri, essere accettati ed amati. Quasi tutte le cose peggiori che facciamo nella nostra vita, le scelte sbagliate, i compromessi inaccettabili, le cattiverie gratuite, gli opportunismi e le strumentalizzazioni del prossimo, sono figlie della paura. E tutte le paure, in ultima analisi, si possono ridurre a una sola: la paura della morte, di cui fa parte la paura di quella forma di vera e propria morte sociale che consiste nel non essere cercati, ammirati, apprezzati, desiderati e amati.

Solo chi smette di inseguire tutte queste cose, come se fossero dei beni in sé e non dei segni di un valore più grande, ossia del valore della propria persona, può dirsi veramente libero.

La società del consumo fa di tutto per acuire in noi il bisogno di dipendenza: compresi quei supermercati del consumo spirituale che sono le sette religiose o pseudo-religiose, le quali offrono amore e senso della vita a chi se ne sente terribilmente privo e bisognoso, in cambio di una completa sottomissione - non al Dio denaro e alla mode 'laiche' del momento, ma a qualche sedicente "maestro"  che tutto desidera, fuorché aiutare le persone a imparare a camminare con le proprie gambe sulle strade della vita.

 

Noi conosciamo alcune di queste donne sole, che hanno imparato a vincere la paura e che camminano sulle proprie gambe lungo le strade della vita.

Alcune di esse hanno dovuto anche crescere dei figli, e lo hanno saputo fare in maniera eccellente, nonostante tutte le difficoltà.

Gli anni che passano non le spaventano né attenuano il loro sorriso, perché hanno imparato il grande segreto: il non attaccamento alle cose (comprese giovinezza e bellezza), l'accettazione di se stessi, la dignità e l'autostima che provengono solo dalla coscienza di vivere una vita libera, coerente, protesa onestamente alla ricerca della verità.