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No, per favore; quell'uomo no

di Francesco Lamendola - 04/04/2008

 

 

Grazie a Dio, il carrozzone elettorale è ormai in vista del capolinea e, se non altro, la stampa e la televisione, nonché la pubblicità murale e quella porta a porta, finiranno di propinarci dosi massicce e sempre più indigeribili di sfrontate millanterie e di vergognose mistificazioni. Almeno per un po' di tempo, ci saranno risparmiate le esternazioni di Giuliano Ferrara che si è svegliato antiabortista di ferro, di Magdi Allam che vuole convertirsi al cristianesimo, di Pannella che minaccia l'ennesimo sciopero "gandhiano" della fame (col povero Gandhi che si rivolta nella tomba) perché il PD non gli ha riservato abbastanza poltrone, e via buffoneggiando.

Vengono in mente le parole di Petronio a Nerone, nella celebre finzione romanzesca del Quo vadis? di Henrik Sienkiewicz: «Incendia, ma non cantare; crocifiggi, ma non comporre poesie; sventra, ma lascia stare la cetra».

Ecco, questo vorremmo dire ai nobili esponenti della classe politica italiana: «Aumentatevi ulteriormente lo stipendio, ma non declamate giambi ed epodi sulle virtù del risparmio; raddoppiatevi lo stuolo di faccendieri, portaborse ed il servizio di auto blu, ma non rintronateci gli orecchi con le vostre omelie sulla necessità dei tagli alla spesa pubblica e dei sacrifici del contribuente; intrallazzate, speculate, trasferiti i vostri conti in qualche paradiso fiscale all'estero, ma per carità, risparmiateci almeno il tedio insopportabile delle vostre lezioncine sull'arte del buon governo, le vostre promesse sperticate di future palingenesi morali e materiali, le vostre grottesche profusioni di senso dello Stato, di amore per il bene comune, di spirito di sacrificio in nome dei più alti ideali; e ogni altra amenità di questa specie».

È vero, l'ipocrisia e un certo grado di spudoratezza ci sono sempre stati, nella politica italiana, prima e dopo l'avvento della Repubblica "democratica e antifascista". Certo, una buona dose di cinismo e di cialtroneria erano di prassi anche all'epoca d'oro dei Pentapartiti a base democristiana, degli Andreotti bis e tris, del valzer delle poltrone intorno al tavolo dei governi. Certo, la demagogia più sfrenata  l'ha fatta spesso da padrona; ad esempio quando il candidato Lauro, a Napoli, faceva distribuire agli elettori la scarpa destra, promettendo la sinistra a dopo la sua elezione in Parlamento.

Tutte queste cose le abbiamo già viste e sentite, purtroppo, fin da bambini; o le hanno viste i nostri genitori e i nostri nonni.

 

E allora, che cosa ci sarà mai di nuovo, sotto il sole della politica italiana, specie in tempo di elezioni; cosa c'è che ci spinga a dire che il segno è stato ormai passato, il segno di qualunque decenza e del comune senso del pudore?

Questo: che un minimo di ritegno, di consapevolezza e - se non altro - di senso del ridicolo, un tempo esistevano, e ora sono andati perduti; che la più svergognata gagliofferia era bensì praticata, ma nessuno aveva l'ardire di tesserne il pubblico elogio; che la corruzione, la concussione, l'evasione fiscale, il nepotismo, i privilegi, i lussi e gli sprechi della casta, con tanto di costosissimi voli sugli aerei militari per andare a vedere le partite di calcio, erano sì abitudini radicate e inveterate anche fra gli onorevoli delle passate generazioni; ma, almeno, non erano esibiti con insultante disinvoltura, non venivano ostentati alla luce del sole, né si osava sbandierarli e vantarsene, come prove tangibili di un raggiunto status symbol.

Ecco: quel che non è più tollerabile, nella coscienza del cittadino comune, è il livello inaudito di arroganza dei propri rappresentati in Parlamento e, in una certa misura, anche nelle Amministrazioni locali.

Non, almeno, mentre il paese si sta sfasciando; non mentre i prezzi erodono i salari giorno dopo giorno; non mentre decennali immondizie ci sommergono e ammorbano l'aria, l'avidità delle banche ci spreme, la rapacità del fisco ci dissangua - per tenere in piedi un sistema statale che non sa gestire, non diciamo l'Alitalia, ma neanche le ferrovie o, semplicemente, le poste. Non mentre il cittadino annaspa per arrivare a fine mese, la benzina sale alle stelle e i risparmi si volatilizzano. Non mentre le pensioni si fanno più leggere un mese dopo l'altro, le bollette si rincorrono verso l'alto a un ritmo insostenibile, ma una lettera impiega dieci giorni per fare 20 chilometri e, per prenotarsi una risonanza magnetica in ospedale, bisogna mettersi in lista d'attesa otto, dieci mesi e anche più. Non mentre, per avere giustizia in tribunale, bisogna dissanguarsi e attendere anni e anni, così come per avere l'autorizzazione a fare qualche minima e legittima ristrutturazione edilizia; mentre i furbi e i senza scrupoli, gli speculatori di professione si mettono in regola, con poca spesa, al primo condono dei tanti che lo Stato, a raffica, generosamente concede.

I signori della casta hanno gettato la maschera, se ne fregano anche delle apparenze: sono così sicuri  che nessuno oserà mai chiamarli al redde rationem, che si permettono anche il lusso di irridere la giustizia e di sbeffeggiare l'opinione pubblica. Sono così certi di aver a che fare con un gregge di pecoroni, che neanche si danno la pena di mentire con un po' di credibilità, di sprecare un minimo di fatica nell'apparire onesti e sinceri. Come Edoardo Nottola, il protagonista del bel film di Francesco Rosi Le mani sulla città, del 1963: speculatore edile e, al tempo stesso, assessore all'edilizia di una grande città come Napoli: non si preoccupano più nemmeno di salvare le apparenze.

Il conflitto d'interessi? Roba da medioevo. La coerenza, la trasparenza, il rispetto esemplare della legalità? Vecchi slogan passati di moda, che non vale neanche la pena di riesumare, perché sarebbero controproducenti. Stabilire un codice deontologico per i politici e i parlamentari, espellere chi viola le regole o si macchia di interesse privato nello svolgimento delle sue funzioni? Giustizialismo forcaiolo, attentato alla libertà del cittadino, voglia di colpo di Stato delle "toghe rosse", rigurgiti e nostalgie di concentrazionismo staliniano.

Ma quale conflitto d'interessi! Cosa c'è di strano che un ministro dei lavori pubblici sia anche uno dei maggiori costruttori edili, e che la sua azienda si aggiudichi la realizzazione di alcune delle grandi opere, decise dal governo di cui fa parte?

Già, cosa c'è di strano? Che cosa sarà mai; non si devono alimentare la cultura del sospetto e, peggio, la cultura dell'odio!

E che cosa c'è di strano che un imprenditore ricchissimo, che in Francia non ha potuto acquistare neanche la quarta parte di una rete televisiva nazionale, ma che in Italia ne possiede per intero tre, più tutta una serie di case editrici, giornali e riviste - e questo per limitarci a quella parte del suo impero finanziario che riguarda l'informazione - fondi un partito, vada in Parlamento e divenga ripetutamente capo del governo?

Già, cosa c'è di strano? Ben poco, visto che anche i partiti dell'opposta coalizione, quando erano al governo, non hanno mai pensato di ovviare, sul piano legislativo, a una tale situazione, che sarebbe semplicemente inconcepibile in una qualsiasi delle democrazie che quel signore ha sempre in bocca, come esempi da imitare.

 

In effetti, orami siamo abituati a non stupirci più di niente.

Eppure, come suole accadere, dopo essere stati costretti a trangugiare l'osso, quel che resta più di tutto sullo stomaco, è la pelle. Come disse Petronio a Nerone, dobbiamo accettare, visto che non possiamo farne a meno, che l'imperatore torturi, uccida e che dia alle fiamme la sua stessa  capitale; ma non lo spettacolo osceno dell'istrione coronato che recita i suoi versi, atteggiandosi a novello Omero o a novello Virgilio.

No, questo no.

È troppo deprimente lo spettacolo della rozzezza provinciale, del narcisismo più sfrenato e compiaciuto, della boria del ricco che si sente al di sopra di tutto. Di sentirlo vantarsi di tutto quello che accade nel mondo, come se fosse opera sua: delle sue potenti amicizie internazionali, che hanno valso a Milano la designazione per ospitare l'Expo; della sua azienda di famiglia che "potrebbe" salvare l'Alitalia, insieme ad altri sconosciuti imprenditori nostrani; dell'amico George che ama l'Italia per merito suo e dell'amico Vladimir che ci fa lo sconto sul gas naturale, sempre per amore dei suoi begli occhi. Delle sue innumerevoli gaffes a destra e a manca, che ci hanno resi ridicoli nel mondo: con la presidente della Finlandia, con il parlamento di Strasburgo, con il G8 (ricordate le corna fatte dietro la testa degli altri capi di governo?).

E pazienza che faccia licenziare i giornalisti che non gi vanno a genio; ma come tollerare che, nel bel mezzo di una conferenza stampa, a un certo giornalista che gli rivolge una domanda, dica: «A lei non rispondo»? Un gesto che, in Gran Bretagna o negli USA, avrebbe sollevato un coro di proteste e indignazione, mentre da noi è passato come acqua fresca.

E vada che abbia definito i giudici come persone che non hanno tutte le rotelle a posto; che abbia detto che la spesa è troppo cara per quelle massaie che non sono capaci di farla in modo provvido; che abbia più volte sostenuto che, se le tasse sono troppo alte, è perfettamente naturale che i contribuenti cerchino di non pagarle; che abbia ripetutamente polemizzato con più di un capo dello Stato italiano; che si sia impancato, lui divorziato, a custode e paladino della famiglia, secondo l'etica della Chiesa cattolica (di cui si ritiene il maggiore difensore nonché l'unico legittimo interprete

Ma che, mentre le massaie 'improvvide' non riescono a far quadrare i conti della spesa e, al mercato, sempre più spesso sono costrette a raccattare la frutta e la verdura semi avariate - che i grossisti scaricano lì per non buttarle via -, lui sia andato all'estero a farsi un miliardario trapianto dei capelli, bulbo dopo bulbo; operazione che, insieme al lifting al viso e ai tacchi rinforzati delle scarpe, dovrebbe renderlo più seducente e, se possibile, politicamente convincente: questo proprio no, non riusciamo a digerirlo, con la migliore buona volontà.

E neanche il fatto di sentirlo cantare, al suono di qualche chitarra cortigiana, al chiaro di luna e con la bandana in testa, in una villa in riva al mare che costa quanto un ospedale (non del Terzo Modo, ma del nostro) o un paio di scuole di prim'ordine: no, nemmeno questo riusciamo a sopportare. Per favore, che almeno questo ci sia risparmiato!

 

Qualcuno potrebbe pensare che queste nostre riflessioni nascano da partigianeria politica e da spirito fazioso, ossia da veltronismo travestito da moralismo.

Ci sentiamo di rassicurare subito questi animi sospettosi e diffidenti: magari avessimo in mente qualcuno che, da una qualsiasi parte politica (destra, sinistra o centro) potesse plausibilmente candidarsi quale rappresentante di un altro modo di intendere la res publica. Ma non c'è: perché il problema italiano è il problema complessivo della totale e irriformabile inadeguatezza di una intera classe dirigente;  dirigente, e non solo politica: vedi Sindona, Gelli, il caso Cirio e il caso Parmalat; vedi la Loggia P2 e il banco Ambrosiano… Già, le banche! Quello sì che è un capitolo scottante, se appena si pensa che sono le banche, oggi, le vere burattinaie della politica.

Una classe dirigente che dovrebbe essere azzerata e dalle cui macerie, morali e materiali, bisognerebbe bonificare a fondo la società, prima di poter ripartire da capo, su basi radicalmente diverse.

E allora, ci si domanderà, perché infierire a codesto modo sulle battute cafone di quel Salvatore della patria in sedicesimo, sul suo trapianto di capelli e sulle sue discutibili serenate al chiar di luna, con tanto di bandana sulla (rinfoltita) capigliatura?

Se il male è comune, perché accanirsi contro un singolo esponente di questa classe dirigente della Seconda (?) Repubblica; quando ce ne sarebbero tanti altri che potrebbero offrire quadretti anche più pittoreschi e persino esilaranti?

 

Non c'è una ragione qualitativa, ma solo quantitativa.

È questione, si potrebbe dire, di modica quantità: oltre un certo limite, il troppo stroppia: indipendentemente dalle ideologie (che non contano più nulla), dalle belle parole e da tutti i buoni propositi di questo mondo.

Scusate, ma quando noi vediamo quel signore salire sul palco dei suoi fans, con quel sorriso stampato a trentadue carati e quel cielo azzurro-chimico sullo sfondo; quando lo vediamo apostrofare stuoli di ammiratori e ammiratrici in visibilio, in una atmosfera che sta a mezza strada fra Amici di Maria De Filippi e Stranamore di Emanuela Folliero; quando scroscia quella tempesta di applausi che sembrano registrati, tanto sono irrefrenabili e disciplinati nello stesso tempo; quando il Salvatore della Patria arringa le masse scandendo le parole e fermandosi in bilico sull'ultima o sulla penultima sillaba, per far sì che a terminare la frase sia il pubblico, come facevano gli imbonitori da fiera dei bei tempi andati, oppure certe maestre o certi catechisti con i loro allievi un po' duri di comprendonio…

E quando lo vediamo che più grosse le spara nel microfono, e più trae il coraggio per spararne di più grosse ancora; che più fa il commediante, spostandosi sul proscenio come un consumato artista da avanspettacolo, e più manda in delirio la platea; che più comincia a vantarsi come un dio infallibile, e più si lancia a ruota libera nello sperticato elogio di se stesso… be', allora ci sentiamo profondamente depressi, profondamente umiliati.

Perché c'è un limite a tutto.

 

No, per favore; quell'uomo no.