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Bilancio e prospettive in Iraq

di Thierry Meyssan* - 05/04/2008



Mentre la stampa dominante si interroga per sapere se la nuova strategia USA in Iraq funziona o se bisogna ritirare in fretta i GI’s, Thierry Meyssan traccia un duplice bilancio della guerra d’Iraq : quello dei fatti e quello delle menzogne. Egli osserva la scelta della Casa Bianca di sacrificare tutto per far adottare la legge sul petrolio e l’accordo di difesa Iraq-USA. E ne trae le prevedibili conseguenze : il rilancio del conflitto, la sconfitta annunciate nelle paludi di Al-Basra e la fine dell’impero statunitense.



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21 marzo 2008



Cinque anni dopo l’inizio dell’operazione anglosassone, la stampa internazionale dedica i suoi editoriali del 19 e 20 marzo a tracciare il bilancio della guerra in Iraq. Sfortunatamente, non si tratta affatto di un bilancio politico, solo di un prolungamento della campagna elettorale statunitense che tende a rispondere alla domanda del momento : bisogna o no ritirare i GI’s ? Vi è una contrapposizione tra due argomenti cinici. Da una parte i repubblicani ripetono con insistenza che con la progressione militare finiranno pure per schiacciare quella ribellione e per dominare quel paese. Dall’altra, i democratici sbandierano l’ultimo libro di Joseph Stiglitz, La guerra da 3 miliardi di dollari, per reclamare burro invece di cannoni. Nessuno di questi due campi offre la minima prospettiva, né per la regione che gli Stati Uniti hanno devastato, né per il loro Impero sull’orlo del baratro.



La verità è che un bilancio politico della guerra in Iraq dovrebbe iniziare dall’analisi dei moventi e dei mezzi messi in atto per arrivarci. Ora, né la stampa atlantista, né i candidati alla Casa Bianca possono avventurarsi su questo terreno, perché nessuno ha fatto intravedere l’inizio di un abbozzo di riconoscimento dei propri errori di analisi e di revisione della propria dottrina.



Non c’è bilancio senza revisione delle cause



Non si può comprendere la guerra in Iraq se si ignora — o si finge di ignorare — da una parte gli interessi economici in gioco, dall’altra i piani sionisti e la coalizione di queste due forze. Non si può comprendere come l’amministrazione Bush abbia catapultato gli Stati Uniti in questa guerra se si continua nella menzogna dell’11 settembre e della favola della « guerra al terrorismo ».



Permettetemi qui di ricordare come la stampa atlantista rifiuti le evidenze e persista nel suo errore. Poco dopo gli attentati di New York e Washington, io pubblicai un lavoro di scienze politiche, L’Effroyable imposture, destinato al grande pubblico. Dopo aver dimostrato l’inconsistenza della versione di Bush degli avvenimenti, vi studiai in dettaglio le conseguenze politiche. Annunciai così per primo la guerra contro l’Iraq che nessuno allora prevedeva e che tuttavia sopraggiunse l’anno successivo. Cercando un argomento sbrigativo per squalificare il mio lavoro, il quotidiano « di riferimento » (sic) Le Monde assicurò, in un editoriale al vetriolo, che le conseguenze della mia versione dell’11 settembre erano così grottesche da essere sufficienti per smentire le mie affermazioni. Edwy Plenel scrisse ridendo : « se l’attacco è arrivato dall’interno e non dall’esterno, esso è il risultato di un complotto ordito dagli elementi più estremisti dell’esercito americano, che volevano ottenere il via libera dal presidente per lanciarsi all’assalto dell’Afghanistan e ben presto dell’Iraq » [1]. E i dirigenti del Monde, precipitandosi sulle scene televisive al grido di « Siamo tutti Americani ! », si facevano beffe insinuando che ero in ritardo di undici anni, perché l’attacco all’Iraq era avvenuto nel 1991. Il mensile Le Monde diplomatique commentava il mio lavoro rincarando la dose. Serge Halimi incentrava il suo giudizio su una frase del libro che illustrava, a suo dire, la mia totale incompetenza: « La realtà mette a mal partito un’altra ipotesi avanzata come elemento di prova. Così veniamo a sapere (pagina 69) che "Henry Kissinger è la figura tutelare, l’ispiratore dei falchi" all’origine del colpo di Stato. Questo significa conoscere male la storia americana » [2]. Problema : il ruolo del signor Kissinger nella preparazione della guerra d’Iraq è stato attestato da Bob Woodward e il « caro Henry » impose come governatore dell’Iraq il suo protetto e associato, L. Paul Bremer III.



Consentitemi di osservare che se i santoni si sono sbagliati, è accaduto perché la loro base di partenza era falsa. Di conseguenza, non saranno in grado di capire la guerra al terrorismo finché non avranno fatto lo sforzo di rivedere la loro visione dell’11 settembre.



Richiamo alla memoria dei miei contradditori che questa divergenza iniziale ci ha condotti ad interpretare in maniera opposta ogni fase della guerra d’Iraq. Malgrado i rapporti degli ispettori dell’ONU diretti da Hans Blix, la stampa atlantista avallò l’accusa anglosassone secondo la quale Saddam Hussein disponeva di armi di distruzione di massa e di vettori capaci di colpire la Gran Bretagna in 45 minuti e Miami in poche ore. Poi, essa si lasciò ipnotizzare dallo show di Colin Powell al Consiglio di Sicurezza accusando il laico Iraq di sostenere gli estremisti religiosi di Al-Qaïda. Essa non dubitò un istante che i missili da crociera che si sarebbero abbattuti su Bagdad avrebbero ucciso solo i quadri del Baath e risparmiato la popolazione civile. Ci inondò di immagini della Liberazione di Parigi in cui i Francesi festanti applaudivano i GI’s, per prepararci a « vivere in diretta la Liberazione di Bagdad » ed esultò quando alcune comparse rovesciarono una statua di Saddam Hussein [3]. Nascose che l’Autorità Provvisoria della Coalizione era un’impresa provata, costituita sul modello britannico della Compagnia delle Indie e destinata a saccheggiare il paese [4]; al contrario, fece credere ai suoi lettori che si trattava di un organismo pubblico paragonabile a quelli che avevano ricostruito la Germania e il Giappone all’indomani della seconda guerra mondiale.



Chiudiamo qui questo disgustoso elenco e poniamo la problematica centrale : la stampa atlantista e i candidati alla Casa Bianca persistono nell’affermare che quella guerra era giusta. Come non ha mancato di sottolineare il presidente Bush, esiste discussione solo «sulla questione di sapere se valeva la pena fare la guerra, se vale la pena continuare la lotta e se possiamo vincerla » [5]. In realtà, si tratta di un’anacronistica avventura di colonizzazione che ha lo scopo di soddisfare gli interessi della lobby dell’energia, del complesso militare-industriale e della colonia sionista di Palestina.



Di passaggio, diamo una strigliata ad alcuni luoghi comuni che inchiostrano le colonne dei giornali della settimana. È buon gusto dire che la guerra era stata un brillante successo e che le cose si sono complicate all’indomani della caduta del tiranno. Poteva essere altrimenti ? L’esercito iracheno era stato messo sotto embargo dopo la sua sconfitta del 1991. in altre parole, era disarmato. La Coalizione aveva utilizzato mezzi smisurati per vincerlo, come usare un’incudine per schiacciare una mosca. Evidentemente, il problema non era la vittoria, ma il dopo Saddam Hussein.

Del resto, la stampa atlantista ragionando in modo retrospettivo, ha individuato la responsabilità del fiasco di questo periodo sulla decisione di Paul Bremer di sciogliere l’esercito iracheno. I soldati smobilitati si sarebbero immediatamente trasformati in insorti. È un errore di analisi. Quando il governatore Bremer sciolse l’esercito iracheno, esso già non esisteva più. I suoi uomini avevano preferito disertare piuttosto che arrendersi. Il caos non arrivò dalla decisione di Bremer, ma dal rovesciamento dello Stato, che era l’obiettivo di guerra del movimento sionista.

Ancora una volta, se di errore si tratta, esso non sta in quanto fatto dalla Coalizione, ma nell’interpretazione fattane dalla stampa.



Il bilancio della guerra per gli Arabi è fatto di sofferenze e distruzioni : 1 milione di morti e 4,5 milioni di sfollati e profughi ; decine di migliaia di uomini, donne e bambini detenuti senza processo nelle prigioni USA o irachene ; intere regioni rese radioattive e inquinate fino a diventare inabitabili ; le vestigia delle più antiche civiltà urbane saccheggiate, rase al suolo, anzi sepolte sotto l’asfalto. Per gli occidentali, il bilancio è il rovesciamento delle democrazie con le menzogne e l’oscurantismo, il ritorno dei crimini coloniali e della barbarie, la completa trasformazione dell’economia degli Stati Uniti in economia di guerra.



Ma una volt che abbiamo aperto gli occhi su questa nera realtà, invece di fare il mea culpa, dobbiamo riflettere sui future sviluppi e sulla nostra capacità di cambiare il corso delle cose.



E ora ?



Ora che accadrà ? Le dimissioni dell’ammiraglio William Fallon hanno inasprito il conflitto tra gli ufficiali superiori statunitensi [6]. Da una parte, il generale David Petraeus si felicita dei risultati della sua strategia. L’aumento del numero di uomini sul campo ha corrisposto alla diminuzione delle violenze. Egli esige dunque il mantenimento di almeno 140 000 GI’s in Iraq. Dall’altra, il generale Mike Mullen, inquieto per l’eccessivo spiegamento e per la spossatezza delle sue truppe, cerca in tutti i modi di ritirarle per evitare un’imminente rottura logistica, seguita da una prevedibile sconfitta.



Petraeus deporrà l’8 e il 9 aprile davanti al Congresso, che deciderà. I sostenitori dell’occupazione fanno tutto ciò che possono perché il generale sia accompagnato solo dai suoi aiutanti più fedeli ; mentre i sostenitori del ritiro tentano di far scivolare un testimone d’accusa nella sala delle audizioni. Perché la decisione dei parlamentari e l’orientamento dell’opinione pubblica dipenderanno dalla paura che avranno di proseguire questa avventura.



Contrariamente a quel che afferma David Petraeus, il miglioramento in termini di sicurezza ha poco a che vedere con i 30 000 GI’s di rinforzo che ha ricevuto. In effetti, egli ha dato istruzione di ridurre le pattuglie in città e di acquartierare al massimo le truppe nelle caserme. Se vuole mantenere un corpo di spedizione così numeroso, lo fa perché ha bisogno di uomini, in maniera occasionale, per condurre vaste campagne punitive. Soprattutto, questi uomini devono restare in zona per fare in seguito il secondo passo : l’attacco dell’Iran, cero non più all’ordine del giorno, ma che non potrà mai essere in vista se il personale viene rimpatriato.



In realtà, I risultati del generale Petraeus sono il frutto di una strategia elaborate dal suo consigliere australiano, David Kilcullen. L’idea di base è « disaggregare » la Resistenza, farla passare da movimento nazionale a moltitudine di gruppuscoli. I Kurdi si sono tenuti calmi finché hanno creduto alle promesse che Washington fa loro da sedici anni : se cooperano, un giorno avranno uno Stato indipendente con un sottosuolo intriso di petrolio. Gli sciiti si sono calmati quando i Britannici hanno riconosciuto i loro leader associandoli alla gestione regionale, poi nazionale e quando l’Iran ha chiesto ai più irriducibili di trattenersi. Quanto ai sunniti, essi hanno cessato i loro attacchi quando I giovani più ribelli sono stati identificati, trattati come delinquenti e non come idealisti, e quando 80 000 di loro solo stati salariati a 10 dollari al giorno.



Il generale David Petraeus non ha alcuna intenzione di spiegare in dettaglio tutto questo al Congresso, perché sa che non potrebbe continuare a lungo su questa via. La sua strategia contro-insurrezionale ha trovato il suo limite : essa diviene incompatibile con gli obiettivi dei suoi capi, il tandem Bush-Cheney, sostenuto dalle multinazionali del petrolio e dell’equipaggiamento. E il suo « piano B » non è divertente.



Il principale obiettivo attuale della Casa Bianca è che il Parlamento iracheno adotti e il suo governo ratifichi una legge che dia alle compagnie petrolifere USA la licenza di sfruttare le risorse del paese a condizioni leonine [7] ; poi la firma e la ratifica di un accordo di sicurezza iracheno-statunitense che autorizzi basi militari USA extraterritoriali per i secoli a venire.



Per raggiungerli, il vicepresidente Cheney si è recato questa settimana in Iraq e nella regione. Ha ottenuto la promulgazione di una nuova legge elettorale, bloccata da febbraio. Su questa base, il 1° ottobre avranno luogo delle elezioni legislative per comporre un nuovo Parlamento, più docile. Per un mese e mezzo si godrà la luna di miele tra Bagdad e Washington, giusto il tempo per far passare l’elezione presidenziale USA. Poi, da quando saranno attuati la legge sul petrolio e l’accordo di sicurezza, il paese si infiammerà di nuovo contro l’occupante. Il solo mezzo per garantirsi la vittoria futura, è ridurre oggi la potenziale resistenza; questo è il « piano B ». La Casa Bianca ha scelto di appoggiarsi, a termine, sui sunniti con l’aiuto dell’Arabia Saudita, contro le altre popolazioni irachene. La nuova legge elettorale è stata concepita per rafforzare la rappresentanza sunnita al Parlamento. Peraltro, ai Kurdi è stato inviato un chiaro messaggio attraverso l’esercito turco. Restano da sradicare le milizie sciite prima che si sollevino. È quello che il generale iracheno Mohan al-Furayji dovrà provare a fare nei prossimi sei mesi.



L’ammiraglio Fallon, da poco dimessosi dal Comando Centrale, ritiene questo « piano B» destinato al fallimento. Ultimo grande ufficiale ad aver vissuto la guerra del Vietnam, ha messo in guardia circa eventuali combattimenti nel sud dell’Iraq, non più nei deserti, ma nelle paludi di Al-Basra. In secondo luogo, prevede che una guerra contro gli sciiti iracheni destabilizzerà immediatamente il vicino Kuwait, poi, alla lunga il Bahrein e l’Arabia Saudita. In terzo luogo, egli pensa che neutralizzare dei combattenti sunniti a 10 dollari il giorno, vuol dire essere certi che, non appena potranno farlo, essi si rivolteranno contro gli Stati Uniti con le armi che sono state loro date.

Dopotutto, Petraeus e Kilcullen hanno sempre affermato che avrebbero prevenuto questo problema regolarizzando, alla lunga, i loro combattenti-salariati, ossia integrandoli nelle forze di sicurezza irachene. Ma non si vede come queste ultime possano assorbire all’istante 80 000 uomini senza essere infiltrate dalla Resistenza. Già ora, 49 unità sarebbero sparite con le loro armi e 38 minaccerebbero di farlo senza indugio se i loro uomini non vengono messi in ruolo [8].



Come ho già scritto su queste colonne, William Fallon aveva condotto dei fruttuosi negoziati per pacificare la regione. L’accordo era stato confermato in una riunione segreta con il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad e il capo di stato maggiore interarmi degli Stati Uniti, Mike Mullen, il 2 marzo a Bagdad. Egli è stato sconfessato dalla Casa Bianca e gli impegni presi in nome degli Stati Uniti non sono stati mantenuti. Questo non potrà essere spiegato da David Petraeus al Congresso. La rottura unilaterale di questo accordo segreto ha indotto Teheran a prendere delle misure di ritorsione, il cui primo livello è l’incoraggiamento alla ribellione dei radicali iracheni sciiti. Inoltre, la Cina e soprattutto la Russia, essendo state associate a quelle trattative e non potendo accettare un dispositivo che a termine minaccia l’integrità dell’Iran, hanno preso anch’esse delle misure di ritorsione. La visita discreta del generale Leonid Ivashov a Damasco, seguita dal viaggio ufficiale del ministro russo degli Esteri Sergueï Lavrov, ha aperto la via ad un massiccio trasferimento di armi alle Resistenze irachena, libanese e palestinese.



Se c’è una lezione da trarre dai primi cinque anni della guerra d’Iraq, è che certi protagonisti non traggono mai lezioni dai loro errori. I capi kurdi, come sempre da un secolo, hanno portato in un’impasse il loro popolo [9]. Il Pentagono, con i suoi salariati sunniti riproduce quanto aveva fatto in Afghanistan e dovrà affrontare le stesse conseguenze : forma e arma delle canaglie fino a farne degli incontrollabili signori della guerra. Quanto alla Casa Bianca, essa è intenta a far passare gli interessi di alcune imprese (in questo caso, Bechtel, BP, Chevron, ExxonMobil, Halliburton, Shell etc.) davanti a quelli degli Stati Uniti e, irragionevolmente, crede che la corruzione e la violenza permetteranno di dominare tutte le situazioni.



Il generale Leonid Sajin, che avendo vissuto la morte dell’URSS e non soffre troppo nel pensare a quella degli Stati Uniti, ha dichiarato martedì a Mosca : « La guerra d’Iraq, che dura da 5 anni, ha praticamente spossato l’esercito statunitense che finora era considerato il più potente del mondo. Al presente, solo la disperazione può spingere gli Stati Uniti a scatenare una guerra contro l’Iran. Una tale guerra segnerà la fine di quell’esercito: colpiti dalla recessione economica e tenuto conto del pessimo morale dei loro militari, gli Stati Uniti non reggeranno il colpo ». Possiamo aggiungere, gli Stati Uniti non sopravvivranno nemmeno ad una guerra contro l’Iran nelle paludi irachene con l’interposizione delle milizie sciite.


* Analista politico, fondatore del Réseau Voltaire. Ultimo lavoro pubblicato : L’Effroyable imposture 2 (le remodelage du Proche-Orient et la guerre israélienne contre le Liban).





[1] « Le Net et la rumeur », Le Monde, 21 marzo 2002


[2] « Complotite », di Serge Halimi, Le Monde diplomatique, maggio 2002.


[3] « La fin de quelle guerre ? », di Jack Naffair, Réseau Voltaire, 15 aprile 2003.


[4] « Qui gouverne l’Irak ? », di Thierry Meyssan, Réseau Voltaire, 13 maggio 2004.


[5] « Discours du président Bush sur la guerre globale au terrorisme », tenuto al Pentagono il 19 marzo 2008.


[6] « La démission de l’amiral Fallon relance les hostilités en Irak », di Thierry Meyssan, Réseau Voltaire, 13 marzo 2008.


[7] « L’Irak occupée cédera-t-elle son pétrole aux "majors" ? », di Arthur Lepic, Réseau Voltaire, 20 giugno 2007.


[8] « Awakening councils : Sunni militia strike could derail US strategy against al-Qaida », di Maggie O’Kane e Ian Black, The Guardian, 21 marzo 2008.


[9] « Le Pentagone prêt à intervenir avec l’armée turque », di Thierry Meyssan, Réseau Voltaire, 8 agosto 2007.


Voltaire, édition internationale