La notte del 6 marzo 1953, che seguì alla morte del Maresciallo (5 marzo), tra San Frediano e Porta Romana, a Firenze, non dormì nessuno. Alla Casa del Popolo di Viale Poggio Imperiale, dove noi ragazzini s’andava a giocar a tombola e a ping-pong (io avevo tredici anni) e quelli un po’ più grandi – quelli che già portavano gli agognati calzoni lunghi – a ballare e a cercar di rimorchiar le ragazze, le bandiere rosse erano abbrunate e si allestì perfino una sorta di piccola “Camera Ardente”, con fasci di rose e di garofani scarlatti. 1 parroci della zona furono precettati e si chiese perentoriamente loro di sonar le campane a morto: non tutti rifiutarono. Manifesti a lutto – «La Grande Luce si è spenta. Il Faro dei Lavoratori di tutto il Mondo ha cessato di brillare» – fiorirono austeri su tutti i muri. Anche in casa mia, una casa di cristiani socialisti, regnava la tristezza. Il babbo portò in salotto buono un giornale fresco di stampa, un rotocalco a colori, e lo depose in silenzio sul tavolo da pranzo. Anche la nonna cattolica di ferro, il nonno anarchico, perfino le zie paterne che al referendum avevano votato per il re, tutti erano tristi. E, cosa inaspettata, perfino lo zio materno, il temuto e leggendario zio Roberto – “ardito del popolo” e poi volontario fiumano e quindi squadrista, ufficiale della Milizia e infine naturalmente nella Guardia Nazionale Repubblicana, che solo da qualche anno aveva potuto tornar a circolar indisturbato nel rione dopo una lunga latitanza, e ch’era un fascista duro e impenitente – era quasi commosso. «È morto in piedi, da vincitore – disse presentandogli idealmente le armi – ora il mondo è solo davanti al capitalismo». Mi rimasero impresse le sue lente parole, quasi sussurrate. Allora, non ne capii quasi niente. Ora forse tutto mi è più chiaro. Del resto qualche conversazione con lui, molte letture successive e – adesso – i libri per esempio di Paolo Buchignani su Berto Ricci e il “fascismo impossibile”, quello “di sinistra”, hanno contribuito a far luce sulle strane posizioni di quel grintoso operaio delle Ferrovie dello Stato che, coerente col suo passato, tra ’19 e ’45 aveva affrontato dignitosamente l’epurazione ed era rimasto a testa alta fuori dal coro. Mi stava simpatico, il Maresciallo Stalin. Aveva un bel faccione sorridente da patriarca contadino, fumava giovialmente la pipa, era quasi bello con quei capelli argentei a spazzola, i leggendari baffoni («...ha da venì...») e le severe uniformi candide, verdi scure o color tabacco. Ma forse giocarono in me, sul ragazzo che allora ero, altri impulsi: prima di tutto il cattolicesimo profondo ereditato dalla nonna tutta d’un pezzo e dal babbo ch’era un dolce e caritatevole “cristiano-socialista” (ma che «Gesù era il primo socialista» lo sentivo sempre dire dal nonno anarchico: il quale condiva tale solenne affermazione con ben tornite bestemmie e insulti contro i preti, salvo naturalmente il nostro vecchio parroco, «lui sì un brav’uomo, ma è l’unico»). E poi, c’era dell’altro: le manifestazioni per Trieste italiana del 1953, cui partecipai ragazzino di prima media; e le splendide tragiche giornate dell’ottobre ’56, la passione e il martirio dell’Ungheria. Scelsi quindi, con quel poco ch’era il mio bagaglio culturale di allora, il fascismo. Gran bello scoop, per un “ragazzo di San Frediano” il quale cominciava allora ad affacciarsi ai dolci, magici, tormentosi anni dell’adolescenza e pur sapeva bene che alla Casa del Popolo si rimorchiavano meglio le ragazze che non in parrocchia; dirsi fascisti, poi... Non mi mancarono litigi in famiglia e con gli ex compagni di giochi, tutti “rossi”, e anche qualche scazzottata e qualche amara rottura d’amicizia. Nella mia scelta, invece, poco influì lo zio Roberto, ch’era un modello di discrezione e che peraltro di politica parlava poco e malvolentieri. D’altronde, se anche fu forse in cuor suo felice che quel nipote che era un bravo ragazzo e andava bene a scuola scegliesse la “sua” parte politica, non lo dette a vedere. Anzi, fece uno strappo alla sua regola del silenzio soltanto per sconsigliarmi di «imbrancarmi con quelli del Msi», a suo dire una congrega di furbastri o di nostalgici fanatici che si rifiutavano di guardar in faccia la realtà dei tempi nuovi. Lui, dal canto suo, preferiva Nenni: e votava socialista. lo, a quel tempo, non lo capivo. Né capivo come mai le rare volte che a casa nasceva una discussione politica (ch’era uso non proseguire mai in presenza di donne e bambini) lui finisse e sempre col trovarsi più d’accordo col nonno anarchico che con suo cognato e mio padre, “socialista cristiano” Ma quando lo zio nominava Bakunin o Sorel, per me a quel tempo illustri sconosciuti, gli brillavano gli occhi. Avrei anch’io a mia volta, negli ultimi anni della mia militanza missina, verso la metà degli Anni Sessanta, recuperato Berto Ricci e il “fascismo di sinistra”, peraltro in accordo con la retorica socializzatrice che vigeva nel Msi (un partito che però, nelle sue concrete scelte parlamentari, mise negli Anni Sessanta sempre più da parte la sua vocazione sociale per allinearsi su posizioni atlantistiche e “occidentaliste”). Ma alle mie scelte adolescenziali, fra ’53 e ’56, non era stata estranea una certa “logica di classe”: che al momento mi sfuggì, ma che ora distinguo al contrario con chiarezza. Era quello un tempo nel quale, a parte gli “intellettuali di sinistra”, le scelte politiche erano sempre in un modo o nell’altro socialmente orientate: e se si era poveri o comunque di famiglia modesta, d’origine operaia o contadina o artigiana – ed era il mio caso – si finiva sempre nella e/o con la sinistra. Nemmeno i cattolici facevano eccezione: la Toscana è non a caso la terra dei La Pira, dei Balducci, dei Turoldo, dei Milani, dei “preti-operai” della Richard-Ginori e della Pignone e della coraggiosa rivista “Testimonianze”. A me però, a me adolescente degli Anni Cinquanta – lo confesso, ora, con un qualche rossore –, la mia classe sociale d’origine stava stretta: il babbo – artigiano cui piacevano la musica e la pittura, e che avrebbe voluto studiare ma non aveva potuto – faceva equilibri miracolosi per far andare al liceo classico e all’Università quel suo ragazzo scontroso e fuorischemi che teneva la foto del Duce sul tavolo, ma era bravo e studioso. E il ragazzo scontroso era anche ambizioso, voleva primeggiare e far carriera. Ormai era scontento delle ragazzine acqua e sapone di Porta Romana, quelle che all’epoca portavano ancora i calzini bianchi fino a diciotto anni e facevano le commesse o studiavano stenografia per diventar segretarie: era piuttosto carino (parlo di mezzo secolo e di cinquanta chilogrammi or sono) e aveva successo con le ragazze del centro, figlie di medici e di avvocati, che andavan da Gilli per l’aperitivo e avevano le calze a rete, culmine estremo – allora – dell’audacia erotica. In quegli ambienti, “borghesi” appunto, si poteva esser liberali o repubblicani (salvo poi votar Dc: ma senza ammetterlo), ma se esser fascisti era decisamente out e volgare – poi però i neofascisti si finanziavano sottobanco, per i lavori sporchi – la sinistra comunista o estremista era fuori questione. Scelsi la solitudine eroica: in fondo, non ero affatto volgare. Gliel’avrei fatta vedere io. Ma “rosso”, questo no. Per questi motivi vecchi, anzi ormai vetusti – mémoires d’Outretombe – sono restato, fino a tempi recenti, un osservatore esterno della marea rossa dilagante in Toscana. Esterno, ma – ci tengo a precisarlo – affettuosamente coinvolto da tanti amici che ormai stanno nelle giunte comunali, provinciali e anche in quella regionale, a partire dai presidenti Martini e Nencini; o che sono sindaci o addirittura deputati, come Pistelli o la signora Magnolfi. Che cos’è quindi la mia “Toscana rossa”, quella d’un ex ragazzo di san Frediano che, in quanto fascista, avrebbe potuto ben figurare forse tra le pagine delle Cronache di poveri amanti o de Lo scialo pratoliniani, del resto mie preferite letture per molto tempo accanto ai toscanissimi – e fascistissimi, anche se a modo loro – Maccari, Bilenchi e Malaparte, o ai “cattolici-belva” Papini e (soprattutto) Giuliotti? Confesso di essere per molti versi restato ancora un toscano strapaesano, che adora la musica del “sor” Giacomo Puccini e la pittura di Ottone Rosai e che continua a venerar la memoria di Alessandro Pavolini, geniale inventore delll’“industria turistica” fiorentina e dei Maggi Musicali. È una “Toscana rossa” in gran parte erede della logica del cane e del gatto, dei guelfi e dei ghibellini: una Toscana per certi versi perfino piagnona (vagliela a toccare, la Madonna di Montenero, ai rossi livornesi; o quella di Provenzano ai rossi senesi), nella quale il mondo popolare cittadino e contadino uscì dopo una decina di mesi di durissima occupazione tedesca, dall’efficace inquadramento, dell’organizzazione fascista del dopolavoro e del consenso per entrar in massa nella sinistra socialcomunista, anche perché la Toscanina granducale, pacifica e prevalentemente rurale, non aveva in fondo mai digerito del tutto l’unità risorgimentale d’Italia, era in parte rimasta quella del “Viva Maria”; e così – in odio anche alla sua classe dirigente, ai “moderati toscani” alla Ricasoli ch’erano così aperti e liberali a chiacchiere, ma così arcigni e duri difensori dei propri interessi come padroni (e furon gli agrari toscani a inventare e finanziare lo squadrismo) – la gente, “il popolo”, scelse soprattutto il comunismo, magari restando cattolico, contro il moderativismo largamente tinto di spirito massonico dei ceti medi e dirigenti cittadini. Ma la Toscana è una regione profondamente policentrica, “a pelle di leopardo”, che vigila arcigna e occhiuta sulle sue faziosità municipali. Non a caso, la cittadina forse statisticamente parlando più rossa della regione, la leggendaria Lamporecchio dove il Pci riusciva a raggiungere e a superare il 70-75%, si trova a ridosso della Valdinievole e della Lucchesia tradizionalmente enclaves bianche: ed esse, con Lucca come capoluogo non solo geografico ma anche morale, sono “bianche” forse anzitutto e soprattutto, almeno sulle prime, in quanto ben decise a controbattere la temuta egemonia fiorentina (e pisana) sul resto della regione. Rivive, in questa distinzione, la vecchia divisione tra una Toscana granducale e una repubblica di Lucca rimasta a lungo autonoma; e dove tuttavia la bianco-rosa-rossa Versilia, a ridosso della Garfagnana e della Lunigiana dei cavatori tenacemente anarchici è tale appunto in quanto desiderosa di distinguersi a sua volta dal capoluogo; così come Livorno, Arcidosso, Cortona ed Empoli erano almeno fino a poco tempo fa rosse d’un rosso vivo e operaio, marinaro o contadino per distinguersi dai rispettivi capoluoghi – Pisa, Siena, Arezzo, Firenze – nei quali prevaleva (prevale?) il “rosa” moderato, perbenista e un po’ massonico (quindi d’un “sinistrismo” più accentuatamente anticlericale: mentre, curiosamente ma non troppo, i “rossi” estremi sono in qualche modo eredi del radicalismo popolare cattolico) dei ceti medi e degli intellettuali. Il che puntualmente si è riflettuto, almeno fino agli Anni Cinquanta, nella forte antipatia reciproca tra comunisti e “cattolici di base” da una parte, militanti della sinistra laica e soprattutto “azionisti” di Giustizia e Libertà dall’altra. Questo il background d’una regione dove per molti anni il Pci era il Partito per eccellenza, da molti punti di vista erede del Pnf esattamente come moltissime Case del Popolo altro non erano che Case del Fascio riciclate; e dove soltanto la Chiesa poteva tenergli testa, salvo talora solidarizzare con i suoi quadri e la sua gente, come sempre più spesso succedeva, specie all’indomani del Concilio Vaticano II. L’attuale forte presenza di Rifondazione Comunista, con il suo movimentismo radicale ma anche antigerarchico, è un avatar ulteriore della presenza di questa vena toscana arcirossa che non riesce ad adattarsi al perbenismo dei piddini, diventati forza di governo moderata, atlantista, occidentalista e i dirigenti dei quali si scappano talora uscir di bocca un «perché non possiamo non dirci liberali» che ripugna ai “rossi” di Grosseto e a quelli della curva nord dello stadio di Livorno e dell’Ardenza non meno che ai rosso-neri di Carrara. Per questo il “Che” Guevara, da noi, non è per nulla un’icona romantica, retorica e consolatoria. È un avvertimento alla classe dirigente che si mostra troppo disponibile e moderata e che finge di non accorgersi che nel campo militare americano di Camp Darby potrebbero esserci delle testate nucleari. Ne nasce un avvertimento ai politici: non tirate troppo la corda, non affrettatevi troppo a pensar (e a proclamare) che il vecchio comunismo è morto e che bisogna esser benpensanti, moderati e liberali di sinistra come i Ricasoli e i Sonnino lo furono di destra. La vecchia guardia sonnecchia, ma stelle rosse e falce-e-martello non sono mai finiti del tutto in cantina.
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