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Ecuador, una perizia accusa ChevronTexaco

di Marina Forti - 05/04/2008

 

La compagnia petrolifera ChevronTexaco dovrebbe versare tra 8,3 e 16 miliardi di dollari per risarcire il danno ambientale provocato nella regione amazzonica di Lago Agrio, in Ecuador, dove ha scavato e sfruttato in esclusiva pozzi di petrolio fino al 1992. Lo afferma il rapporto indipendente consegnato ieri a un tribunale ecuadoriano da Richard Cabrera: 8 miliardi è il costo della bonifica ambientale necessaria nella zona interessata; altrettanto sono i soldi che Texaco avrebbe risparmiato non applicando le tecnologie e le pratiche di gestione ambientale necessarie.
Il rapporto Cabrera è l'ultimo atto di un'annosa battaglia. Era cominciata nel 1993 quando circa trentamila abitanti dei villaggi amazzonici della regione di Lago Agrio in Ecuador, sostenuti da alcune organizzazioni ambientaliste, hanno fatto causa contro Texaco al tribunale di New York. L'accusavano di aver scaricato nella foresta 18,5 milioni di galloni di rifiuti oleosi (circa 68 milioni di litri) in centinaia di fosse aperte nella zona di sua concessione, oltre a 16 milioni di galloni (64 milioni di litri) dispersi da pozzi e oleodotti. Texaco ha cominciato le operazioni in Ecuador negli anni '60, i pozzi di Lago Agrio sono entrati in produzione nel '72 e sono rimasti operativi per vent'anni, prima che Texaco li cedesse alla compagnia nazionale Petroecuador (in quel periodo Texaco Petroleum Company ha estratto un miliardo e mezzo di barili di greggio). La corte di New York aveva sentenziato che l'azione legale non era ricevibile negli Usa perché la sua «sede naturale» era l'Ecuador, e che la compagnia americana sarà tenuta a rispettare la sentenza pronunciata dal tribunale ecuadoriano. Decisione innovativa, dal punto di vista del diritto internazionale. È così che nel 2003 nel tribunale della cittadina di Nueva Loja, Lago Agrio, è finalmente cominciato il processo che vede Texaco (acquisita da Chevron nel 2001) come imputato, e come parte lesa gli abitanti della zona contaminata.
Da allora però la causa si trascina, tra eccezioni e rinvii. Chevron sostiene di non avere più responsabilità legali da quando, negli anni '90, Texaco ha speso 40 milioni di dollari per chiudere duecento pozzi in cui aveva scaricato i reflui (secondo l'accusa i pozzi sono circa 600). Lo scorso luglio la corte ha infine incaricato il dottor Cabrera, in qualità di perito indipendente, di quantificare il danno. Il geologo ecuadoriano non ha avuto un lavoro facile. Chevron è arrivata a comprare intere pagine pubblicitarie sui quotidiani per accusarlo di essere un «criminale». Le cronache locali dicono che il geologo stesso, e il suo team, è stato oggetto di minacce e intimidazioni; in un caso una squadra di 25 agenti del servizio di sicurezza privato della Chevron ha seguito e circondato i geologi in piena foresta. In febbraio la coalizione ambientalista che sostiene i querelanti ha accusato Chevron di «condurre un attacco extragiudiziario» contro Cabrera, un «attacco diffamatorio e vizioso». Il tribunale stesso ha dovuto chiedere alla polizia di difendere i suoi periti dal servizio di sicurezza della compagnia petrolifera (già nel 2005 e 2006 c'erano stati diversi casi di minacce a leader di comunità, e ChevronTexaco allora aveva ammesso di pagare ufficiali dell'esercito ecuadoriano per la «protezione» durante il processo).
Infine, la perizia sembra confermare la sostanza delle accuse: dice che la principale causa della contaminazione nella zona sono le operazioni di ChevronTexaco, che le scorie dei pozzi non sono state gestite correttamente e la totalità delle acque reflue sono finite nei torrenti e fiumi (da cui le sostanze oleose e tossiche sono percolate nei terreni), e ha bruciato gas impestando l'aria. I rappresentanti di ChevronTexaco annunciano ricorsi, dicono che il rapporto Cabrera non è «imparziale» e accusano il governo ecuadoriano di farne un caso politico: «Questa non è più una causa privata, è una partnership tra il governo e i querelanti», ha commentato Charles James, consigliere di Chevron: «È un'estorsione». La battaglia continua.