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Una pagina al giorno: l'incontro con la Clautana, di Carlo Sgorlon

di Francesco Lamendola - 07/04/2008

 

 

 

Dal romanzo di Carlo Sgorlon Gli dei torneranno (Milano, Arnoldo Mondatori Editore, 1977, parte prima, capitolo III (pp. 39-45):

 

“Le sedonere andavano sempre a due a due, tutte vestite di lane nere, come vedove o lamentatici di funerali. Vederle a coppie era un’abitudine inveterata dell’occhio.  La Clautana invece girava da sola. Una sedonera isolata era cosa che si notava immediatamente, che aveva uno spicco stridente, quasi clamoroso. E già questo bastava a gettare un’ombra di stranezza e di irregolarità sulla sua persona, come se ciò avesse infranto un rituale antico e consacrato.

“Quando la vide apparire Simone la seguì con lo sguardo, appoggiato e nascosto da un muricciolo solitario in mezzo alla campagna, finché essa disparve in fondo alla strada, dietro la curva. immaginò che anche la Clautana amasse le strade come lui sesso e i suoi amici carradori, che girare col suo carretto carico di oggetti di lucido legno fosse per lei non una sorta di calvario senza fine, impostole dalla povertà, ma un arcano istinto nomade. Ma certo: una donna come quella non poteva essere una nomade per necessità, una vittima del destino, e ciò che faceva era per sua libera volontà.

“L’anno successivo, sempre sul finire dell’estate, una sera Simone aveva sentito un picchio discreto alla porta di legno di quella che tutti ancora a Jalmis chiamavano ‘a casa di Lena’, anche se sua madre era morta da anni. Stava leggendo, seduto sulla poltrona del tinello. Si alzò con un leggero fastidio, a causa dell’interruzione cui era forzato, e andò ad aprire. Era la Clautana. Poiché era lontanissimo dall’aspettarsi quell’apparizione, restò lievemente interdetto, col libro in mano e le braccia penzoloni. Temette di arrossire, e fu lieto di trovarsi in un luogo quasi buio.

“La Clautana, vista da vicino, sembrava lievemente più anziana che vista da lontano. Era alta quasi quanto Simone, che pure di grande corporatura. Dalle orecchie, di cui il fazzoletto nero scopriva i lobi, pendevano due minuscoli orecchini d’oro. Il petto rigoglioso che il vestito nascondeva quant’era possibile, ansava un poco per la fatica.

“La Clautana con un gesto agilissimo si sfilò dalle spalle la gerla carica di oggetti.  «Vi servono mestoli, portauova, martelli per la carne?» disse. Era la prima volta che Simone ne sentiva la voce. Non sapeva, non immaginava come potesse essere, ma si aspettava, chissà perché, che avesse un timbro strano.  E infatti la voce della Clautana era curiosamente cantante, velata e vellutata. La donna tirò fuori dalla gerla un vero campionario dei suoi oggetti, disponendoli sulla tavola d’abete della cucina. Simone non aveva soldi, le chiese se poteva pagarla con farina. Ma certo, per lei andava benissimo,. Il ragazzo si illuminò. Aveva temuto di non poter comprare nulla, e invece la difficoltà rappresentata dalla mancanza di denaro svaniva perché su, nella valle della Clautana, tenevano il denaro in scarso conto, e potevano ancora usare il baratto, come nel Medioevo. La soddisfazione di aver risolto la piccola difficoltà gli diede maggiore disinvoltura. Si snetì sciogliere gli impacci interiori, nati all’apparire della Clautana dal fatto che lei era una donna. Aveva chiarito a se stesso che ciò che doveva fare era di trattenerla il più a lungo possibile. Dopo averle riempito il sacco di farina, si ricordò di aver visto spesso le sedonere davanti un piatto di minestra e un bicchiere di vino, sedute sugli scalini delle case. Favolose risparmiatrici, esse non andavano mai all’osteria, vivevamo praticamente di carità. Le chiese di fermarsi per la cena, e lei accettò.

“Lieto di aver scongiurato il pericolo che se ne andasse, si diede da fare per vedere cosa poteva offrirle. Cominciò a correre su e giù dalla cantina, a rovistare nelle credenze, e riuscì a metter vicino salame, formaggio, la pentola del minestrone, polenta avanzata la sera precedente, e un boccale di vino. Per un po’ la Clautana stette in attesa sulla porta, come se, ricevuto il piatto, contasse di andare a mangiare sulla anca dell’androne. Poteva credere infatti  che l’intimità della casa le fosse vietata.

“«Che fate? Perché non entrate?» disse il ragazzo.

“«Ho già approfittato anche troppo».

“«Ma cosa dite. Venite dentro, sedetevi…».

“La Clautana esitò un momento, come se il trattenersi ancora in quella casa, di sera, con un ragazzo solo, fosse oltremodo irregolare. Poi s decise. Simone si dava da fare intorno allo spolert di mattoni, nel tentativo di accendere il foco. Soffiava disperatamente, ma la legna, un po’ umida e troppo grossa, non voleva saperne. Era diventato tutto rosso in viso, e aveva i capelli e le ciglia ingrigiti di cenere. La Clautana si avvicinò: «Lascia fare a me. Ho più pratica di voi» disse.

“Dal momento in cui aveva deciso di rompere l’impedimento misterioso che la inchiodava sulla soglia della porta, diventò di un’alacrità veloce, disinvolta e liberatoria. Per lei fu un gioco accendere il foco. Poi preparò la tavola per due, poiché Simone aveva tirato fuori tutto ciò che serviva, persino la tovaglia di canapa, alla quale Gregorio metteva mano soltanto quando v’erano forestieri. Ormai non pensava più di schermirsi e di rifiutare, ma di accettare tutto quello che le veniva offerto. Da tanto tempo girava  per le strade e i sentieri che l’idea di trovarsi  di trovarsi sotto un tetto e di mangiare a una vera tavola l’attirava.  Era trattenuta un po’ soltanto dal timore che quello zio sconosciuto, di cui Siamone aveva parlato più volte, potesse piombare in casa da un momento all’altro, e lanciarle un’occhiata fredda e seccata. Ma che importava, in fondo? Se fosse accaduto, si sarebbe rimessa la gerla sulle spalle e sarebbe andata con Dio.

“Simone era alla fine di un’impresa per lui faticosa e la guardava soddisfatto. Anche la Clautana lo osservava ogni tanto, e lui si sentiva trafiggere dai suoi occhi scuri e luminosi, che parevano trattenere ancora le luci di luoghi e di visioni remoti. Non si rendeva conto che, nella parte ignota della sua mente, la Clautana gli ricordava la madre, seppellita già da sette anni. Si misero a tavola. Simone fece un impacciato tentativo di servirla, ma lei scosse il capo con energia. Era roba da donne, proclamò, e fu lei ad alzarsi da tavola per prendere ciò che serviva. Si tolse il fazzoletto, e Simone vide apparire con sorpresa i suoi capelli nerissimi. Non era pettinata nei soliti modi delle donne di campagna, i suoi capelli formavano una specie di prua di nave che le allungava il capo all’indietro, e aggiungeva al suo viso una nuova imponenza.

“La Clautana si segnò, cominciò a mangiare silenziosa, appoggiando gli avambracci sulla tavola e avanzando il busto sopra di essa. Benché fosse affamata, masticava a lungo e mangiava con parsimonia, come se per riguardo all’ospite trattenesse l’antica fame, sua e della sua gente. Simone le chiese da dove venisse.

“«Da Claut».

“Il ragazzo aveva passato in rassegna tutti i paesi della valle, il cui nome gli era noto, Andreis, Barcis,Cimolais, Ero, Casso, e proprio quello, Claut, non gli era venuto in mente. Da quel momento e per sempre la donna diventò per lui la Clautana, anche dopo che ebbe saputo il suo nome, Eleonora.

“«E come mai girate da sola? Non avete una compagna?».

“«L’avevo. Purtroppo è andata con Dio, due anni fa».

“«Di malattia?».

La Clautana scosse il suo capo fiero, e i capelli luccicanti rimandarono la luce rossa della sera. Non gli rispose subito. Un’atavica riservatezza le rendeva difficile il discorso.  Cambiò idea solo quando si convinse che quella di Simone non era giovanile curiosità, ma un interesse che andava ben oltre di essa.

“«È caduta nel fiume».

“C’era stata una brinata che rendeva scivolosa l’erba del sentiero. Doveva aver perso l’equilibrio, sbilanciata dal peso, ed era precipitata nell’acqua che spumeggiava e rombava di sotto. Non era morta annegata ma per la congestione causata dall’acqua freddissima. Nessuno era stato testimone della tragedia. Quanto tempo era stata laggiù, aggrappata a ciuffi di erbe o di nocciolo, a gridare, senza avere la forza di tirarsi fuori, liberandosi dalla gerla? Solo Dio lo sapeva. Non era stata la sola ad aver fatto quella fine. Essa era toccata a molte donne della vallata. Portavano gerle troppo pesanti e così, dopo qualche chilometro, diventavano ubriache di fatica, come intontite, e un attimo di distrazione poteva essergli fatale. Il sentiero era tutto sparso di croci di legno, piantate nei luoghi dove qualche disgraziata era caduta nel fiume. Una volta anche lei era scivolata lungo il burrone, ma per fortuna era stata fermata da un gruppo di giovani abeti. Era stata questione di un attimo, si era trovata a rotolare senza neanche capire come fosse successo.

“Simone si spaventò per quell0incidente, avvenuto nel passato, è vero, ma che poteva succedere ancora. Provò quasi all’improvviso un impaccio per la sua persona, perché lei lo stava osservando. Aveva come perso la nozione di trovarsi davanti a una sedonera, nomade e affamata, mentre aveva ben chiara quella che lei era una donna. Non poteva nemmeno smettere di pensare che erano soli, nella casa di Lena, che presto sarebbe stata notte, e che Gregorio sarebbe ritornato chissà quando. Gli pareva di trovarsi in una condizione primitiva, arcaica, dove soltanto una cosa era ben chiara, che lui era un uomo e lei una donna. Nelle esperienze fondamentali di Simone v’era sempre qualcosa di profondamente naturale, semplificato fino all’osso.

“Cercava in tutti i modi di ritardare il momento in cui lei se ne sarebbe andata. Per fortuna la Clautana non aveva fretta, e pareva provasse, ora, un ingenuo desiderio di parlare con lui. Non occorreva neppure che Simone facesse domande, lei parlava da sé anche senza essere sollecitata. Aveva capito che a lui interessavano i luoghi da dove veniva, la valle del Cellina e l’orrido di Montereale, e raccontava ciò che le pareva più interessante. Narrò tra l’altro di un cacciatore che tanto tempo prima aveva ucciso ben diciotto orsi. Degli orsi in Valcellina? E quando? Al tempo degli Austriaci o a quello dei Veneziani? La Clautana non lo sapeva, guardava Simone con meraviglia, come se lui chiedesse chissà quali stranezze. I secoli, l’Ottocento, il Settecento, erano per lei solo nomi vaghi, che indicavano età indefinite. Aveva senso parlare del tempo soltanto in rapporto alle generazioni, a suo padre, a suo nonno o bisnonno. Prima, quando erano vissuti proavi mai visti, si entrava in una zona lontana e indefinita del tempo, senza limiti e punti di riferimento. Simone si accorse che lei era del tutto fuori della storia, e non aveva minimamente l’abitudine mentale di collocare gli avvenimenti lungo la linea degli anni e dei secoli. Il cacciatore era esistito tanto tempo prima, e questo era tutto ciò che lei sapeva. Dicevano che portasse la stiriana e il cappello di pelo di orso. Persino i suoi zoccoli, si diceva, erano fatti di cuoio di orso, con la pelliccia all’interno, perché l’inverno era freddissimo, lassù.

“Simone aspettava attento e pieno di sorpresa, ma nello stesso tempo aspettandosi dalla Clautana racconti come quelli. La interrompeva talvolta per farle domande un po’ balorde, per esempio quanti gradi sottozero potevano venire d’inverno in Valcellina. Lei però non sapeva niente neppure di gradi, forse non aveva neanche mai visto o sentito parlare di termometri. Per lei i gradi, sopra o sottozero, erano un po’ come gli anni o i secoli, qualcosa su cui non era informata, di cui sapeva con estrema vaghezza. Come aveva altri criteri per misurare il tempo, così aveva altri sistemi per misurare il freddo: dallo spessore del ghiaccio nelle fontane; dal fatto che, uscendo all’aperto, l’alito si congelava attorno alle ciglia o alla barba degli uomini, e da altri particolari simili a questi.

“A mano a mano che parlava, Simone sentiva crescere per la Clautana una misteriosa confidenza, come se l’avesse già conosciuta; come fosse stata un’amica di sua madre, per  esempio, solo di qualche anno più giovane di lei.

“La Clautana era vedova. Il marito era stato un boscaiolo. Una volta un tronco scortecciato, dritto come un palo di nave, che scivolava tra l’erba alta, silenzioso come una biscia, l’aveva travolto alle spalle e precipitato nel burrone. Così, dopo la disgrazia, era cominciato anche per lei il tempo di dover girare con il carretto, lasciando la figlioletta alle cognate. Così era la vita.

“«Bene. Ora vi ringrazio e vi saluto. È ora tarda» concluse.

“«E dove dormirete?».

“«In un fienile o in una stalla».

“«Perché non restate qua, invece? Qui in casa ci sono delle stanze vuote».

«Non si può» disse lei, guardandolo intensamente. V’era davvero una luce enigmatica nel suoi sguardo, unb riflesso di sentimenti indecifrabili e pieni di sorprese. Agli occhi di Simone la Clautana perdete ogni alone di femminilità materna. Non fu più una sconosciuta amica di sua madre,  ma soltanto una donna, formosa e regale, che nutriva pensieri  insondabili. Infatti, andandosene, gli strinse la mano e rise rumorosamente, da popolana, senza un motivo evidente. Era una notte chiara di agosto, calda e profumata, e le ultime luci di un giorno che non si decideva mai a finire, sparse e vagabonde, si riflettevano nel bianco della strada. Quando la Clautana scomparve Simone continuò a guardare la via con balorda insistenza. Non si chiese dove lei avrebbe trovato un fienile, dove avrebbe passato la notte, pensò soltanto che se n’era andata. Provò persino una vaga invidia  perché lei camminava lungo le strade, mentre lui era rimasto . Per lei non v’erano limiti, poteva andare dove voleva, lasciarsi guidare dal nastro bianco delle strade. Non era obbligata a fare soltanto brevi giri, limitati e prefissati, come quelli che faceva lui con i carradori. Era assolutamente libera, e tutte le strade erano sue.”

 

Abbiamo scelto di presentare questa pagina del romanzo di Carlo Sgorlon Gli dei torneranno perché ci è sembrato che essa riunisca alcune delle migliori qualità della sua opera narrativa - il realismo potentemente fantastico (ci si perdoni l’ossimoro); il senso del mistero; la caratterizzazione indimenticabile di alcune figure caratteristiche, e ormai scomparse, della civiltà prealpina,  anteriormente all’avvento della modernità - in questo caso, la sedonera di Claut -, mentre è esente da alcuni dei non lievi difetti di questo prolifico Autore che, per certi versi, riteniamo sia stato  un po’ sopravvalutati dalla critica - quella stessa critica così esigente e superciliosa, in genere, quando si tratta di giovani talenti che vengono dalla provincia e che non si accodano ad alcuna delle mode dominanti nel salotto buono delle patrie lettere.

Per quasi mezzo secolo, fra Il vento nel vigneto del 1960 e Il velo di Maya del 2006, Sgorlon ha lavorato a ritmo febbrile, sfornando in media quasi un libro all’anno (talvolta anche due), e la quantità non è sempre stata all’altezza della qualità. Uno stile un po’ prevedibile, come sin troppo prevedibili sono alcune situazioni narrative; una certa insistenza sui medesimi temi, che sconfina, inevitabilmente, nella ripetitività e nella monotonia; una frequente impressione di cose pensate, ma non realmente viste da parte dell’Autore e,pertanto, con qualcosa di rigido, di convenzionale, di estrinseco: questi, i maggiori difetti.

Ai quali va aggiunto un atteggiamento un tantino immodesto, quasi che il successo editoriale abbia  fatto un po’ perdere a Carlo Sgorlon la coscienza dei propri limiti e il senso delle proporzioni; come quando, in un articolo su Il Gazzettino di Treviso - un articolo che avremmo preferito non leggere - si mise a polemizzare con le idee politiche del grande teologo e poeta suo conterraneo, David Maria Turoldo (del quale ci siamo già occupati nella sezione Un film al giorno per il suo film Gli ultimi, tratto dal racconto Io non ero un fanciullo; e consultabile sempre sul sito di Arianna Editrice), che era già morto da tempo. Peggio: in quella sede egli istituì un parallelo fra sé e il defunto; parallelo  che, oltre a peccare di scarsa modestia, non suonava certo di buon gusto, dato che l’oggetto dell’insistito raffronto non avrebbe potuto, evidentemente, sollevare obiezioni (anche se, osiamo credere, in vita ne avrebbe avute da fare, e più d’una).

Ma non vogliamo soffermarci, qui, sulle debolezze della narrativa di Sgorlon, né sugli aspetti meno simpatici del suo carattere; bensì rendere omaggio a una bella pagina di narrativa, in cui lo scrittore friulano ci fa il dono di un ritratto femminile straordinariamente vivo e vitale: quello della sedonera Eleonora, conosciuta però da tutti, e specialmente dal giovane Simone, semplicemente come “la Clautana”: ossia proveniente dal paese di Claut, nell’alta Val Cellina (dal 1968 in provincia di Pordenone; prima di quella data, in quella di Udine).

Per chi non è friulano, bisogna spiegare che le sedonere erano quelle donne che, nella buona stagione, scendevano a piedi dai piccoli borghi di montagna e si spingevano giù in pianura, fino alle città, facendo anche moltissimi chilometri. Portavano sulle spalle una gerla piena di oggetti di legno fabbricati a mano: mestoli, forchette, portauova, matterelli per preparare la pasta, e così via; li avevano realizzati con le loro mani, o li avevano fatti i loro uomini che, a loro volta, prendevano la via dell’Austria, della Germania, della Svizzera, o più lontano ancora, come emigranti stagionali: perché nelle valli della Carnia e del Cadore, fino agli anni Cinquanta del secolo scorso, lavoro non ce n’era, e quel po’ di orto e di prati e quelle quattro mucche non bastavano certo a mantenere una famiglia.

Quello della sedonera, dunque, era uno dei vecchi mestieri che la civiltà industriale ha spazzato via, cancellandone quasi anche il ricordo; ricordo che Sgorlon vuole, invece, salvare, restituendoci un personaggio fresco e immediato, tutto vestito di scuro, come usavano - e usano ancora - le donne della Carnia; col fazzoletto scuro sulla testa con quella figura alta e dritta, come la Clautana fosse fiera nella sua povertà (una fierezza che sarebbe piaciuta a Pasolini); con quei capelli nerissimi, nonostante l’età non più giovane; con quelle maniere semplici e riservate di chi è abituato a una vita frugale, se non proprio stentata; e con quello sguardo profondo, un po’ enigmatico, che turba profondamente il ragazzo, Simone.

Non diremo come andrà a finire questo strano incontro fra la donna matura e il giovane introverso e sognatore, fra la donna povera e l’uomo relativamente benestante; non diremo se ci sarà, per essi,  un’altra occasione, per non sciupare il piacere della scoperta a coloro i quali non avessero ancora letto il romanzo e che, speriamo, si sentano ora sollecitati a farlo. Romanzo che, del resto, ha una trama complessa, e nel quale sia la Clautana che Simone sono soltanto due personaggi corali che, insieme a diversi altri, compongono il vasto polittico di questa Carnia arcaica e un po’ misteriosa, dove ci sono ancora persone che non calcolano il tempo in anni e non misurano la temperatura in gradi centigradi; che si muovono in una dimensione non solo pre-industriale e pre-moderna, ma quasi mitica e favolosa, addirittura leggendaria perché atemporale.

 

Carlo Sgorlon  è nato a Cassacco nel 1930. Scrittore estremamente legato alle sua terra, alle sue radici, si può dire che ha fato della rievocazione di questi elementi il tema esclusivo della sua opera narrativa, che descrive storie reali in un ambiente quasi fantastico (e, da questo punto di vista, richiama un po’ gli scrittori latino americani del Novecento, specialmente Gabriel Garcia Marquez, al cui “realismo magico” può essere accostato).

Tra i suoi romanzi più famosi ricordiamo Il trono di legno (1973), Regina di Saba (1975), Gli dei torneranno (1977), La carrozza di rame (1979), La contrada (1981: per noi, una delle sue cose migliori); La conchiglia di Anataj (1983), L’armata dei fiumi perduti (1985), L’ultima valle (1987), Il calderas (1988), La foiba grande (1992), La malga di Sîr (1997), L’uomo di Praga (2003), Le sorelle boreali (2004).

Alle sfide della modernità Sgorlon risponde con l’esaltazione dei valori originari della terra, del lavoro, dell’amicizia, del ritorno alla natura; e, soprattutto, con il recupero della memoria. Il Friuli che egli descrive è una terra mitica, dove i contorni storici e geografici sfumano e trascolorano continuamente nel favoloso; è il Friuli del Medioevo, dell’antico Patriarcato di Aquileia; e, addirittura, il Friuli precristiano e preromano, il Friuli celtico dei Carni, con le loro divinità del gelo, dei boschi, delle acque; un luogo dello spirito assai prima che un luogo materiale.

Se questa ‘proposta’ si possa configurare come regressiva sul piano psicologico, oltre che reazionaria sul piano politico-sociale, non è questa la sede per discuterne; noi ci limitiamo ad accennare a tale questione, perché si tratta, comunque, di un nodo poetico e ideologico che il lettore di Carlo Sgorlon si trova chiamato a tentare di sciogliere. Del resto, noi siamo convinti che non il romanziere o il poeta, ma il filosofo sia chiamato a giustificare razionalmente le proprie scelte pro o contro una determinata realtà economico-sociale; al poeta e al romanziere, altro non si chiede che si saper evocare un mondo vivo di emozioni e sentimenti, un mondo che risvegli qualcosa che sta al fondo del nostro sentire.

E la pagina della sedonera di Claut, arcano ed enigmatico simbolo della femminilità contadina, ci sembra esservi riuscita pienamente. Noi la vediamo, questa donna; e, soprattutto, la sentiamo: perciò possiamo ben dire di aver potuto gustare una pagina di indubbio valore artistico.

Un po’ come Simone, che indugia ancora a lungo con lo sguardo nella via, dopo che la Clautana se n’è andata incontro alla calda e profumata notte d’agosto, anche noi avvertiamo il vuoto creato dalla sua partenza. Anche noi proviamo una sorta di invidia per la fascinosa libertà di questa montanara che se ne va alla ventura, dorme nei fienili e mangia sui gradini delle case quel piatto di minestra che qualcuno le offre: sempre dignitosa, sempre consapevole di sé, pur nella estrema povertà che la spinge sulle strade come un’anima in pena.

Sì, noi le abbiamo viste, nella nostra infanzia, queste forti e sobrie donne della montagna friulana, vestite di nero, umili ed eroiche come i vinti di Verga: sono proprio così. E anche chi non le ha mai viste, anche chi non è mai stato in Friuli, le può vedere tutte, riassunte nella figura viva e commovente della Clautana di Carlo Sgorlon.