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Wu Zhao, imperatrice maledetta

di Federico Rampini - 10/04/2008

   
Federico Rampini racconta la vicenda dell’imperatrice Wu Zhao (VII secolo), l’unica donna ad aver governato in maniera diretta la Cina, sottolineando il carattere dirompente di quel regno in contrasto con i precetti misogini del confucianesimo.
Ebbe un ruolo influente a corte dapprima come concubina dell’imperatore Taizong, poi come prima consorte del successore Gaozong. Quando egli si ammalò nel 660 fu sostituito da Wu Zhao. Ma sarà nel 690, alla morte dell’imperatore, che avverrà la svolta: Wu Zhao si fece incoronare imperatrice. Alla base del suo potere vi fu la rete di clienti e parenti che infiltrò a corte, ma soprattutto una “rivoluzione” religiosa da lei imposta alla Cina: la sostituzione del confucianesimo, che propugnava una visione patriarcale del governo, con il buddismo, molto più rispettoso delle donne, arrivando persino a divinizzare la sua persona.


Vissuto cinque secoli prima di Cristo, il Maestro Kung Fu-Tzu - che in seguito i gesuiti “latinizzarono” come Confucio - non aveva davvero un’alta stima delle donne. Le scarne notizie che abbiamo su di lui ce lo descrivono decisamente come un misogino. Tra le ragioni che lo spinsero a lasciare un incarico politico e a dedicarsi alla filosofia, pesò il sospetto che il suo sovrano fosse irretito e manipolato da un gruppo di danzatrici. Nel dimettersi dal ruolo di consigliere del principe, Confucio citò un’antica canzone: «La lingua di una donna / Può costare all’uomo la sua posizione / Le parole di una donna / Possono costare all’uomo la sua testa». [...] Per oltre due millenni il confucianesimo ha impresso nella civiltà cinese un ordine patriarcale: come i figli devono rispettare l’autorità degli anziani, così le donne devono obbedienza ai mariti; solo queste regole garantiscono l’armonia sociale e rispecchiano sulla terra l’ordine dell’universo. E per oltre duemila anni, sotto il segno dominante del confucianesimo, la Cina ha sempre avuto imperatori maschi.
Con una eccezione. Una sola. È Wu Zhao l’unica imperatrice della Terra di Mezzo, che visse dal 624 al 705 dopo Cristo, e governò la Cina con pugno di ferro per quasi mezzo secolo. Prima e dopo di lei ci furono sì delle mogli e concubine influenti, capaci talora di manovrare gli imperatori. Ci furono regine-madri e matrigne, reggenti come la vedova Ci Xi, la mamma dell’ultimo imperatore con cui si estinse la dinastia Qing nel 1908. Ma nessuna, salvo Wu Zhao, infranse mai il tabù confuciano che vietava a una donna di esercitare in proprio la carica imperiale. Perciò la figura dell’unica imperatrice cinese giganteggia nella storia. È stata mitizzata o demonizzata; ha suscitato curiosità inesauribili e spesso morbose, che ancora oggi riaffiorano nella letteratura o nel cinema popolare. Femministe e leader politici hanno cercato di impadronirsene e strumentalizzarla.
Era ancora all’apice del suo potere quando uno storico caduto in disgrazia, Luo Binwang, le dedicava nell’anno 684 queste parole di fuoco: «Con il cuore di un serpente e il carattere di una volpe, ha arruolato sicofanti al suo servizio, ha rovinato i giusti. Ha ucciso sua sorella, massacrato i suoi fratelli, assassinato il suo principe consorte e sua madre. È odiata in egual modo dagli uomini e dagli dei». Al che lei rispondeva: «Hanno congiurato contro di me e li ho distrutti. Se siete più abili di loro, tocca a voi: provateci a sfidarmi. Altrimenti siate i miei servi, e risparmiate all’impero lo spettacolo della vostra ridicola disfatta».
L’atmosfera torbida e scabrosa che circonda la sua biografia sembra aleggiare ancora adesso attorno al suo monumento funerario. A settanta km a nordovest dell’antica capitale di Xian (quella dell’esercito di terracotta), il visitatore riconosce da lontano la tomba dell’imperatrice per «le due mammelle», come i cinesi hanno soprannominato le due colline simmetriche che la circondano, ciascuna con una torre che da lontano può assomigliare a un capezzolo. C’è un primo segnale anomalo: tutti gli altri sepolcri imperiali hanno all’ingresso una stele funeraria su cui furono scolpiti epitaffi elogiativi; la stele della tomba di Wu è una pietra liscia, vuota, dove neppure i figli sopravvissuti osarono incidere un pensiero su di lei. È un’omissione che non ha eguali in due millenni di storia imperiale. [...] Intorno, le statue dei dignitari di corte e degli ambasciatori stranieri sono state decapitate: quasi che una maledizione abbia voluto cancellare tutto ciò che accadde sotto il suo regno.
L’immagine con cui viene evocata più spesso è «volpe traditrice». Ma il ritratto che emerge dalle cronache dell’epoca non è solo negativo, tutt’altro. Ce la descrivono bellissima, secondo i canonici dell’estetica femminile di allora: piacevano le facce rotonde e i fianchi generosi. Attraente doveva esserlo per forza visto che fu selezionata a tredici anni tra le concubine dell’imperatore Taizong (dinastia Sui) [...]. La sua sensualità ha eccitato per i secoli successivi la fantasia. I cinesi sono convinti che fece una rapida carriera all’interno dello harem imperiale perché «offriva prestazioni sessuali che nessun’altra donna osava» [...]. Una spiegazione di quel ritratto di donna sessualmente liberata, perfino aggressiva a letto, è in chiave etnica: all’epoca delle dinastie Sui e poi Tang i cinesi si erano mescolati con tribù dell’Asia centrale, popoli nomadi turcomanni le cui donne portavano i pantaloni, andavano a cavallo e in famiglia avevano più peso delle cinesi. L’alcova ha un ruolo centrale nella scalata al potere di Wu Zhao. Nel 649, quando muore l’imperatore Taizong, teoricamente lei deve raparsi a zero la testa ed entrare in un convento di vedove imperiali. Così fanno tutte le concubine che non hanno dato un figlio al sovrano. Ma lei si è già assicurata una posizione con il successore. Macchiandosi di incesto imperiale, quando ancora Taizong era vivo lei è diventata l’amante del figlio, il principe Gaozong. Non appena quest’ultimo ascende al trono la concubina si fa mettere incinta. Gli regala il primo erede maschio: una mossa vincente nella lotta per l’influenza alla corte imperiale. Wu indebolisce la posizione della moglie di Gaozong che risulta essere sterile, la fa ripudiare e la sostituisce come prima consorte. Più tardi - per non correre rischi - le farà tagliare braccia e gambe, e l’annegherà in una botte di vino. Nel 660 l’imperatore Gaozong è colpito da un ictus, resta paralizzato. Già da quel momento è Wu Zhao a governare di fatto la Cina, per procura. Alla morte del marito, nel 690 lei osa l’impensabile: si fa incoronare come imperatrice. È un oltraggio alla tradizione patriarcale, una prevaricazione che dovrebbe scontrarsi con resistenze fortissime nella corte e in tutta la classe dirigente. Ma durante gli anni del suo potere-ombra, quando era già lei a esercitare le veci del marito invalido, Wu Zhao si è costruita una formidabile rete di potere. Ha infiltrato la corte imperiale di suoi fedelissimi, spesso parenti, organizzati in una vera e propria polizia segreta [...].
La grandezza di Wu Zhao però sta altrove. Lei intuisce che il potere fondato solo sul terrore e sulle congiure di palazzo è fragile ed effimero. Per conquistarsi il consenso della burocrazia imperiale ha una trovata di genio: usa la religione. S’impadronisce del buddismo contro il confucianesimo. L’aiuta in questa operazione uno dei suoi amanti, un commerciante di droghe e cosmetici con cui ha una relazione a partire dal 680. [...] L’imperatrice lo nomina abate a capo del monastero del Cavallo Bianco, vicino alla città di Luoyang. Con l’aiuto dell’amante-abate, la regina inizia la costruzione di un “culto femminista” per legittimare il proprio potere. Viene riscoperto e glorificato un oscuro testo minore della tradizione buddista, la Sutra della Grande Luna, dove si esalta una divinità femminile, la Signora Celeste Pura e Radiosa. Il testo sacro profetizza che sette secoli dopo la morte di Budda la dea rinascerà in terra incarnandosi in una principessa. L’imperatrice Wu investe generosamente le ricchezze del tesoro pubblico per finanziare nuovi monasteri, templi e statue - tra cui un Budda gigante di diciassette metri nelle celebri grotte di Longmen - tutti devoti al culto della Maitreya-Budda, la dea madre che regnerà in un futuro paradiso. Cioè lei stessa, secondo la sua consacrazione divina che diventa legge nei monasteri dal 694.
[...] L’imperatrice che trasforma se stessa in divinità buddista osa un esperimento di rottura radicale. Non le sarà perdonato. Alla sua morte - nel 705 viene deposta e assassinata da un golpe di palazzo - dilagano leggende che la dipingono come un essere immondo, dai vizi ripugnanti. La descrivono come una vecchia impudica e assetata di sesso che costringe più uomini a orge collettive nel suo letto, si droga di afrodisiaci «fino a che le ricrescono i denti e le sopracciglia».
Ricostruzioni più attendibili considerano invece il suo regno come un’epoca di relativa continuità nella prima “età dell’oro” della civiltà cinese. In quegli anni a cavallo tra le dinastie Sui e Tang l’Impero di Mezzo raggiunge un apogeo di sviluppo e di potenza. Alla corte di Wu Zhao s’intrecciano relazioni diplomatiche con il mondo intero, arrivano in visita principi persiani, mercanti ebrei e indiani, missionari tibetani, ambasciatori dall’impero bizantino, artisti giapponesi. È un periodo di benessere e di notevole apertura verso il resto del mondo, a cui contribuisce una sovrana senz’altro capace e intelligente.
Eppure la figura di Wu Zhao è rimasta troppo ingombrante per essere consegnata con serenità al bilancio degli storici. Dalla sua scomparsa non ha mai smesso di ossessionare i cinesi. Nel Sedicesimo secolo ispira un romanzo pornografico, Il Signore del Piacere Perfetto, ricco di dettagli osceni sui suoi amori senili. Nel Diciannovesimo secolo un altro romanzo, Fiori allo Specchio, la celebra invece come una vendicatrice di tutte le donne oppresse, una virago che impone la sua volontà perfino alla natura. Nel Novecento i comunisti riabilitano la sua memoria e s’impadroniscono del personaggio per propugnare l’emancipazione delle donne. A metà degli anni Settanta, sul finire della Rivoluzione culturale, quando Mao Zedong è ormai affetto dal morbo di Parkinson e nel partito comunista imperversa la lotta tra fazioni rivali, il simbolo dell’imperatrice donna viene gettato nel vortice della furiosa battaglia politica. Tutti usano il personaggio della storia antica per alludere a Jiang Qing, la moglie di Mao che fa parte della famigerata Banda dei Quattro, gli istigatori delle Guardie rosse. La corrente radicale ricostruisce la storia di Wu Zhao descrivendola come una moglie leale e fedele che governò degnamente la Cina sostituendo il marito malato. I moderati, nemici della Banda dei Quattro, rievocano dell’imperatrice una scandalosa immoralità.
L’unica donna che salì al trono dell’Impero Celeste non ha smesso di eccitare le controversie fino ai nostri giorni. Un’autorevole femminista, Shu-Fang Dien, ha dedicato un’opera monumentale a L’imperatrice Wu nella storia e nella letteratura. È un’appassionata rassegna della condizione della donna cinese, riletta in filigrana attraverso tutte le reincarnazioni di Wu Zhan nell’immaginario della nazione, fino alle telenovelas che la raffigurano in varie versioni sugli schermi televisivi nel Ventunesimo secolo. Si conclude con queste parole: «È dai tempi dell’imperatrice del Settimo secolo che cerchiamo di superare l’eredità dell’ideologia confuciana e del suo familismo maschilista e patriarcale. La lotta continua». [...]