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Vento di primavera

di Francesco Lamendola - 10/04/2008

 

 

 

Anche se allunga ancora qualche rabbiosa zampata, l'inverno sta per finire (anzi, astronomicamente è già finito), e la primavera batte alle porte.

Con le gemme che sbocciano sugli alberi ancora spogli, ma per poco; con i cieli azzurri che erompono dalle nubi tempestose dei frequenti acquazzoni; con le distese di primule e non-ti-scordar-di-me che rallegrano, con le loro vivacissime macchie di colore, i pendii delle valli accarezzate dal sole.

È la vita che ritorna, che si rimette in movimento, che riprende a fluire nelle giunture anchilosate, nelle vene e nei vasi linfatici induriti, che scorre come un flusso gioioso e irresistibile dopo la lunga pausa dell'inverno. La natura si rinnova: e dalla stessa terra, dallo stesso tronco, dagli stessi rami della forsizia o del limone sbocciano i fiori, gialli per l'una, bianchi per l'altra; che poi scompariranno, lasciando però il posto a una chioma verdeggiante e vittoriosa.

 

Ma per il mondo degli umani, l'arrivo della primavera può essere solo un evento estrinseco. L'inverno delle delusioni, l'inverno del disincanto può gelare l'anima per sempre, consegnandola a un inverno perenne che solo in apparenza si risveglia alle piogge di marzo, ai venti gagliardi  d'aprile, allo splendore luminoso di maggio.

Per quanti di noi la primavera ha cessato di tornare nel profondo, di risvegliarci a nuova vita, di schiuderci la prospettiva di nuovi orizzonti? Per quanti di noi essa ha cessato di intonare il canti della gratitudine alla vita? Quanti esseri delusi, sconfitti, amareggiati si sono rinchiusi nella triste sicurezza di un inverno che non finirà, se non con la morte?

Una bella e triste canzone di Luigi Tenco (su un teso francese intitolato Les temps file ses jours; e, infatti, era stata scelta come sigla iniziale delle televisive Inchieste del commissario Maigret): recitava così:

 

"Un giorno dopo l'altro

il tempo se ne va

le strade sempre uguali

le stesse case.

La nave ha già lasciato il porto

e dalla riva sembra un punto lontano

qualcuno anche questa sera

torna sconfitto a casa piano piano.

Un giorno dopo l'altro

la vita se ne va

e la speranza ormai

é un'abitudine…"

 

Crediamo, senza esagerare, che la maggior parte degli esseri umani rientrino nella categoria degli sconfitti, che si lasciano vivere stancamente, per abitudine, non più sfiorati dal soffio di speranza che porta con sé la primavera del cuore.

Non lasciamoci ingannare dalle apparenze, dalle grinte aggressive o dai languidi atteggiamenti seduttivi a tutto campo; anche quelli, non sono che modi di camuffare la propria sconfitta, la propria delusione e la propria amarezza.

Si può essere degli sconfitti senza esserne pienamente consapevoli; dei rassegnati che si credono ancora vitali, impegnati nella diuturna rincorsa del carpe diem; epicurei  dalle bandiere lacere e sbrindellate, che sono gli unici a non vedere ciò che a tutti gli altri è evidente: la disperazione che hanno nel cuore, l'abbrutimento mascherato da edonismo, la competitività esasperata per nascondere il fallimento più importante…

 

È vero, a tutti la vita infligge dolori e delusioni; a tutti lascia delle cicatrici, più o meno profonde, più o meno vistose. Certe cicatrici sono più in mostra di altre, ma non è detto che siano anche le più gravi. Le più gravi, sono quelle che non rimarginano mai; che continuano a sanguinare, anche dopo anni e anni; che tolgono ogni speranza di guarigione, di serenità, di pace.

Molti uomini e molte donne ne sono afflitti. In genere, si tratta di persone non più giovani; ma, a volte, anche i ventenni e perfino gli adolescenti ne portano i segni.

Però, se è vero che tutti, chi più chi meno, siamo passati al vaglio dalla vita, come lo è la farina, per separarla dalla crusca, sta di fatto che alcuni ne fanno occasione di crescita, di maturazione, di rinnovato amore e gratitudine per la vita, di una più ampia comprensione spirituale e di un costante  allargamento dei propri orizzonti, umani, culturali e intellettuali; mentre altri… Altri, ne restano segnati quasi solo in negativo: al punto che non osano più credere in niente, sperare in niente, mettersi in gioco per alcuna cosa.

Ecco, questi sono gli sconfitti della vita. Possono anche mascherare la loro sconfitta totale vestendo i panni dell'imprenditore di successo, del politico onnipotente o del tenace arrampicatore sociale dalle mille risorse: a stento riescono ad ingannare se stessi; quasi mai, la cerchia ristretta di chi sta loro intorno, di chi vive con loro, a cominciare dalle mogli (o mariti) e dai figli.

Chi non spera più nelle cose essenziali, talvolta si aggrappa alle piccole speranze delle cose caduche; chi non crede più nell'essenziale, si stordisce immergendosi in mille cose secondarie, al punto da non avere neanche quasi il tempo di mangiare e dormire. Sempre in movimento, sempre di corsa; da un luogo all'altro, da un interesse all'altro; da un amore all'altro, da un letto all'altro. Qualunque cosa, piuttosto che fermarsi a guardarsi dentro: e riconoscere la propria disperazione, la propria paralisi interiore, il terrore di dover soffrire ancora…

Già: perché tutto nasce proprio da questo: dalla paura di soffrire. Di aggiungere nuovo dolore a quello già patito

Eppure, non ci vuole un grande sforzo di riflessione per rendersi conto che, così facendo, ci si priva volontariamente di tutto ciò che rende la vita bella e desiderabile: il piacere della scoperta di terre nuove e cieli nuovi; l'ebbrezza di sentire nelle narici il soffio vigoroso del vento di primavera, che porta in dono il profumo di cose nuove e dolcissime.

Non vi è che un modo per rendere la propria vita ricca, piena e intensa: smetterla di fare mille cose, in modo nevrotico e compulsivo; e allargare l'orizzonte della propria coscienza, mediante un atto supremo di generosità, che consiste nell'andare incontro alla vita, con tutto ciò che essa ha offrirci: non escluse delusioni e sofferenze.

Gli orientali lo sanno da sempre: lo ying non può esistere senza lo yang; il calore, senza il freddo; la luce, senza l'oscurità; la salute, senza la malattia; la gioia, senza il dolore; la vita, senza la morte… E anche noi occidentali lo sapevamo, lo sapevamo da secoli e millenni; e poi, lo abbiamo dimenticato. Sono state le chimere della modernità a farcelo dimenticare: l'illusione dell'autosufficienza, l'orgoglio della ragione, il mito del progresso, i feticci della scienza e della tecnica…

Bisogna riconoscerlo: con tutta la nostra razionalità, con tutta la nostra scienza e la nostra tecnica, siamo oggi meno saggi di quanto lo erano i nostri nonni, che lavoravano la terra con amore e gratitudine e aspettavano dal Cielo il dono del sole e della pioggia, il dono della vita, il dono del domani. Dobbiamo ritrovare quella semplicità, dobbiamo riconquistare quella saggezza: spogliandoci di molte delle cose inutili che abbiamo scambiato per necessarie, anzi per indispensabili; di molte delle certezze che derivano solo dal nostro delirio di onnipotenza; di molta di quella zavorra che ci appesantisce e ci rallenta e ci fa perdere di vista l'essenziale…

Ma che cosa è, l'essenziale?

Ecco: vestire i nostri occhi di uno sguardo nuovo, e riscoprire l'incanto del mondo. Riscoprire l'infinita bellezza, l'infinita bontà e l'infinita verità del mondo che ci avvolge, ci nutre e ci protegge, e verso il quale abbiamo disimparato a coltivare il benché minimo sentimento di stupore, amore e gratitudine.

La magnificenza è intorno a noi, come lo era quando, bambini, ne facevamo la prima scoperta; ma il nostro sguardo si è appannato, è divenuto torbido ed ingrato, amareggiato e rancoroso, oppure avido e calcolatore. In ogni caso, ha perduto la sua purezza.

Siamo diventati impuri, perché abbiamo chiuso cuore e mente alla bontà, alla verità e alla bellezza del tutto che ci avvolge. Una volta divenuti impuri, siamo divenuti anche infelici; e una volta  infelici, siamo divenuti pieni di segreta ostilità e di malevolenza appena dissimulata.

Siamo divenuti ossessi: posseduti dal male. Il male è la disperazione, il disconoscimento della bellezza, il no alla vita.

La paura della vita e del dolore è un "no" alla vita.

L'edonismo esasperato è un "no" alla vita.

La competitività senza limiti, la smania di arrivare, di primeggiare, di superare l'altro e, possibilmente, di umiliarlo, sono altrettanti "no" alla vita.

Credersi onnipotenti, trattare le cose e le persone come mezzi o strumenti per raggiungere i nostri fini egoistici, sono la forma suprema del male, il supremo "no" alla vita.

Perché accettare la vita, ringraziare la vita, dire di alla vita, significa accoglierla a trecentosessanta gradi, con tutto quello che essa ha offrirci: il sole e la pioggia, l'inverno e la primavera, la gioia e il dolore.

Significa riconoscere che nella vita vi è una saggezza molto superiore alla nostra, e sforzarsi di apprendere da essa, con umiltà e con spirito virile. Come facevano i nostri nonni, che guardavano il Cielo e attendevano, pregando, ciò che avrebbe mandato loro: quando il sole o la pioggia significavano abbondanza o carestia ed erano, quindi, questione di vita o di morte. Eppure, essi attendevano con fiducia; e, se le cose non andavano come avevano sperato, non imprecavano, non maledicevano e non si ribellavano. Continuavano a spezzare e benedire il (poco) pane che avevano sulla tavola, e a ringraziare la vita.

La vita dà, la vita toglie: non sta all'uomo decidere.

All'uomo è dato, invece, di porsi nella giusta disposizione di spirito verso le cose della vita, quelle buone e quelle meno buone. Di godere delle prime, senza ubriacarsene e senza perdere il senso della misura; e di imparare dalle secondo, cercando - se possibile - di diventare migliori, come la farina che viene separata, nel vaglio, dalla crusca.

Il segreto è tenersi pronti a partire, a lasciare tutto, a rinunciare a tutto: solo così si impara a godere di ogni cosa e si apprezzano anche le cose meno buone.

Abituarsi a lasciare le piccole cose, vuol dire abituarsi a lasciare quelle grandi; prepararsi a quella grande partenza che è l'ultimo viaggio della nostra vita terrena.

Come recita una poesia di Vincenzo Cardarelli (1887-1959), intitolata semplicemente Alla morte, della quale ci piace riportare i primi versi:

 

"Morire sì,

non essere aggrediti dalla morte.

Morire persuasi

che un siffatto viaggio sia il migliore.

E in quell'ultimo istante essere allegri

come quando si contano i minuti

dell'orologio della stazione

e ognuno vale un secolo…

 

Come quando, aggiungiamo noi, il vento gagliardo di primavera ci porta il profumo di cose nuove...