Sciolte le riserve dei ghiacciai
di Marco Cocchi - 11/04/2008
Ighiacciai, roccaforti d’acquadolce del pianeta, continuano a
sciogliersi a velocità record.
L’allarme arriva da Wilfried Haeberli,
direttore del World Glacier
Monitoring Service (WGMS), un
centro presso l’Università di Zurigo
che si occupa, per conto delle
Nazioni Unite, del monitoraggio dei
ghiacciai mondiali. Il glaciologo
svizzero riferisce che il tasso medio
di assottigliamento e di scioglimento
è raddoppiato tra il 2004 e il
2006, mentre «gli ultimi dati sembrano
confermare ciò che si presenta
come un trend di accelerazione,
apparentemente inarrestabile».
I ghiacciai alimentano i fiumi, da
cui i popoli della terra dipendono
completamente (360 milioni di persone
dal Gange in India e 388 milioni
solo dal fiume Yangtze in Cina).
L’acqua in quantità inferiore e l’irregolarità
delle correnti ostacoleranno
la semina dei campi in queste
regioni e in altre parti del mondo. Il
rapido scioglimento dei ghiacciai
produce inoltre alluvioni e fa alzare
il livello dei mari. In media, c’è un
metro d’acqua dolce ogni 1,1 metri
di ghiacciaio.
Il WGMS ha ricostruito il movimento
dei ghiacciai per oltre un
secolo. Una serie di dati continui
sull’equilibrio di massa annuale,
espresso come variazione di spessore,
è disponibile su trenta ghiacciai
di riferimento dal 1980. La perdita
di ghiaccio nel 2006 è stata particolarmente
alta, quasi il triplo che nel
2005. Nel complesso, dal 1980 i
ghiacciai hanno visto in media una
perdita netta di 11,5 metri di spessore
del ghiaccio. Tali perdite sono
chiaramente visibili in diverse parti
del mondo.
Un drastico ritiro
inaugurato
negli anni Cinquanta
Alcuni dei fenomeni più drammatici
di ritiro dei ghiacciai si sono verificati
in Europa, con l’assottigliamento
del ghiacciaio Breidalblikkbrea in
Norvegia di circa 3,1 metri solo nel
2006. Studi recenti indicano che il
volume della maggior parte dei
ghiacciai sudamericani dalla
Colombia al Cile e all’Argentina si
sta riducendo drasticamente, a un
ritmo accelerato.
Anche negli Stati Uniti la situazione
è molto seria, come riferisce William
Bidlake, glaciologo presso
l’U.S. Geological Survey, Stato di
Washington. L’esperto americano
segnala che «quasi tutti i ghiacciai
si stanno sciogliendo, come provato
dal declino complessivo registrato a
partire dagli anni Cinquanta». Alla
dichiarazione di Bidlake fanno
seguito le recenti scoperte di nuove
porzioni di terreni che non vedevano
la luce del giorno da migliaia di
anni, dimostrando che con l’aumento
delle temperature i ghiacciai si
ritirano verso le montagne, verso
altitudini maggiori e più fredde.
C’è anche da rilevare che il manto
nevoso montano è più importante
per le correnti d’acqua negli USA
ma, nei periodi di siccità, sono i
ghiacciai a mantenere l’acqua di
molti fiumi. E sciogliendosi i ghiacciai
hanno meno acqua per rifornire
i fiumi. Richard Alley, glaciologo
presso la Pennsylvania State University,
è convinto che «il freddo
inverno che quest’anno ha interessato
molte parti dell’emisfero Nord
non aiuterà a fermare la tendenza
alla dissoluzione, poiché i ghiacciai
non si sciolgono in inverno».
Secondo l’esperto statunitense, il
clima più freddo e più nevoso del
solito ha portato qualcuno a suggerire
che la velocità del cambiamento
climatico starebbe rallentando. Ma,
anche se alcuni mesi sono più freddi
o se nell’insieme questo è stato un
inverno più freddo rispetto a quello
dello scorso anno, il trend degli ultimi
trenta anni dimostra in modo
evidente che le temperature si stanno
alzando. Per questo i ghiacciai
continueranno a sciogliersi, mentre
le continue perdite del massiccio
strato di ghiaccio della Groenlandia
potrebbero far alzare i livelli dei
mari di sette metri.
Nefaste conseguenze
di un incessante
global warming
L’allarme sulla difficile situazione
della banchisa che ricopre la più
grande isola del mondo arriva da
due glaciologi dell’Università di
Bristol, Johathan Bamber e Anthony
Payne, i quali ventilano la possibilità
che il generale surriscaldamento
provocherà un analogo fenomeno
nel mare: tanto che il ghiaccio intorno
alla Groenlandia potrebbe addirittura
scomparire, entro la fine di
questo secolo.
Si tratta di uno scenario davvero
allarmante che interessa tutta l’umanità:
infatti il surriscaldamento globale
non provoca gravi conseguenze
solo nell’emisfero Nord, ma anche
nel resto del globo, sempre più colpito
da avvenimenti atmosferici
estremi come uragani, inondazioni e
ondate di calore. E, come ha sottolineato
l’Intergovernmental Panel on
Climate Change (Comitato Intergovernativo
sul Mutamento Climatico),
un organismo formato nel 1988
da due apparati dell’ONU, ovvero
l’Organizzazione meteorologica
mondiale e il Programma delle
Nazioni Unite per l’ambiente, il
riscaldamento globale in atto è da
imputare in termini decisivi al comportamento
dell’uomo.
Eppure la maggior parte dei nostri
simili sembra far finta di nulla e,
come gli struzzi, nasconde la testa
nella sabbia.
Il risultato di tutto ciò è che l’innalzamento
massimo della temperatura
prospettato proprio dall’Ipcc nel
2001 potrebbe essere gravemente
sottostimato. In questo secolo
potremmo assistere ad un aumento
massimo di calore di 10 o 12 gradi
invece che di 5,8 gradi. E, come
ogni disastro incombente che si
rispetti, ciò ha dato vita a una prolissa
industria di smentite.
Pochi adesso sono così incoscienti
da dichiarare che il cambiamento
climatico causato dall’uomo non
stia avvenendo, ma questi pochi non
perdono occasione per rendersi ridicoli
in pubblico, come dimostrano
le dichiarazioni dell’ex ambientalista
David Bellamy. Scrivendo sul
Daily Mail
, Bellamy sostiene che«il legame tra la fusione del combustibile
fossile e il riscaldamento globale
è un mito».
Quelle grottesche
tesi economiche
di Bjorn Lomborg
La maggior parte di coloro i quali
insistono nell’immobilismo ha però
smesso di negare la scienza e ora
cerca, invece, di dire che il cambiamento
climatico sta sì avvenendo,
ma che non è un grosso problema. Il
loro campione è lo statistico danese
Bjorn Lomborg, che in più di un’occasione
ha dichiarato di aver calcolato
che il riscaldamento globale
causerà 5 milioni di miliardi di dollari
di danni e per attenuarli ne servirebbero
solo 4. I soldi, a suo dire,
potrebbero essere spesi meglio
altrove.
L’idea che si possa attribuire ai costi
sostenuti per il riscaldamento globale
un’unica cifra importante è grottesca.
Il cambiamento climatico non
è un processo lineare, i cui probabili
impatti possono essere sommati
come le spese per una gita al mare
tutto compreso. Anche quei risultati
che possiamo prevedere sono
impossibili da quantificare in termini
di costo. Adesso, per esempio,
sappiamo che esiste la possibilità
che i ghiacciai himalayani, che alimentano
il Gange, il Bramaputra, il
Mekong, il Yangtze e gli altri grandi
fiumi asiatici, possano scomparire
nel giro di quarant’anni. Se questi
fiumi si prosciugassero durante la
stagione dell’irrigazione, allora la
produzione di riso, che attualmente
sfama più di un terzo dell’umanità,
collasserebbe e il mondo andrebbe
incontro a una carestia globale. Se
Lomborg crede di poter dare a ciò
un prezzo, ha passato evidentemente
troppo tempo con la calcolatrice e
non abbastanza con gli esseri umani.
Ma la gente spesso ascolta queste
assurdità perché l’alternativa
sarebbe di accettare quello cui nessuno,
in cuor suo, vuole credere.
Le tre risposte
di un Rapporto
apocalittico
C’è, però, chi la pensa in maniera
molto diversa da Lomborg, come
l’economista britannico Sir Nicholas
Stern. Nel suo “Rapporto Stern
Review of the Economics of Climate
Change”, l’ex Chief Economist
della Banca Mondiale ha esaminato
l’impatto economico dei cambiamenti
climatici basando la sua analisi
su dati scientifici concreti e sulle
pubblicazioni economiche più
recenti. Nello studio commissionato
nell’estate del 2006 dall’allora Cancelliere
dello Scacchiere, Gordon
Brown, Stern sostiene che i cambiamenti
del clima, con l’innalzamento
generalizzato delle temperature
medie, non sono solo una minaccia
all’ambiente, ma rappresentano
anche un pericolo gravissimo per
l’economia mondiale. Nello scenario
peggiore, Sir Nicholas prevede
un calo del 20 per cento del prodotto
economico mondiale a causa dei
mutamenti climatici. Un costo calcolato
attorno ai 5,5 trilioni di euro,
se non si affronterà il problema in
maniera risolutiva entro i prossimi
dieci anni.
Dunque anche l’autorevole economista
britannico, attualmente alla
guida del Servizio Economico Statale
del Regno Unito, si è reso conto
che quella del
global warming (terminepopolarmente usato per descrivere
l’aumento nel tempo della temperatura
media dell’atmosfera terrestre
e degli oceani) è una seria
minaccia.
La sua minuziosa analisi individua
tre elementi di politica necessari per
un’efficace risposta globale. Il primo
è la fissazione del prezzo del
carbonio, mediante imposte, trading
o normative, in modo che i responsabili
paghino per intero il costo
sociale delle proprie azioni. Il
secondo è una politica di sostegno
all’innovazione e all’impiego di tecnologie
a basso tenore di carbonio.
Il terzo sono l’eliminazione delle
barriere all’efficienza energetica e
misure per informare, educare e persuadere.
I provvedimenti devono
inoltre occuparsi anche delle emissioni
non provenienti dalla produzione
di energia, pari ad un terzo del
totale mondiale.
L’intervento per evitare ulteriori
deforestazioni deve costituire una
priorità urgente. Chiari segnali politici,
credibili nel medio e lungo termine,
dovranno guidare gli investimenti
privati verso una diminuzione
delle emissioni. Con l’aumentare
della consapevolezza, la gente esigerà
sempre più una risposta forte
dai Governi. Lo stesso dibattito
pubblico è una componente essenziale
della politica.
Il Rapporto Stern evidenzia come
un’azione valida per la riduzione
delle emissioni potrebbe contenere
il costo a circa l’1% del Pil mondiale
ogni anno. In questo modo, l’economia
globale continuerebbe a crescere,
mentre il passaggio ad un’economia
a basso tenore di carbonio
aprirebbe stimolanti opportunità
commerciali, facendo crescere la
domanda di nuovi prodotti e servizi
finanziari per un valore di centinaia
di miliardi l’anno. Stern sostiene
che, con il trend attuale, la temperatura
media del pianeta salirà di 2-3
gradi centigradi entro i prossimi 50
anni, rispetto alle temperature nel
periodo 1750-1850. Inoltre, avverte
che se le emissioni continueranno a
salire la Terra potrebbe riscaldarsi
ulteriormente, con gravissime conseguenze.
I Paesi poveri sarebbero i
più colpiti, mentre lo scioglimento
dei ghiacciai aumenterà il rischio di
alluvioni e ridurrà le risorse d’acqua;
finendo con il minacciare fino
a 1/6 della popolazione mondiale.
Non servono, dice Stern, misure
unilaterali, ma serve un sforzo mondiale:
se la Gran Bretagna chiudesse
tutte le sue centrali elettriche domani,
ad esempio, la riduzione di emissioni
dannose verrebbe vanificata
entro soli 13 mesi dalla crescita
inquinante della Cina che, insieme
all’India, rappresenta la sfida decisiva
per la riduzione delle emissioni
nel futuro immediato.
Interessi economici
sempre più
über alles
È quindi innegabile che gli interessi
economici, purtroppo, rimangono la
priorità assoluta. Del resto, se così
non fosse, invece di correre ai ripari
e preoccuparsi della sorte che
potrebbe toccare alle popolazioni
indigene dell’Artico o alla fauna
locale, approfittando delle mutate
condizioni climatiche, i tecnici specializzati
delle multinazionali non
sarebbero corsi ad esplorare la
regione solitamente coperta dal
ghiaccio alla ricerca di gas e petrolio.
Poi l’apertura del famoso passaggio
a Nord-Ovest, verificatasi l’estate
scorsa per diverse settimane attraverso
un labirinto di isole canadesi
solitamente bloccate dal ghiaccio,
pare presagire la nascita di una nuova
via internazionale di navigazione
tra l’oceano Atlantico e il Pacifico,
sfruttabile per i commerci.
Ma non possiamo continuare con
questo atteggiamento. Non si possono
ignorare gli effetti del
globalwarming
che stanno già interessandoalcuni Paesi, come l’arcipelago
delle Sundarbans, la più grande
foresta di mangrovie al mondo,
dove già quattro isole sono sprofondate
nell’oceano, costringendo
6mila famiglie ad abbandonare i
loro villaggi, e Tuvalu, un arcipelago
indipendente della Polinesia,
destinato a scomparire dal planisfero
entro i prossimi 30/50 anni a causa
dell’innalzamento dei livelli dei
mari. È necessario che le singole
nazioni della Terra non si limitino a
pronunciare tante belle parole ai
meeting internazionali sull’ambiente,
ma che passino alle vie di fatto,
applicando misure restrittive volte
al taglio delle emissioni di gas serra
responsabili del riscaldamento del
pianeta e fissando degli obiettivi che
devono essere raggiunti a tutti i
costi.
Mancano solo 18 mesi al meeting
della Convenzione ONU sul clima
di Copenhagen 2009, dove i Governi
dovranno concordare un nuovo
trattato risolutivo sulla riduzione
delle emissioni. Per la maggior parte
degli scienziati nel mondo questo
accordo dovrà portare ad una riduzione
delle emissioni tra il 25 e il 40
per cento entro il 2020, per poter
sperare di evitare un cambiamento
climatico catastrofico.