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Conferenza di Bangkok: le solite chiacchere

di Manuel Zanarini - 11/04/2008

 

Dal 31 Marzo al 6 Aprile scorsi, si sono tenuti a Bangkok(Thailandia) i primi negoziati formaili dopo Bali, sotto l’egida dell’ONU, per continuare il tragitto della lotta al riscaldamento globale.

Lo scopo era quello di continuare il lavoro svolto a Bali cercando di superare le difficoltà che lo avevano reso inutile, in primis stabilire norme vincolanti per i prossimi anni e varare piani di lavoro che possano agevolare i paesi in via di sviluppo.

Sul primo punto forte è la resistenza dei paesi più ricchi e più inquinanti. Se a Bali i “protagonisti” furono gli Stati Uniti e l’Australia, stavolta la scena l’ha presa il Giappone che ha affermato la necessità di stabilire un percorso comune a lungo termine, quindi “una visione condivisa ma non giuridicamente vincolante”.

Anche sul fronte dei paesi in via di sviluppo gli ostacoli non sono mancati. La loro attenzione è soprattutto posta sui fondi che verranno loro versati per poter far fronte agli impegni. Infatti chiedono diversi miliardi di dollari per poter adeguare i loro sistemi produttivi inquinanti, passando a quelli a basse emissioni di gas serra, e soprattutto l’istituzione di fondo per l’adeguamento al global warming. Quest’ultimo rappresenta uno degli aspetti più importanti e al contempo più preoccupanti. Paesi in difficoltà economiche o poveri, si pensi all’Asia o all’Africa, si trovano particolarmente colpiti dal riscaldamento globale, che in larga parte è stato causato dalle nazioni ricche negli anni passati, ma non riescono a finanziare strutture che li possano difendere (maremoti, siccità, disastri ambientali vari) e al contempo quelli in via di sviluppo dovrebbero sostenere i medesimi costi delle nazioni che inquinano da più tempo.

Per questo vengono richiesti fondi, ma le previsioni emerse da Bangkok sono piuttosto grigie. Il Programma di sviluppo dell’ONU stima siano necessari 58 miliardi di Euro entro il 2015, ma i fondi che sono stati previsti sono solo 204 milioni all’anno, che si otterranno attraverso un adeguamento dell’adaptation fund dell’Onu creato a Bali, con un massimo di un miliardo di euro all’anno se si guarda all’accordo sul clima successivo all’approvazione del Protocollo di Kyoto.

Inoltre, chiedono anche un maggiore e migliore accesso alle tecnologie necessarie all’adattamento al cambiamento climatico e l’assicurazione che i fondi per la lotta al global warming non venganno sottratti ai già scarsi aiuti allo sviluppo.

Se le loro richieste continueranno ad essere ignorate, minacciano di non firmare il patto per stabilizzare le emissioni nel corso dei prossimi dieci anni e per tagliarle della metà entro il 2050.

Giusto per far loro un contentino, è stato inserito nel documento finale, l’accesso alle tecnologie “verdi” e l’assistenza economica e finanziaria come priorità della road map che deve portare al nuovo trattato che dovrebbe essere firmato nel 2009 a Copenaghen.

Uno dei pochi aspetti positivi è stato il ruolo ancora di primo piano tenuto dall’Unione Europea. Diverse sono state le proposte promosse dalla UE: revisione del protocollo di Kyoto per dargli maggiore peso; future regole di sfruttamento di suolo e foreste che dovranno essere migliorate per tenere davvero conto del ruolo nella riduzione delle emissioni; il rafforzamento dei “pozzi” di carbonio e lo sviluppo di risorse rinnovabili di bioenergie e di legname; azioni future riguardanti le emissioni dei trasporti aerei e marittimi. Inoltre è riuscita a mediare tra le parti, impegnando i paesi più ricchi a ridurre le emissioni di anidride carbonica entro il 2020 almeno del 30% purché anche gli altri Paesi industrializzati si impegnassero ad ottenere riduzioni simili e che i Paesi in via di sviluppo più avanzati, come Cina, India e Brasile, apportassero un contributo adattato alle loro rispettive capacità.

 Il problema è che i piani tecnici per ottenere questi obiettivi sono stati nuovamente rimandati. Infatti sono previsti altri 3 summit: il primo a Bonn, dove si affronterà il tema dei finanziamenti per le tecnologie necessarie a contrastare il cambiamento climatico; il secondo in Ghana, dove si discuterà la proposta giapponese di approccio settoriale e il temi legati alla deforestazione; e il terzo a Poznan, in Polonia, per discutere la proposta dell’Unione Europea per una visone comune per un’azione cooperativa a lungo termine.

 

Bisogna tenere presente che tutti questi ostacoli, queste discussioni, questi rinvii, sono estremamente pericolosi, in quanto per impedire che la temperatura salga oltre i 2 gradi centigradi, limite considerato ultimo per evitare conseguenze disastrose, si dovranno tagliare le emissioni di gas serra di una quantità tra il 50 e l’80% di quella attuale entro il 2011. Per fare questo, è necessario elaborare in fretta una strategia globale che coinvolga i paesi ricchi (USA, Australia e Giappone in primis), quelli in una fase di forte espansione (Cina e India) e quelli poveri che ne pagano in primis le conseguenze (Asia e Africa).

Ma il problema vero è che le strutture internazionali esistenti, come l’ONU, si rivelano una volta di più inadeguate e schiave dei paesi che di fatto controllano il Mondo.

Quindi bisognerebbe primariamente revisionarle prevedendo organizzazioni che abbiano poteri coercitivi.