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Semi, guerre e carestie - Capitolo VI

di Romolo Gobbi - 14/04/2008

Autore: RomoloGobbi | Data: 14/04/2008 7.20.36
La lingua dell’agricoltura

Il successo dell’agricoltura nelle zone in cui era nata e in quelle nelle quali gradualmente si estese non fu senza contrasti. Popoli nomadi invasero sistematicamente, nei millenni seguenti, i regni agricoli, fondando nuovi regni, o facendosi assimilare dai nuovi modi di vita e di sostentamento. L’impero semita di Akkad crollò nel 2230 a.C., circondato dalle tribù dei nomadi Amorrei, e invaso dai Gutei, popolo di montanari della regione degli Zargos, che: “stabilirono per 125 anni una dominazione di tipo anarchico, testimoniata dalle liste reali”(1). Dopo questo periodo le città sumere si ripresero e si ebbe un vero e proprio “rinascimento” di cui fu protagonista principale la città di Ur, ma : “Con la fine della III dinastia di Ur, si spense a poco a poco la presenza sumerica nel complesso del mondo mesopotamico, soppiantata dall’elemento semitico, la cui influenza era già percepibile da tempo, soprattutto nella lingua. La decadenza cominciò già durante il regno di Ibbi-Sin, con una progressiva riduzione di influenza di Ur, e incursioni sempre più frequenti dei Martu, degli Amorrei, dei Gutei e degli Elamiti, provenienti dall’altopiano iranico. Proprio gli Elamiti, infine, portarono il loro attacco alla capitale, la assediarono, e la devastarono saccheggiandola….” (2). Dopo la distruzione di Ur finì il secondo tentativo di costruire l’unità territoriale della Mesopotamia; seguirono numerosi regni che cercarono di allargare la loro influenza, senza però riuscire a ricostruire l’unità raggiunta prima da Akkad e poi da Ur. A poco a poco i regni finirono nelle mani di re appartenenti alle tribù nomadi degli Amorrei che “erano accusati di non conoscere i cereali, di non bruciare i loro morti, e di essere in complesso non civilizzati” (3). Comunque, essendo gli Amorrei di origine semitica, sotto il loro dominio “la cultura sumerica fu lentamente sostituita da quella semitica, restando solo nel culto come lingua colta” (4).
Anche i successori del grande Hammurabi, nel 1740 a.C., subirono un attacco da parte delle tribù montanare dei Cassiti , che continuarono i loro attacchi all’impero babilonese per anni, finchè si impadronirono del potere: “I re cassiti sembra avessero adottato lo stile di vita babilonese, e costruirono e restaurarono i templi delle tradizionali divinità Mesopotamiche” (5). Ai regni cassiti succedettero gli Assiri, nel XII secolo, che però dovettero affrontare ”una nuova ondata di nomadi semiti, gli Aramei. Si ripeterono le modalità dell’invasione amorrea: queste tribù cominciarono con l’esercitare una pressione permanente sui sedentari […]. Tuttavia anche se riuscirono a impadronirsi delle città siriane e a imporre la loro lingua come lingua comune a tutto l’Oriente, gli Aramei non arriveranno a distruggere Assur o Babilonia.” (6)
Ma oltre alle guerre e alle invasioni dei sedentari da parte dei nomadi, vi furono guerre più o meno cruente tra i vari regni e gli imperi si succedettero l’uno all’altro. Le armi divennero sempre più resistenti, dal bronzo al ferro, inventato dagli Ittiti, i discendenti di Çatal Hüyük, che inventarono anche il carro da guerra con ruote a raggi. Ma una nuova tecnica di guerra vera e propria venne attuata dagli Assiri: “La tattica usata consisteva nel percorrere una regione, devastare e razziare le città, e poi rientrare nel proprio territorio, coperti di ricchezze, senza assumersi il duro compito di dover amministrare le regioni saccheggiate […]. Così facendo, le amate assire giunsero fino al Libano, senza annette alcun territorio”(7). Dopo questa prima fase di guerra predatoria, gli Assiri, a partire dal 746 a.C., ripresero l’antica tradizione di origine semitica della costruzione di un vasto impero, e il re Tiglat-Phalasar III: “cominciò col sottomettere la Babilonia per poi attaccare Urartu, i Medi e gli Aramei. Con lui ebbero inizio l’occupazione permanente dei territori conquistati e le deportazioni in massa delle popolazioni vinte, politica che mirava al raggiungimento della mescolanza etnica, e a imporre la stessa amministrazione in tutto il territorio dell’impero […]. Durante il secolo successivo l’Assiria dominò tutto l’insieme del vicino Oriente, ma con grosse difficoltà e a costo di guerre permanenti ai confini, oltre che di frequenti, se non addirittura continue, rivolte interne che scoppiavano a ogni cambiamento di regno” (8).
Nell’VIII secolo Sargon II, che prese il nome del grande imperatore accadico, conquistò l’Urartu, nel sud del Caucaso, dove gli Assiri incontrarono il popolo europeo degli Sciti, una popolazione nomade che forse trasmise l’agricoltura a nord del Mar Nero. Erodono infatti parla di Sciti elleni, che “seminavano e mangiavano grano” (9), così come antichi miti delle origini scite raccontano che “caddero giù dal cielo nella Scizia arnesi d’oro: un aratro, un giogo, una scure e una coppa” (10). Erodoto parla anche di “Sciti aratori”, ma: “In realtà, come ha dimostrato un recente studio, il loro nome greco georgoi, altro non è che una trascrizione, per un orecchio che tende a riportare l’ignoto al noto, e non concepisce l’udire senza intendere, dell’iranico gauwarga, che significa “adoratori di bestiame”, epiteto assolutamente adatto a sciti allevatori” (11). Adatto anche ai numerosi oggetti sciti di metallo rappresentanti animali di tutti i generi, in posizioni che ricordano l’arte mesopotamica, e in particolare cavalli, che avevano un ruolo fondamentale per un popolo nomade: “Il cavallo poi assolveva tutti i compiti. Come gli armenti forniva il nutrimento: carne, latte di giumenta, col quale di faceva il kumis, (bevanda leggermente fermentata e ricca di vitamine) […] o l’hippace, di cui parlano i testi greci, formaggio che, essiccato, si conservava per lungo tempo” (12). Il culto dei cavalli si spingeva sino alla loro sepoltura accanto al loro padrone e agli stallieri nelle grandi tombe a tumulo chiamate Kurgan: “La voce Kur-gan, comunque richiama, ancora una volta, una larga simbiosi culturale, Assiri e Sciti, con remoti echi di cultura sumera. Dalle sue lontane origini, esibisce il senso della realtà, di una costruzione su un rilievo. Il sumero Kur ha il significato di ‘altura’; segue la componente di sumero ganu, accadico ganunu (luogo di abitazione)”(13). Il contatto con la civiltà mesopotamica e con i suoi eredi, i Persiani, ha trasmesso alla lingua scita molti altri vocaboli: “Alla simbiosi assiro-scitica si devono alcune voci trasmesse agli iranici. Così lo slavo bogu (dio), che fu inteso come ‘distributore di beni’, richiama l’aramaico bega, ebraico baqa (dividere, distribuire)” (14). Così anche molti nomi dell’onomastica scita hanno un’origine iranica: “la denominazione di molti grandi fiumi della steppa si impronta a un elemento iranico, la radice dan-/don- del vocabolo danu, ‘fiume’ appunto: il Danubio, il Dnestr, il Dnepr e il Don (chiamati dai greci rispettivamente Istros, Tiras, Borysthenes, Tanais) e il Donec” (15). Ma la lingua dell’agricoltura aveva già trovato altre strade per raggiungere l’Europa, anche se “L’espansione degli Sciti dal Mar Nero all’Europa Centrale, che si suole datare all’VIII secolo a.C., reca lungo il Danubio un nuovo messaggio culturale. Di tale realtà bisogna tener conto per chiarire la preistoria dei Celti. Tale etnico risulta alle origini attributo di una unità scitica” (16).
Le prime regioni europee che svilupparono l’agricoltura furono quelle vicine alla “mezzaluna fertile”, la regione tra Anatolia, Siria e Mesopotamia, dalla quale furono attinte le tecniche e forse le prime sementi. Creta e la Grecia furono le prime regioni dell’Europa ad adottare l’agricoltura sistematicamente, pochi anni dopo lo sviluppo dell’agricoltura nell’Anatolia centrale: “La cronologia segue automaticamente: datazioni affidabili ricavate dal radiocarbonio ci consentono di sapere che la prima trattazione domestica di piante e animali raggiunse la Grecia (e Creta) dall’Anatolia occidentale intorno al 6500 a.C.” (17). Da questo punto lo sviluppo dell’agricoltura nel resto d’Europa è oggetto di infinite discussioni, innanzitutto perché avvenne in un periodo lunghissimo: ci vollero circa 4.000 anni per giungere dalla Grecia alle ultime regioni del Nord, e, siccome la distanza è di 4000 km, si può calcolare che l’agricoltura procedette alla velocità di circa 1 km l’anno. Questo fece pensare ad alcuni che l’avanzata così lenta poteva essere avvenuta o tramite la trasmissione culturale o attraverso il lento spostamento di una popolazione in crescita. A parte il fatto che possono essere avvenute tutte e due le cose insieme, resta il mistero del perché una così grande e bella invenzione del grande cervello umano abbia trovato un così scarso apprezzamento da parte delle popolazioni di cacciatori-raccoglitori che vivevano in Europa. Gli studiosi si dimenticano di quello che hanno detto a proposito dello sviluppo dell’agricoltura nel Vicino Oriente, e del suo rapido sviluppo fino all’India, ma forse si tratta di altri studiosi che non sanno quello che gli specialisti di antichità orientali hanno concluso. La religione è stata la ruota che ha fatto avanzare il carro dell’agricoltura nella ‘mezzaluna fertile’, mobilitando gli uomini e convincendoli a fare lavori che singolarmente non potevano fare, né concepire, obbligandoli a scavare canali per l’irrigazione, accumulando il prodotto nei templi, e ridistribuendolo in cambio del lavoro. Nessun fenomeno analogo si verificò in Europa; è quindi giusto che qui lo sviluppo dell’agricoltura abbia avuto un’onda d’avanzamento molto lenta. In Europa il ruolo fondamentale della religione nello sviluppo dell’agricoltura si manifestò in modo evidente dopo l’arretramento in seguito alle invasioni barbariche quando, nell’anno Mille, le abbazie benedettine progettarono bonifiche, irrigazioni e convinsero le popolazioni a realizzarle.
Ma le invasioni barbariche rimescolarono anche la lingua parlata dagli europei, e questo è l’altro mistero; infatti le lingue parlate nei vari paesi d’Europa sono tutte o quasi imparentate, per cui gli studiosi hanno inventato la definizione di lingue indo-europee, perché hanno caratteri in comune con le lingue parlate in Persia e in parte dell’India. Tutto questo ha portato gli studiosi a cercare una spiegazione, inventandosi invasioni più o meno violente molto più antiche, da parte di popoli “ariani”, che avrebbero unificato le lingue europee. Questo mito, privo di qualsiasi dimostrazione archeologica, ha esaltato le menti dell’Europa ottocentesca, che marciava alla conquista del mondo, e voleva giustificare la colonizzazione dei popoli “primitivi”, con l’idea di essere i discendenti di una razza di guerrieri di pelle bianca, gli indo-europei appunto. Una delle spiegazioni vede il fenomeno dell’indo-.europeo collegato all’avvento dell’agricoltura in Europa; infatti viene affermato che la formazione di una lingua indo-europea arcaica si sarebbe sviluppata: “nel primo Neolitico dell’Anatolia Centrale, intorno al 7000 a.C., e la sua diffusione verso l’Europa intorno al 6500 a.C. Stiamo parlando di siti archeologici ben noti, quali Çatal Hüyük, Aceramic Hacilar, Ailklihüyük e altri” (18). Questa spiegazione sembrerebbe attendibile; in fondo proprio da Çatal Hüyük era partito lo sviluppo dell’agricoltura verso la Mesopotamia; bisognerebbe però dimostrare che la lingua parlata a Çatal Hüyük fosse proprio una forma arcaica di indo-europeo. Allora sarebbe attendibile la ricostruzione di sviluppo parallelo di agricoltura e indo-europeo: “Il proto-indo-europeo arcaico deve essersi poi evoluto e modificato nel corso di tanti secoli, che sono necessari alla sua diffusione, insieme a quella dell’agricoltura dall’Anatolia alla Grecia, così come alla Jugoslavia, alla Germania, all’Olanda e alla Francia e ovviamente verso Est, verso la Bulgaria, l’Ungheria e l’Ucraina, e verso Ovest (nel Mediterraneo) verso l’Italia e la Sicilia” (19). Ma questa spiegazione non è comprovata da reperti archeologici, né vi fu una trasmissione culturale, sia per quanto riguarda la struttura delle città, sia per altri aspetti: “Un esame delle pitture murali di Çatal Hüyük mostra subito con certezza che la cultura indo-europea che noi ricostruiamo dai testi era completamente diversa. In nessuno dei siti associato agli Indoeuropei c’è traccia di ‘scheletri con crani dipinti e decorati […] sepolti sotto il basamento del letto nelle case’.” (20)
Nello sviluppo dell’agricoltura in Europa, oltre alla direttrice Sud-Nord, dalla Grecia verso la Germania e l’Olanda, ve ne fu un’altra da est verso nord, dalla Crimea alla Danimarca; quindi l’idea dell’indo-europeo proveniente con l’agricoltura dall’Anatolia risulta poco attendibile. Forse sarebbe “stato opportuno che ‘indoeuropeo’ fosse limitato a designare un aspetto morfologico sul piano linguistico, e se n’è dilatato il senso a una realtà antropologica. E quell’aspetto linguistico era già stato definito da Bopp (1816), che scorse elementi flessionali costitutivi dell’indo-europeo in basi attinte dal semitico. Come in quei tempi, anche oggi l’accademia vi scorgerebbe una verità scandalosa” (21). Le lingue europee sarebbero dunque accomunate da una matrice semitica che si sarebbe trasmessa con l’agricoltura dopo che questa aveva assunto la lingua semitica come propria. Questa tesi sarebbe provata da molte etimologie di parole attinenti all’agricoltura, che le fanno risalire alle lingue semitiche, a cominciare dalla “più antica voce per designare ‘campo’, greco aypoo, latino ager, e il sumero agar (campo), accadico ugaru […]. Il nome dello strumento per dissodare la terra, nome che è giunto sino al latino imperiale, marra, si trova identico in assiro marru. L’etimologia, storicamenteo fondata, del verbo sero (semino) […], il suo antecedente è identico in accadico. Così l’antico inglese sawan, inglese sow (seminare) ritrovano la loro base in un’altra voce della stessa estrazione” (22).
L’accademia potrà anche obiettare su queste etimologie, ma le sue obiezioni sono ispirate dal radicato pregiudizio antisemita, che ha sempre caratterizzato la cultura occidentale, e che oggi è tanto più vivo per l’espansione demografica dell’Islam. Ma questi pregiudizi non si fermano nell’ambito accademico; essi sono condivisi anche da altri strati della popolazione occidentale, e soprattutto dai governi americani, che sono sempre pronti a bombardare paesi islamici, senza nessun rispetto per la culla della civiltà occidentale. Eppure che l’espansione dell’agricoltura dal Vicino Oriente all’Europa si rispecchi anche nella lingua dell’agricoltura è un fatto difficilmente confutabile; infatti altre etimologie si aggiungono a dimostrare l’assunto: “frumentum-i, cereale, frumento, granaglie, grano […] ma v. accadico, Mari burrum”; e così “frumen-inis: sorta di polenta in uso nei sacrifici […], corrispondente ad accadico buhru (piatto caldo di cereali)”; oppure “frutex-icis (m. e talora f., come «arbor»), germoglio, cespuglio, ceppo. Se ne ignorò l’origine. Dalla base corrispondenti di a. ant. accad par’um, aramaico parhà, arabo farh (germoglio…)” (23). Anche nell’onomastica europea si trovano radici semitiche; per esempio, dalla base accadica nàru ‘fiume’: “si giunge così dal nome antico del fiume umbro Nera, latino Nar , sino a Narenta, il fiume dalmata, Naro per gli antichi, sino a Narva, in Estonia. In composti, nar- , può denotare anche ‘luogo acquitrinoso’: Narni, Norcia; località inglese Narborough richiamano l’antico tema di Nar” (24). Lo stesso nome di Europa avrebbe un’origine semitica: “Lewye e Grimm, con lucida perspicacia, già in passato risolsero il problema dell’origine del nome, risalendo alle antichissime lingue del Medio-Oriente: l’assiro erebu, che denota ‘tramonto’, ‘occidente’, ma va aggiunto che il nome erebu fu ricalcato sulla base di un verbo antichissimo di eguale significato, come l’assiro èrepu, aràpu, ‘oscurarsi’, ovviamente del cielo” (25).
Ma una volta individuata la lingua dell’agricoltura in Europa, resta ancora il problema dei lentissimi ritmi di sviluppo della stessa, anche se: “Nel Sud-Est dell’Europa, ad esempio, i popoli locali adottarono il ‘pacchetto’ medio-orientale fatto di cereali, legumi e bestiame con grande rapidità, attorno al 6000 a.C., e questo stesso pacchetto si diffuse con successo in Europa Centrale nel VI millennio. Questo avvenne, probabilmente, perché la caccia e la raccolta di frutti spontanei non potevano rivaleggiare in quelle zone con l’agricoltura. Invece in Francia, Spagna e Italia, l’adozione del nuovo stile di vita fu graduale: «prima arrivarono le pecore, e dopo i cereali»”(26). E poi in Bulgaria, nell’ex-Jugoslavia e in Romania, il ‘pacchetto’ medio-orientale venne adottato solo parzialmente; infatti in quelle regioni non vi è traccia di città stato, di templi, e la sostituzione della caccia-raccolta non fu completa. Pur essendo la zona abbastanza adatta allo sviluppo dell’agricoltura, questa comunque era un “fenomeno intrusivo, che in tempi brevi spiazzò la tradizionale economia di caccia e raccolta. In questo caso non sembrano esserci dubbi sul fatto che l’ipotesi dell’immigrazione sia la più plausibile.” (27)
Anche nell’Europa centrale l’agricoltura venne importa attraverso la colonizzazione di popoli immigranti, e contro la volontà dei cacciatori-raccoglitori, che continuarono “a sussistere ai margini delle aree di insediamento agricolo, magari introducendo al loro interno aspetti come l’uso della ceramica o alcune forme di allevamento del bestiame” (28). Pure in queste regioni il ‘pacchetto’medio-orientale non venne attuato compiutamente; mancano infatti le tracce, non solo di città-stato, ma anche di villaggi simili a quelli del Vicino Oriente; e invece “le testimonianze materiali ci rivelano l’esistenza di grosse abitazioni di forma allungata (larghe 6-7 metri, e lunghe da 20-25 metri fino a 40), costruite in legno, con una struttura di pali solidamente infissi nel terreno, e un tetto a spiovente, evidentemente per la scolo dell’acqua piovana” (29). Questo tipo di abitazione è stato spiegato in vari modi, come sede di famiglie allargate, o come stalle per il bestiame, o come edifici composti da un’abitazione, un deposito di granaglie e di fieno e la stalla. Se così fosse, questo modulo abitativo sarebbe stato un antico precursore di identiche costruzioni delle zone prealpine, nel versante italico, ancora oggi esistenti, anche se residuali o ristrutturate per i moderni stili di vita. Comunque, l’esistenza di queste ‘cascine’ isolate, denota la sporadicità dello sviluppo dell’agricoltura, in una zona di foresta post-glaciale, che ricopriva praticamente tutta l’Europa. Anzi qualcuno ha ipotizzato che in Europa Centrale si fosse sviluppata un’agricoltura “col sistema di debbio, o del taglia e brucia, vale a dire appiccando il fuoco alla foreste e poi lavorando con zappa e vanga i suoli resi più fertili dai tronchi carbonizzati […]. Ogni volta che il terreno si esauriva, gli insediamenti sarebbero stati abbandonati per trasferire lo stesso sistema in territori nuovi” (30). Soltanto in un periodo più tardo, tra il 3500 e il 2700 a.C., e per varie ragioni, si formarono dei veri e propri villaggi: “La pressione demografica, la scarsità dei suoli e alcuni mutamenti climatici svantaggiosi dovettero probabilmente creare forme di ostilità tra i gruppi, come è suggerito dalla collocazione più centralizzata degli insediamenti, dall’esistenza di vere e proprie fortificazioni, e da qualche testimonianza archeologica di conflitti, quale il moltiplicarsi delle punte di freccia, e i resti di qualche palizzata bruciata” (31). Ma molto più probabilmente questa evoluzione, che tra l’altro ricorda la vita dei pionieri del Far West americano dell’800 fu dovuta alla pressione e alla ribellione dei cacciatori-raccoglitori per l’intrusione nei loro territori degli agricoltori.
Nell’Europa Settentrionale le isole di agricoltura furono più tardive: “Per alcune aree della Gran Bretagna, in tutto il lungo periodo che va dal 4000 al 1400 a.C., vi sono le testimonianze di un’attività agricola modesta, basata sulla cerealicoltura, senza segni di intensificazione nel tempo”(32). Anche in Danimarca l’agricoltura veniva praticata in maniera ridotta, ed esclusivamente per i cereali, mentre l’allevamento del bestiame era la fonte principale di alimentazione. La pratica della pastorizia non porta necessariamente alla sedentarizzazione, anzi quasi sempre alla transumanza, se non al nomadismo. Ed è per ciò che in questa regione non vi è traccia di villaggi come quelli dell’Europa Centrale, anche in periodo tardo. Un’altra caratteristica dell’Europa Settentrionale è la costruzione di strutture megalitiche (Stonehenge) delle quali però non si conosce bene la destinazione. Con ogni probabilità si trattava di una forma primitiva di tempio, anche se non sono state trovate tracce di divinità né di rituali ivi praticati. Certamente lo spostamento di enormi blocchi di pietra dovette essere fatto con la cooperazione di un numero notevole di persone, che chiaramente dovevano essere spinte da motivazioni mitico-religiose. D’altra parte il ritrovamento di tombe significa che quelle popolazioni avevano “un particolare rapporto con la morte concepita come regno dell’alterità, dove la comunità degli antenati mantiene una sua esistenza, e a cui si può accedere attraverso la complessa ritualità legata alle costruzioni megalitiche. Di qui la cadenza regolare dei riti, legata a particolari sequenze astronomiche, e forse anche all’uso di sostanze allucinogene e droghe” (33). Ma poiché non vi è traccia di sostanze allucinogene o di droghe in quella zona, perché non ricordare quello che gli studiosi avevano individuato per la nascita dell’agricoltura? Anche l’agricoltura ridotta ai soli cereali dovrebbe ricordarci che “la coltivazione dei cereali possa essere stata legata non tanto al consumo alimentare, quanto alla produzione di birra usata nei banchetti e delle feste” (34). Dunque possiamo ipotizzare che le popolazioni dell’Europa Settentrionale fossero disperse in vaste zone forestali, dove praticavano l’allevamento del bestiame, e coltivavano piccoli campi di cereali, e che, in date ricorrenti (solstizi), si ritrovassero per costruire dei recinti sacri, perfettamente orientati, per celebrarvi riti e feste con abbondanti bevute di birra. D’altra parte non si può dimenticare che la passione per questa bevanda è rimasta nelle popolazioni di quelle regioni, anche se svuotata di ogni carattere religioso.
Più a nord l’agricoltura arrivò ancora più tardi, e fu ancora più graduale e limitata: “Qui la durata della transizione raggiunse i mille anni, e le tecniche agricole, anche quando vennero adottate, rimasero a lungo secondarie all’interno di economie in cui la raccolta e il ricorso alle risorse marine costituirono per lungo tempo la forma di adattamento prevalente. Ad esempio, in Scandinavia e in Svezia, in quella che è stata definita ‘la frontiera finale’, l’adozione dell’agricoltura avvenne solo verso il 3100 a.C., e occorsero altri 500 anni perché si affermasse completamente” (35). In queste zone vennero costruiti dei piccoli villaggi sulle coste del mare, dal quale si ricavavano le risorse principali, praticando la pesca anche delle grandi balene, che richiedeva la cooperazione di più persone, e che potrebbe essere stata la ragione fondante per la costruzione dei piccoli insediamenti.
Durante i quattromila anni occorsi all’agricoltura per arrivare alla ‘frontiera finale’ non avvenne la ‘grande trasformazione’ che l’adozione dell’agricoltura aveva provocato nel Vicino Oriente, né si estesero le modalità attuate dai primi convertiti in Grecia e a Creta. Infatti, in queste ultime regioni, l’agricoltura produsse sì le città, con o senza mura, ma non fu più il tempio il motore della trasformazione; fu il palazzo ad essere il protagonista dello sviluppo dell’agricoltura, in quanto furono i signori dei palazzi a drenare il surplus del lavoro agricolo. Quindi non vi fu più un’accumulazione di tipo collettivo (tempio), ma una privata (palazzo), e il lavoro dei campi divenne prevalentemente schiavile. Anche a Creta e in Grecia vennero costruiti templi, ma non ebbero più il ruolo centrale del tempio mesopotamico. Quanto alla religione adottata a Creta, vi si possono scorgere delle affinità col culto del toro a Çatal Hüyük: questo animale è raffigurato nell’arte dei palazzi in affreschi, sculture, ceramiche e in bassorilievi, come quello che rappresenta una lunga teoria di teste di toro in stucco colorato. A Creta nacque il mito del Minotauro, l’uomo con la testa di toro, che pretendeva sacrifici umani, ma che venne ucciso dall’eroe attico Teseo, che così liberò gli ateniesi dall’odioso tributo di giovani fanciulle da immolare. Per altri versi il toro era considerato un animale sacro, in cui onore si tenevano giochi rituali (taurocathapsia) durante i quali giovani atleti, anche donne, si cimentavano in salti acrobatici di tori lanciati al galoppo. Questi giochi col toro si trasmisero prima nell’Argolide e poi in Cappadocia, per poi raggiungere la Provenza e infine la Spagna, dove sono diventati la brutale Tauromachia. Ma giochi incruenti col toro si sono anch’essi trasmessi in Italia (Viterbo e nelle Langhe) e soprattutto in Spagna, con la grande corrida che si celebra ogni anno a Pamplona.
Ma, a parte queste tradizioni che comunque dimostrano ancora una volta il percorso dal Vicino Oriente di elementi culturali insieme all’agricoltura, è importante far rilevare come anche nella cultura greca si trovino tracce delle religioni mesopotamiche: “L’elemento plasmatore dell’Universo è l’acqua per Talete, l’ ápeiron (l’ “infinito”) per Anassimandro, l’aria per Anassimene. Ma l’acqua creatrice è esaltata all’inizio del poema babilonese della creazione, l’Enūma elish. La grande dracena marina con la quale il dio Marduk plasma il mondo, Tiamat, ha il nome che i greci ereditano per la dea del mare, Teti” (36). Quanto alla lingua greca: “Per generale accordo la lingua greca si sarebbe generata nei secoli XVII e XVI. In essa struttura e lessico di base indo-europei si combinano con un vocabolario della vita colta non indo-europeo. Sono convinto che gran parte di questo sia plausibilmente derivato dall’egizio e dal semitico occidentale”. (37)
Quanto all’arrivo dell’agricoltura nell’Europa Meridionale, essa arrivò per prima nelle regioni colonizzate dai greci, e più tardi, per espansione, nelle regioni confinanti. Come in Grecia, lo sviluppo dell’agricoltura portò anche alla costruzione di città con mura di difesa, e villaggi più o meno grandi. La città di Roma venne fondata, secondo il mito, nel 753 a.C., col famoso solco tracciato da Romolo con l’aratro; il che, se da un lato testimonia che in quella data l’agricoltura era presente nel Lazio, dall’altro manifesta la lentezza del passaggio dal villaggio alla città. Invece questo passaggio ebbe una più rapida evoluzione in Etruria, pochi anni prima, forse perché questa civiltà fu di diretta emanazione medio-orientale, il che sarebbe testimoniato, oltre che da somiglianza di stili artistici, da testimonianze linguistiche: “Ma le lingue semitiche antiche e nuove fanno a gara a soccorrerci: l’antichissimo accadico ha rāsum, capo, che torna in tante altre lingue dello stesso seppo. Rasena è dunque originario plurale e ricorda i dodici capi, i reguli delle città confederate etrusche. Tutto ciò sembra di una trasparente evidenza, ma gli etruscologi non possono uscire dal loro strettissimo comparativismo, cioè lo stesso etrusco, un po’ d’italico e un po’ di greco” (38). Invece è fin troppo chiaro che la civiltà etrusca ha avuto le sue radici ad oriente, tanto che il nome del re accadico Sargon: “Sarà l’etrusco Tàrchon/Tarchna, figlio di Tyrrhenus, mentre il suo attributo reale, noto all’assiro Šarru-Kìnu, suonerà Tarquinius”. (39) Ma anche la civiltà latina ebbe le sue origini nella cultura accadica, basti pensare che secondo la storia raccontata su una stele del 1000 a.C., e forse copia di una testimonianza più antica: “Sargon anticipa di quasi due millenni la storia di Romolo e Remo tratti dalle acque del fiume. I particolari dell’essere figlio di una sacerdotessa, del non aver conosciuto suo padre, della cesta sigillata, non lasciano dubbi”. (40)

1. J.C. Margueron, op. cit pag 67

2. F. Pinnock, Ur. La città del dio-luna, Laterza, 1995, pag

3. M. Roaf, Cultural Atlas of Mesopotamia, Equinox, Oxford, 1990, pag 108

4. F. Pinnock, op cit, pag 30

5. M. Roaf, op cit, pag 140

6. J.C. Margueron, op cit, pag 84

7. ivi, pp 85-6

8. ivi, pp 86

9. cit in F. Conte, Gli slavi, Einaudi, 1990, pag 315

10. ivi, pag 320

11. V. Schiltz, Gli Sciti, Rizzoli, 1994, pag 123

12. ivi, pag 350

13. G. Semerano, op cit. pag 9

14. ivi, pag 18

15. F. Conte, op cit, pag 16

16. G. Semerano, op cit, pag 16

17. C. Renfrew, in AA.VV. Le radici prime dell’Europa, Bruno Mondadori, 2001, pag.119

18. ibidem

19. ibidem

20. ivi, pag 131

21. G. Semerano, op cit, pp 10-11

22. ivi, pag 11

23. G. Semerano, Le origini della cultura europea, vol II, Dizionario della Lingua Latina e di voci moderne, Ed Olschki, Firenze, 1994

24. G. Semerano, in AA.VV. Le radici prime dell’Europa, op cit, pag 308

25. ivi, pag 307

26. J. Diamond, op cit, pag 81

27. F. Giusti, La nascita dell’Agricoltura, op cit, pag 98

28. ibidem

29. ivi, pag 99

30. ibidem

31. ivi, pag 100

32. F. Giusti, I primi stati, op cit, pag 90

33. ivi, pag 91

34. F. Giusti, La nascita dell’agricoltura, op cit, pag 26

35. ivi, pag 101

36. G. Semerano, in AA.VV. Le radici prime dell’Europa, op cit, pag 313

37. M. Bernal, Atena Nera, EST, Milano, 1987, pag 25

38. G. Semerano, in AA.VV., Le radici prime dell’Europa, op cit, pag 315

39. G. Semerano, L’infinito: un equivoco millenario, Bruno Mondadori, 2001, pag 7

40. ibidem