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Una pagina al giorno: arrivo a Ceylon, di Lanza del Vasto

di Francesco Lamendola - 14/04/2008

 

 

 

Dal libro di Giuseppe Giovanni Lanza del Vasto Ritorno alle sorgenti (titolo originale: Pèlerinage aux Sources; riduzione italiana dell’Autore con l’autorizzazione delle Editions Denoël, Milano, Valentino Bompiani Editore, 1949, pp. 10-17):

 

Strada da Colombo a Kandy, Gennaio 1937. – Occorrono tre piene giornate di marcia per andare da Colombo a Kandy, capitale della montagna. Il sole pesa ma vivifica. Il pese verdeggia, largamente aereato e innaffiato dalle brezze marine. La strada ben tenuta taglia la pianura fradicia. La vacca pascola in pedi con l’acqua fino a mezzo le zampe.

“Verde da per tutto per terra: verde grezzo che nel pieno sole prende il giallo del banano maturo. Il verde degli alberi è più fosco e luccica.

“Il contadino nero, con un pannolino rosa intorno alle reni, corre, sgraffiando il suolo con l’aratro di legno. Il suo piccolo bove a gobba è alto quanto un asinello ed ha il trotto dell’asino. Su tutte le strade s’incontrano quei piccoli bovi, attaccati da soli o a coppie, a carrette riparate da palme intrecciate. È la sola bestia da soma in uso nell’Isola eccetto l’elefante e l’uomo.

“Una giovane, vestita com’è, fa un tuffo nella palude: i suoi capelli sciolti diventano anguilla sott’acqua. Esce: col velo incollato sulla pelle, lucidissima, più che nuda.

“I fossi sono abitati da tartarughe la cui campana schioccola al contatto col rigagnolo ove spariscono in una nuvola di limo. Il suolo si fa così molle che la massa degli alberi si è accasciata poggiando i rami sull’acqua morta: le loro forme forcute vi si rovesciano, così vi affondano una seconda volta.

“Dalle risaie rigate a rettangoli un uccello turchino parte come freccia. Si perde in un fitto raggiante di alberi di cocco.

“Ecco il pie’ della montagna ed i primi pendii. Le risaie salgono sulle risaie, a scala, ognuna rigorosamente tirata a livello mentre l’orlo esterno si adatta all’irregolarità del terreno, così che il paesaggio tenuto negli embrici perfetti delle scaglie disuguali, si svolge in gamme ed arpeggi ascendenti.

“Più oltre incomincia il bosco. Il monte d’un tratto si leva a dorso di bufalo, accompagnato in azzurro da altri monti, da suoni di cascate d’acqua e da spire di fumo salenti.

“Da questa altezza gli alberi di cocco si presentano per la testa, il loro fusto di corda scandaglia il pendio. La foresta inferiore mostra la sua schiera di squame, agita le pinne e i pennacchi, ali e zampe di lucertola, le lingue di sangue e di foco.

“Qui il fogliame lascia pendere farfalle vermiglie, là alza calici scarlatti, oltre s’imporpora in cima. Laggiù brilla un albero versicolore come un’isola d’autunno, brilla come un topazio, ché un acquazzone luminoso ha drappeggiato quella parte della valle. L’aria odora d’erbe tagliate e di zucchero di fiori.

“La pianura, schiacciata dal sole nel mezzo, a sinistra scavata di ombre, percorsa qua e là dalle libere gambe della pioggia, sembra abbastanza vasta per tenere a convegno più stagioni.

 

*  *  *

 

“I boschi intorno a Kandy non sono frequentati da belve. Eppure con la notte diventano spaventose per il viandante solitario. Quando i rospi e gli uccelli notturni si mettono a suonare come i tamburi e flauti del tempo; quando, alle spalle, egli vede richiudersi il folto della boscaglia, notturno anche di giorno; quando le lucciole s’accendono al candeliere degli alti rami; allora qualcosa di più terribile delle belve gli toglie il respiro: la presenza di Dio in quella dimora di foglie che somiglia al primo Paradiso.

 

Kandy, Gennaio 1937. – Il tempio di Buddha è un castelletto circondato da una muraglia doppia e da un fosso, fiancheggiato da torrioni tondi, dal tetto basso, a punta.

“Al calar della notte il tamburo sacro – due battute brevi e due lunghe – e il flauto vi recano un frastuono che stringe la gola e dà le vertigini.

“Attraverso il ponte, tenendo i sandali in mano. I miei piedi nudi gustano il lastricato bagnato del cortile. Non senza qualche orrore sacro, m’inoltro fra le colonne di granito e i portici scolpiti. Rimuovo alquanto, con cortese precauzione, le groppe dei fedeli prosternati lungo il muro, col viso nascosto fra le ginocchia, per raggiungere la ripidissima scala che conduce al santuario.

“È un luogo chiuso e stretto. Una porta ornata d’avorio, d’oro e d’argento si apre sulla tavola del sacrificio posta davanti ad una statua di Buddha sfavillante di gioie. Le lampade, i fiori votivi e il pio calore della folla rendono l’aria irrespirabile.

“Ciascuno reca, nel cavo della mano o in un piccolo vassoio, la sua offerta di fiori odorosi che il sacerdote in veste di fuoco spande sulla tavola di pietra.

“Le pitture infernali del muro esterno, l’infernale musica del cortile non annunziavano un culto così puro e commovente, degno del Beato, del Così-Andato, di Colui che insegnò a non uccidere e a morire bene, a morire definitivamente e per sempre, senza rischio di ritorno in questo mondo di dolore, di malattia, di morti reiterate, di attaccamento e d’ignoranza…

 

“Ho sorpreso un pescatore in riva al lago così popolato di tartarughe e di pesci che l’acqua n’è bruna. Gli ho detto: «Non siete voi seguace del Buddha? Non vi proibisce la vostra legge di mangiare animali?Come si siete permesso di assassinare il pesce che è qui? – La nostra legge – risponde il pio uomo – non ci vieta di mangiare, ma soltanto di uccidere. Non ci proibisce di lasciar pendere un gancio nell’acqua. Questo pesce si è preso da sé al gancio che ho immerso nel lago. Io non ho fatto altro che riprendere il mio gancio e il pesce è morto da sé sulla riva.».

 

*  *  *

 

“Un pesante merletto di pietra cinge il lago intorno al quale si sparpaglia la città di Kandy, si elevano gli alberi e i monti di Kandy.

“Uno degli ampi e numerosi serbatoi che i re antichi avevano fatto scavare per tutta l’isola, allora raggiante di canali, viva di acque gioiose, opulenta di raccolti di città e di templi. Oggi la giungla e la palude, con le fiere e le febbri, hanno mangiato i tre quarti della terra coltivabile, mentre buona parte della sovrabbondante popolazione erra affamata nel più bel giardino del mondo.

 

“Lo chiamano l’Albero Bô: il Fico dell’Illuminazione: sotto un albero di questa specie, il giovane Gautama entrò nella Liberazione, donde per compassione ritornò allo scopo di mostrarne la via agli uomini così come agli dei e agli animali.

“L’Albero Bô non ha niente dell’aspetto di un fico, a meno che non si voglia dare questo nome a qualsiasi pianta tropicale. Il fico infatti col suo legno grigio modellato a proboscide, le larghe foglie dalla frastagliatura chimerica, verniciate al dritto, aspre a rovescio e che rivelano in alto rilievo le nervature, è il solo albero mediterraneo che somigli un poco alla vegetazione di qui.

“Ma l’Albero Bô appartiene alla famiglia dei pioppi, benché non ne serbi lo slancio freddoloso e gotico. Invece si espande in volume, poderosamente. Quattro uomini a braccia tese non circuirebbero il suo tronco. La sua crescita non procede come quella degli altri alberi con l’allargamento degli anelli dell’alburno, ma con l’aggiunta d’un sovraccarico esterno: ché alle radici sotterranee si aggiungono quelle che dall’alto scendono a serrare il tronco in una rete di corde sempre più compatta, mentre nuove radici aeree calano continuamente e lasciano pendere a mezz’aria i loro ciuffi terminali.

“Su questa montagna di viscere pietrificate si leva la testa aerea dell’albero. Le sue foglie chiare che raggiungono la grandezza di una mano, si modellano a forma di cuore dalla punta affilatissima. Sull’asse della lor fibra centrale si avvolgono senza tregua, il che comunica all’albero moltiplicato un tremore e un rumorio senza fine. Anche nell’aria immobile, l’immensa ramaglia naviga e si muove, come il pesce che da fermo continua ad agitar le sue branchie.

“Vi sono alberi Bô in libertà nella foresta, ma ve ne sono altri (li si nota del resto per la prestanza e la nobiltà) che discendono in linea diretta da un virgulto del Fico di Gaya sotto al quale meditò il Beato. Una piattaforma di mattoni circonda il piede di questi e nella loro ombra, così come negli altri templi, stanno la nicchia scolpita e la tavola delle offerte ove i contadini hanno cura di deporre fiori freschi all’ora della preghiera.

 

In treno. – I vagoni di terza classe sono divisi da grate di legno come i parchi per il gregge. Le panche vi sono superflue perché ognuno si accomoda a gambe incrociate come sul pavimento della propria camera.

“Una donna mangia, accoccolata in terra. La sua capigliatura spazza i piedi dei viaggiatori. Impasta con le dita in un catino la pietanza di riso e peperoni. Si ficca destramente quattro dita in bocca e col pollice spinge il boccone fra i denti. Ogni tanto tuffa una tazza di rame in un gran recipiente pieno d’acqua e beve. Il bimbo nudo, grasso, lucente bello come un buddha, ride con gli occhi e tende le mani: ne vuole anche lui.

“Un Musulmano col fez si distingue dagli altri per la corpulenza maestosa. Guarda i suoi anelli alzando le sopracciglia, poi, maestosissimamente, fa un rutto.

“La campagna e il calore del giorno entrano per tutti i finestrini con i bruscoli del treno, il fumo, la polvere e gli insetti.

“Un vecchietto accanto a me è preso a un tratto da brividi e batte i denti. Si tira addosso una coperta di lana ruvida, a righe, e vi si avvolge fin sopra alla testa. La faccia vista di sotto mostra denti lunghi come quelli d’un cavallo assetato. Di fronte una ragazza, di certo sua figlia, si è messa a piangere senza muoversi. Una lacrima brilla accanto al minuto rubino nell’ala del naso. Il vecchio si alza di botto, pesta la donna che mangia, per vomitare dal finestrino con gran rumore di singhiozzi. Poscia si stende per terra. Gli spingo un paniere sotto la testa e lo aiuto a tirarsi la coperta sulle ginocchia. Allora pone la sua lunga mano nera sulla mia, appena, in segno di gratitudine. La figlia piange sempre e non si muove.

“Il treno s’inoltra tra le finestre così folte di liane e di edera da sembrare colline; e nulla lasciano trasparire del loro segreto.

 

Anuradhapura, Gennaio 1937. – Uno non si accorge dapprima che questa è una città: vi è, sì, una stazione, un ufficio postale, un ospedale e anche qualche casupola, ma queste modeste costruzioni si trovano nei punti estremi di quattro o cinque viali alberati che s’incrociano su praterie gobbe, fradice e lucenti di verde e corrose dall’acqua.

“Qui si ergeva una volta Anuradhapura, la città dai grandi serbatoi pieni dell’immagine del cielo, dai palazzi regali, dai ricchi conventi, dagli innumerevoli templi, dai tetti soleggiati di rame e d’oro, la pia città paragonata a Dvoeroek costruita in mezzo al mare da Vishvoerkoermoe, l’Architetto degli Dei.

“Ed essa si è sfatta fra questi prati e queste pozzanghere, come pure noi ci sfaremmo volentieri nella madida aria limacciosa.

 

*  *  *

 

“Il Dàgoba ancora in piedi e rimesso a posto testimonia di tanta antica grandezza. Alza il dorso vasto e rotondo come un cielo. Non ha principio, né fine., né entrata. Non è un tempio ma un reliquiario. Là, in quella torre grandiosa e piena, si conserva qualche pelo o frammento d’osso di Colui che diceva: «Come l’uomo trema di spavento credendo di aver pestato un serpente, ma tosto si mette a ridere quando s’accorge d’aver solo toccato una corda, così feci io un giorno quando conobbi che la cosa che chiamavo io, non esiste; e ogni timore e dubbio è svanito col mio errore».

“Un altro Dàgoba è stato riconquistato dalla terra e dalla macchia: è diventato un monte.

“I grandi alberi, la cui massa si riflette nel lago, alzano cupoloni simili.

 

*  *  *

 

“Qua e là nell’erba, il lastricato sfondato d’un tempietto. I gradini dissigillati d'una scala lo fiancheggiano. Il cammino che vi conduce attraversa ora il fondo di uno stagno.  Ogni scalino che vi conduce reca in centro e ai lati l'immagine di un minuscolo Buddha panciuto, con l'occhio a palla, la gamba corta ripiegata .Incrostato di licheni e verde di muschi, pare un piccolo rospo giulivo.

"Stavo ammirando il leone scolpito sul parapetto, lo sventagliare della sua coda, quando una coda ha frustato l'aria, lucente di vita ed è quindi sparita nello spacco della pietra come un singulto di luce: il serpente. Ho tremato, non avendo io ancora della mia non esistenza.

 

*  *  *

"Quel Dàgoba senza accesso, senza facciata e senza apertura sul mondo, seduto con tutta la sua massa sul suo minuscolo e mistico tesoro, irrisorio per i profani e che i devoti non vedranno sino alla fine del mondo- più medito in proposito e più m'appare ortodosso.

"Il tempio esiste solo per il vano popolo credente, ma per l'uomo che sa, è il Dàgoba a contenere la verità di quella religione senza Dio.

"Religione accosciata, arresto di ogni slancio verso Oggetto Persona o Immagine che sia, covata dal denso silenzio interiore.

 

"Mi sono imbattuto nel medesimo pensiero tradotto in una figura umana: una statua di Buddha, abbandonata in mezzo al campo, all'ombra degli alberi.

"L'erosione della pietra, e soprattutto l'altezza del concetto e la perfezione della forma, me la rivelano molto antica.

"Nulla di più duramente dolce, nulla di più puro, nulla di più bello fra tutto ciò che amore e volere umano hanno mai tratto dalla pietra.

"I fianchi del Saggio si allungano lisci come un tronco, il petto si espande come il calice del loto. Le spalle sono rotonde, rotonde le braccia e le gambe, le mani sul tallone, coricate l'una nell'altra nella posa consacrata alla contemplazione. Il polpaccio e il piede allungato s'insinuano a forma di cuneo sotto l'altro polpaccio. E sulla forma basilare di que' due triangoli appiattiti si erge la piramide della maestosa effige.

"La rottura che fende la fronte come un lampo, non ha fatto batter ciglio a colui che tiene il pensiero imbrigliato come un carro nella corsa.

"La testa ha una rotondità di Dàgoba, la rotondità dell'Assoluto.

"Sotto l'arco teso delle sopracciglia, l'occhio abbassato rimane vuoto di sguardo. La luce corre largamente sul globo della guance, circola intorno alla bocca placida ove spunta un sorriso.

"Questo sorriso, lo ricevi o lo perdi, secondo il movere dell'ombra e l'ora del giorno, secondo l'attenzione dello sguardo che gli dai.

"Questo Buddha mi fa pensare alla Sfinge dell'Egitto. Uno stesso sapere informa l'uno e l'altra attraverso le epoche e gli spazi.

"Sì, questo Buddha ha una sfinge al crocevia delle strade di verità.

"Perciò la sua bellezza rimane seduta nel punto in cui la geometria e la natura s'incontrano, in cui l'umanità e la metafisica si fondono, senza che l'astratto perda purezza, né la vita plenitudine.

"Ma se ora mi dilungo e ciarlo, ciò è possibile fuori della sua presenza. Davanti a quella raffigurazione stavo in piedi, muto fino all'anima, tanto aveva potere su di me questa alta affermazione d'annientamento.

«È più difficile - dice un testo - scoprire quel che è santo che ammirare la bellezza come fa la folla degli ignoranti».

"Ma a noi che siamo fra questi ultimi, occorre l'ammirazione della bellezza per condurci a scoprire quel che è santo.

 

"Credevo fosse un acquazzone - uno di più - sulle fronde. Alzo la testa e intravvedo un balzo., una coda e subito dopo appare lo scimmione che mi guarda dondolando la testa, solo, in avanguardia della sua armata in tumulto.

"«Salve, e a te gloria, Hanumàn, Capitano delle Scimmie. Dall'altra sponda dello stretto se' venuto al paese de' Demoni per liberare da loro la bella Sita e per renderla a Rama».

"Il Divino si china e aggrotta le ciglia per scrutare il significato delle mie parole, quindi si distoglie senza fretta, allunga il passo sul sentiero del ramo, salta, si tuffa nelle vegetazioni gocciolanti, nuota in esse a grandi bracciate.

"E come un branco di pesci volanti fra onda e onda,  così, da un albero all'altro, la tribù delle scimmie sulle creste scroscianti,

"La corsa dietro i quadrumani mi ha portato fino alla soglia della giungla, là dove tronchi e liane celebrano oscuri sponsali."

 

Ci sia consentito, davanti a una pagina come questa, di non seguire il nostro abituale procedimento e di rimanere in silenzio.

Ci sentiamo troppo piccoli per aver voglia di fare un commento; il commento è la pagina stessa, si commenta da sé e non resta altro da dire.

Potremmo parlare dello straordinario senso impressionistico dell'Autore, che sembra aver dipinto un quadro (sullo stile di Gauguin), incendiando la sua tavolozza con le tinte incandescenti della poesia; potremmo lodare la vivezza delle sue impressioni, la forza delle sue similitudini, la duttilità e la plasticità della sua parola, il perfetto equilibrio fra immediatezza e riflessione, fra osservazione e profondità speculativa. Potremmo indugiare sulle perle di saggezza, distribuite quasi con noncuranza, in singole frasi, come questa: "È più difficile - dice un testo - scoprire quel che è santo che ammirare la bellezza come fa la folla degli ignoranti" ;  e così via.

Ma non ci sembra il caso.

Davanti a un Maestro, l'unico atteggiamento consono è l'ascolto.

E Lanza del Vasto, assurdamente ignorato, ancora oggi - a ventisette anni dalla scomparsa - dalla maggior parte delle enciclopedie biografiche e letterarie, è stato uno dei pochi, veri Maestri del secolo appena trascorso.

Perciò, invece di avere la pretesa di commentare le sue parole, diremo due parole su di lui, rivolgendoci a quanti - specialmente giovani - non lo conoscono affatto o magari lo hanno appena sentito nominare; nella speranza che i passi sopra riportati da un suo libro giovanile - libro di viaggio e di formazione, in cui racconta il commovente incontro col Mahatma Gandhi, che avrebbe cambiato definitivamente la sua vita - forniscano uno stimolo alla lettura di altre sue opere, specialmente di carattere filosofico e spirituale.

 

Era nato, il 29 settembre 1901, a San Vito dei Normanni (comune della Puglia in provincia di Brindisi), nella masseria Specchia di Mare, da una nobile e antica famiglia: il padre Luigi Giuseppe, siciliano nato a Ginevra, e la madre Anna Maria Enrichetta Nauts, belga di Anversa. Degli antichi Normanni aveva anche il fisico, vigoroso e possente; tanto che ancora in età avanzata si recava a piedi, abitualmente, dalla Comunità dell'Arca fino in Sicilia, come fosse cosa da nulla.

Ebbe una adolescenza cosmopolita: studiò dapprima al Liceo Condorcet di Parigi, poi si dedicò alla filosofia a Firenze e a Pisa.

Mentre si andava formando una cultura vastissima, sbalorditiva, che abbracciava non solo l'ambito europeo, ma anche quello asiatico (indiano e cinese specialmente), maturava una visione del mondo basata sulla pace, sulla fratellanza umana e sul rifiuto assoluto della violenza, che traeva suggestioni sia dal Vangelo, sia dall'insegnamento del Mahatma Gandhi (che, durante il suo soggiorno in Europa, era stato anche in Italia); e che sarebbe infine culminata nella piena conversione al cristianesimo.

 

Nel 1936, mentre è in corso la conquista fascista dell'Abissinia e si delinea all'orizzonte la possibilità di un nuovo conflitto mondiale, Lanza del Vasto volge le spalle all'Europa e parte per l'India, solo, con spirito di francescana semplicità. Abbandonati quasi subito gli abiti, i pregiudizi e le abitudini dell'Europeo, vestito di una tunica di cotone e viaggiando parte a piedi, parte in treno, su vagoni di terza classe, raggiunge Gandhi, presso il quale si trattiene per un certo tempo; indi prosegue, in pellegrinaggio, fino alle pendici dell'Himalaya e poi su, alle sorgenti del sacro fiume Gange.

È osservatore attento e sensibile della realtà indiana: della sua miseria, delle sue tensioni sociali, dell'oppressione coloniale britannica; ma anche della forza e vivacità di quel popolo, della sua mescolanza straordinaria di spiritualità e corporeità. Soprattutto lo osserva con partecipe simpatia, con affettuosa volontà di comprensione, e ha modo di rendersi conto di quale immensa sorgente di energia morale sia la dottrina della lotta nonviolenta, del Satyagraha predicato e messo in pratica da Gandhi. L'India, per lui, è una rivelazione indimenticabile, che segnerà tutto il resto della sua vita: qualche cosa - avrebbe detto in seguito - come la scoperta di un altro sesso

Tornato in Europa, Lanza va maturando il progetto di fondare una comunità pacifica, laboriosa, autarchica e solidaristica, sul modello gandhiano; ne parla anche - a Marsiglia, nel 1941 - con Simone Weil, che lo incoraggia con calde parole; e, finalmente, riesce a fondarla, presso Montpellier, ispirandosi alla biblica Arca di Noè. Una sorta di progetto per l'umanità futura, una prefigurazione di quel che potrebbe essere la vita sulla Terra, se gli uomini riusciranno a liberarsi dai due grandi mali che li affliggono: la vigliaccheria e la violenza.

 

Numerose sono le battaglie pacifiste e nonviolente condotte dalla Cominità dell'Arca, che ospitava parecchie decine di persone d'ambo i sessi, accomunate dall'ideale cristiano (e gandhiano) della fratellanza e dell'amore. Ricordiamo, fra le altre, le manifestazioni contro le torture e le violenze compiute dai Francesi durante la guerra d'Algeria; contro la costruzione delle centrali nucleari (povero Lanza, cosa direbbe ora, se sapesse che la Francia ne ha costruite una cinquantina, dalle quali produce tanta energia elettrica, da esser costretta quasi a svenderla all'estero!); a favore dell'obiezione di coscienza.

La sua "arma" prediletta era lo sciopero della fame; e ne fece uno, di parecchi settimane, durante il Concilio Vaticano II, per sollecitare una presa di posizione forte e chiara della Chiesa sul problema della pace. Nel corso di essa il Segretario di Stato consegnò alla moglie di Lanza, Chanterelle, una copia dell'enciclica Pacem in Terris, che recepiva in pieno l'istanza pacifista, assumendo una posizione di grande chiarezza sulla questione della violenza.

 

Raffinato poeta in lingua francese, Lanza del Vasto ha scritto opere di filosofia e spiritualità di altissimo livello.

Ricordiamo, oltre al già citato Pellegrinaggio alle sorgenti: Introduzione alla vita interiore; Che cos'è la non violenza; Il canzoniere del peregrin d'amore; Vinoba, o il nuovo pellegrinaggio; L'arca aveva una vigna per vela; Per evitare la fine del mondo.

Sono stati suoi amici ed estimatori, oltre a Simon Weil, personaggi della statura di Francois Mauriac e dell'Abbé Pierre.

Lanza del Vasto è morto a Elche de la Sierra, presso Albacete, in Spagna, il 5 gennaio del 1981.