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Cara Delfina, il piacere dell’Occidente quella sera tu non l’hai certamente provato...

di Maurizio Pallante - 15/04/2008

 

Cara Delfina,

del periodo in cui ho fatto il militare a Cuneo ho un ricordo bellissimo. Cosa vuoi, eravamo giovani e, come si dice, avevamo tutto il mondo davanti. Una cosa però mi dava molto fastidio. Essere chiamato napuli dagli indigeni. Mi dava doppiamente fastidio. Primo per il tono di superiorità e di disprezzo con cui utilizzavano quell’appellativo. Secondo, e soprattutto, perché lo rivolgevano indistintamente a tutti i meridionali, accomunando nella stessa categoria, sotto il nome storpiato della mia città, anche chi veniva da Foggia. Ma come si fa a chiamare napuli uno che viene da Foggia? Li avrei accisi.

Comunque, chi usava quella parola non si rendeva conto che gli tornava addosso come un boomerang, perché manifestava il suo istinto razzista, che non è proprio un segno di nobiltà d’animo e, quindi, di appartenenza a una cultura superiore. La superiorità o l’inferiorità di un essere umano non dipende dal luogo dove è nato, ma dal modo in cui si comporta, e quel sentirsi superiore a uno che è nato in provincia di Napoli solo perché si è nati in provincia di Cuneo dimostra esattamente il contrario. Se sei convinto di appartenere a una cultura superiore, devi far credere che non lo credi e per farlo credere anche chi appartiene a una cultura che credi inferiore devi farlo dire a qualcuno di loro dopo averlo investito di autorevolezza mediatica proprio perché riconosce la superiorità della tua cultura sulla sua d’origine. Così, chi crede di appartenere a una cultura superiore avrà una conferma di ciò che crede (se lo riconosce anche chi appartiene alla cultura inferiore…), mentre chi appartiene all’altra cultura sarà indotto a riconoscere la superiorità di chi si ritiene culturalmente superiore e disprezzerà la sua (se lo sostiene uno di noi così intelligente da essere ammesso ai mass media dell’altra cultura…).

Peccato che non si sia ancora trovato nessuno di Foggia che riconoscesse pubblicamente la superiorità della nostra cultura sulla loro, anche se ormai non è più tempo di queste beghe paesane. Più o meno in occidente ci siamo uniformati tutti e anche a Foggia si trovano gli stessi centri commerciali di Napoli e Cuneo, dove dagli stessi tipi di palazzi e dagli stessi tipi di case arredate con gli stessi mobili si va con le stesse automobili a comprare le stesse cose che si buttano sempre più rapidamente negli stessi tipi di cassonetti, da dove gli stessi camion li portano alle stesse discariche che esalano le stesse puzze, o agli stessi inceneritori che esalano gli stessi veleni. Il problema adesso è uniformare chi non è uniformato. E sono molti più di noi già uniformati.

Oggi mi trovavo per lavoro a Salerno e la sera ho cercato una trattoria per cenare. «Spiacente, - mi ha detto l’oste nella prima in cui sono entrato - tutti i posti sono già prenotati». Ho dato uno sguardo alla sala. Vuota e silenziosa. C’erano solo tavolini da due con un fiorellino in un vasetto nel mezzo. «Oggi - ha aggiunto vedendo nei miei occhi uno sguardo interrogativo - è San Valentino». Stessa scena negli altri locali in cui ho chiesto se potevo cenare. Mentre peregrinavo di porta in porta, di colpo le strade si sono riempite di coppie agghindate per le grandi occasioni. Scendevano sincronizzate dalle automobili e si avviavano sui marciapiedi precedute da aloni di profumo non proprio discreti. Si sarebbe detto, nella penombra, che camminassero al passo. Unò duè, a ranghi compatti, prima d’infilarsi, per fila destr!, nelle porte che li inghiottivano. Allora mi è tornato in mente un articolo che avevo letto al mattino sulla prima pagina del più diffuso quotidiano nazionale, che l’aveva acquistato insieme a chissà quanti altri prestigiosi quotidiani europei, dal prestigiosissimo The New York Times. «Oggi - raccontava una giovane scrittrice araba - è mio secondo giorno di San Valentino negli Stati Uniti. Come ho potuto scoprire, il modo con cui lo si festeggia qui ha poco a che vedere con quello che ho conosciuto crescendo in Arabia Saudita. Sì - proseguiva con ironia finissima - ci sono i dates, ma in Arabia Saudita li mangiamo (la parola dates, in inglese, può significare sia datteri che appuntamenti). Quanto all’altro genere di dates - quello che domani sera, negli Stati Uniti, farà fare il tutto esaurito ai ristoranti - non ci conterei troppo». Nell’occhiello redazionale l’articolo veniva così commentato: «Il giorno degli innamorati raccontato da una scrittrice […] di grande successo [che] ha voluto mettere a confronto i due diversi modi di vivere la ricorrenza. Da un lato il piacere dell’occidente, dall’altro la paura saudita».

Il piacere dell’Occidente, Delfina, quella sera tu non l’hai certamente provato, come del resto non l’ho provato io che, per di più, sono andato a dormire digiuno. Quel piacere straordinario che si prova comprando, a comando, le stesse cose che comprano tutti gli altri, negli stessi luoghi, alla stessa ora dello stesso giorno, con le stesse modalità. Quel supremo piacere che caratterizza la superiorità della nostra cultura sulle altre, non perché lo diciamo noi che sarebbe una forma d’inaccettabile razzismo, ma perché ce lo riconoscono autorevoli esponenti di una cultura inferiore, dove al posto del nostro piacere regna la paura. La paura! Meno male che non siamo nati arabi, Delfina. Anche perché soldi per andare a vivere a New York non li avremmo avuti né io, né te.

Io non nego che mi facesse piacere sedermi a tavola con voi la domenica, a mangiare il coniglio con la polenta che preparava la buon’anima di tua mamma. O gli spaghetti allo scoglio che preparava la mia. Ma i momenti più belli con Teresa, quelli in cui ho desiderato morire perché capivo che non avrei potuto provare niente di più nella vita, li ho vissuti abbracciandola davanti a un tramonto sul mare. Noi due soli. Non in mezzo agli altri. Non a una scadenza comandata una volta all’anno, perché il sole tramonta tutti i giorni anche se non sempre andiamo a vederlo. Non comprando qualcosa, perché i momenti che ti fanno perdere la cognizione del tempo non si vendono. Come tutte le cose che danno senso alla vita. Devi essere libero dentro per viverli, per riuscire a coglierli quando si presentano senza che tu li abbia previsti o preparati. Devono sorprenderti e devi farti sorprendere.

Non dovrei dirlo, perché capisco che è una forma di razzismo anche questa, ma credo che tutti quelli che se ne impipano delle scadenze da festeggiare comprando qualcosa, che conoscono lo squallore dei piaceri a comando e fuggono dai tutti esauriti a date fisse nei ristoranti, come facciamo io e te, appartengono a una cultura superiore. Anche se vengono da Foggia.

Ti abbraccio,

tuo Totò

L’articolo a cui si fa riferimento è: Rajaa Alsanera, Il mio San Valentino d’Arabia, la Repubblica, 14 febbraio 2008, pag. 1, 37