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Realtà della memoria e realtà del presente sulle ali dell'Angelo che addita le montagne

di Francesco Lamendola - 15/04/2008

 

 

  

C'è una immagine che sempre suscita in noi, anche soltanto vedendola su di una cartolina (e da quanti anni non più dal «vero?») profonde emozioni.

È quella dell'angelo di bronzo, con le ali spiegate, che ruota su se stesso a seconda del vento e che addita la chiostra dei monti bianchi di neve, ripidi, severi, maestosi, sulla cupola del campanile della chiesa più antica della nostra città natale: una chiesa romanica del Duecento, piena di ombre e di silenzi, onusta di storia.

Ma in cima al campanile, dove soffiano liberi i venti, l'angelo alza il braccio e punta il dito con movenze così leggere, che pare fatto egli stesso d'aria e di vento: e la volta immensa del cielo azzurro, spalancata sopra di lui, lo avvolge da ogni parte e sembra comunicargli, con la luce vittoriosa che scende dall'alto, un soffio di vita.

Ai suoi piedi - ai piedi del castello su cui sorge l'antica chiesa medievale - si stendono le macchie bianche delle case; e, più oltre, la verde pianura che corre tutto intorno e s'interrompe, bruscamente, ai piedi del possente muraglione dei monti innevati.

Se la foto o la cartolina sono di qualche decennio fa,  rivediamo il vasto panorama così come lo videro i nostri occhi di bambino: una scacchiera di edifici non molto fitta, non troppo estesa e, soprattutto, non molto alta: con due sole costruzioni gemelle, che possano ricordare qualcosa di simile a dei grattacieli (ma che, in realtà, tali non sono). Vaste chiazze di verde anche fra le case; e poi, quasi a un tiro di sasso - ma è l'effetto della prospettiva - subito il verde ubertoso dei campi, dei fitti campi di granturco; e i prati; e le risaie; i campi arati di fresco, con le loro macchie marrone scuro; e macchie d'alberi dalle sagome gentili,  boschetti dal verde più scuro che spiccano su quello tenero dei prati circostanti.

Una visione superba, incantevole, che stringe il cuore anche a colui che l'abbia vista per una volta sola, arrampicandosi in cima al castello e lasciando correre lo sguardo giù nel vuoto, per decine di chilometri, verso il lontano orizzonte.

Se la foto è di questi ultimi anni, le case appaiono più fitte e più estese, gli alti edifici son cresciuti di numero, formano qua e là delle chiazze grigie dalla forma tozza e sgraziata; e tuttavia permane, sostanzialmente, la bellezza dell’insieme, a dispetto di tutto. Sono ben poche, crediamo, le città moderne che possono vantare una tale integrazione fra paesaggio naturale e artificiale; magari ce ne fossero di più.

 

Non possiamo, tuttavia, fare a meno di domandarci che rapporto vi sia fra a città di allora, la città della nostra infanzia, e quella di adesso. Certo, la speculazione edilizia non è riuscita a rovinare l’insieme; nemmeno sfruttando il pretesto di un grave terremoto, gli squali e gli sciacalli del cemento armato sono riusciti ad avere partita vinta, in un contesto sociale ancora relativamente coeso e relativamente attaccato ai valori della tradizione, della continuità, della storia. Qui, per fortuna, non hanno avuto vita facile gli architetti cialtroni della pseudo-modernità, né sono particolarmente apprezzati gli amministratori locali ammalati di protagonismo a tutti i costi e di mania di grandezza.

Eppure il cambiamento c’è stato, ed era inevitabile.

Non lo si percepisce tanto dall’alto dell’Angelo segnavento che svetta sul campanile più antico, in cima al colle, ma entrando nelle care vecchie strade, camminando all’ombra dei portici, alzando lo sguardo dalle vetrine alle insegne dei negozi, alle facciate dei palazzi. Quante cose sono cambiate, quante sono scomparse e quante ne sono apparse di nuove! E quante persone non ci sono più, o sono divenute irriconoscibili; quanti giovani hanno preso il posto degli anziani, e si muovono ora con disinvoltura per quelle strade, ignari del fatto che ogni pietra, ogni angolo, ogni portone sono carichi di storia e di ricordi!

 

Tuttavia, questa non vuole essere una elegia del tempo che fu. È inevitabile che anche le cose più care, poco alla volta, mutino aspetto - almeno nella sfera del transitorio e del contingente. Ed è naturale che, ad un certo punto, esse ci appaiono irriconoscibili, come se una forza impietosa se ne fosse impossessata, trasformandole dall’interno.

Desideriamo fare, piuttosto, una riflessione sul significato che il passato è in grado di esercitare sulla nostra vita, sul nostro presente (e, quindi, sul nostro futuro); per dire meglio: che esso esercita comunque sulla nostra vita, e tanto più fortemente, quanto più esso sia abbandonato a sé stesso, al peso della memoria, senza che noi esercitiamo su di esso un opportuno lavoro di riappropriazione e di modificazione ontologica.

Il passato, infatti, diviene un peso e una mina vagante (nel senso che può condizionare negativamente il nostro qui-e-ora) solo nella misura in cui ci poniamo di fronte ad esso unicamente sul piano estetico-emotivo. Se, invece, ce ne impadroniamo, con la ferma volontà di riconoscerlo sino in fondo, ecco che esso perde la sua lacerante carica di malinconia e di capacità di condizionamento, per diventare nostro amico e alleato.

Anche Goethe temeva il potere arbitrario e paralizzante che il passato  è in grado di esercitare sul presente, quando scriveva che noi viviamo del passato e andiamo in rovina a causa del passato; per non parlare della diffidenza di Nietzsche verso la storia, la cui sopravvalutazione può condurre a un atteggiamento rinunciatario rispetto al presente. Noi, al contrario, dobbiamo insignorirci del nostro passato, trasformarlo in uno strumento di perfezionamento della nostra vita; altrimenti, finiremo per diventarne delle vittime.

Molte persone, senza rendersene conto, vivono prigioniere del proprio passato, sconfitte dalle ombre del proprio passato: come è stato magistralmente descritto da Guy de Maupassant nel suo romanzo Una vita, storia di una donna che vive amaramente, sempre più ripiegata su se stessa, sempre più sottomessa dal peso delle proprie delusioni.

E, se ciò è vero per coloro che vivono in ostaggio di un passato coscientemente rammemorato (anche se, magari, deformato da un processo di rielaborazione fantastica), tanto più lo è per coloro che non sono che scarsamente consapevoli della propria schiavitù, in quanto hanno rimosso i propri ricordi coscienti e li hanno respinti oltre la soglia della consapevolezza, creando così - senza saperlo – un magazzino di ricordi censurati che provocherà continue e dolorose interferenza con il livello della  loro vita cosciente.

 

Il concetto che noi diveniamo schiavi del nostro passato, se non sappiamo affrontarlo ed elaborarlo al fine di perfezionare il nostro presente, è stato espresso con chiarezza esemplare, cinquantenni or sono, da Gerhard Pfahler nel suo ampio e approfondito volume L’uomo e il suo passato (titolo originale: Der Mensch und Seine Vergangenheit, Ernest Klett Verlag, Stuttgart, 1957; traduzione italiana di L. Bornettini Magliano, Roma, Edizioni Paoline, 1960, pp. 378-380), dal quale riportiamo la parte conclusiva:

 

(…) L’uomo non è libero dal passato, neppure un solo istante della sua vita, , e questo è un dono del Creatore, perché senza l’ininterrotto afflusso di ciò che è stato, non esisterebbe per lui nessun progresso dal presente nel futuro, quindi nessuna possibilità di vita. Al contrario, sta proprio qui la particolare dotazione per l’esistenza, che lo distingue dagli animali d’ogni specie.

“La fonte del profondo non s’inaridisce mai, viene continuamente alimentata dalla coscienza e mai si lascia colmare definitivamente da nessuna misura della volontà. Di regola questa riversa la propria corrente nel profondo, dove rimane finché non sbocca di nuovo in quella della coscienza. Soltanto eccezionalmente le sue acque si rendono visibili nella corrente della coscienza simili a quelle del gelido torrente di montagna che affluisce nel fiume più caldo. Per poterle scorgere è necessaria la concentrazione su di sé. Allora «l’esperienza dell’evidenza personale» annunzia che l’occhio ha potuto distinguere le controcorrenti del profondo dalle correnti che giungono dal mondo. Fintanto che non ci accorge dell’incessante afflusso delle correnti del passato nel presente, si è soltanto i suoi beneficiari e si vive sotto i suoi permanenti influssi in ingenua primordialità.  Quando non si nota che le correnti del profondo possono - in certi casi - avvelenare la corrente della coscienza e addirittura minacciar di travolgere gli argini dell’esistenza, si è servi del proprio passato. Soltanto chi sfrutta la possibilità di diventare il sorvegliante,  il suo signore, la tiene sotto controllo e a sua disposizione. Egli scorge allora le acque celate, le può arginare e vivere per il futuro in una nuova e più profonda sicurezza. Diventa completamente padrone del passato quando vigila anche i ruscelli che partono dalla coscienza, che alimentano la sorgente nel profondo e che più tardi formeranno con questa, la controcorrente.

(…) Possiamo aggiungere ancora che il passato, nell’eterno giuoco del presente verso il futuro, forma la figura psichica dell’uomo, il suo ‘corpo spirituale’. Il fatto che l’uomo possa esserne il padrone, formato quindi e formatore a un tempo, si fonda su tre realtà psicologiche: la sua vita nella coscienza e nella volontà spirituale, il suo avanzare imperterrito nel futuro e la sua facoltà di disporre del passato. La vita della figura psichica umana somiglia a quella del corpo:  come in questo si svolgono senza sosta mutamenti, distruzioni, rivolgimenti e ricostruzioni, come intere compagini di cellule scompaiono e vengono sostituite da nuove formazioni, così avviene alla figura psichica dell’uomo, al suo corpo spirituale e al passato che vi partecipa.

L’uomo, di fronte al passato, può esserne il beneficiario, il servo o il signore. La psicologia del profondo ha dimostrato, nella teoria e nella prassi, ch’egli può scegliere, ma essa non decide quale delle tre possibilità egli segua e avveri. Infatti, in un senso più profondo,l si può essere signore del proprio passato pur diventandone, nella vita, il servo. La signoria, o la servitù, in questo significato non psicologico ma veramente risolutivo per la vita, vengono determinate da ciò che l’uomo è ideologicamente o religiosamente.

La psicologia apporta al tema «l’uomo e il suo passato» soltanto l’esame delle possibilità concesse alla psiche umana (grazie alla sua dotazione per l’esistenza e ai suoi procedimenti). Tutte le realizzazioni hanno però le loro radici nell’ideologia e nella religione. La psicologia ha indicato la possibilità e le vie che permettono all’uomo d’impadronirsi continuamente delle correnti anonime che gli giungono dal profondo. Ciò ch’egli, dotato di questo potere, intraprende, quale senso della vita vi scorge e afferra e, per mezzo suo, adempie, è per l’uno opera della sua libera decisione a favore di un’ideologia, per l’altro opera di Dio. Tuttavia, anche in quest’ultimo caso, Dio invia soltanto il suo richiamo e attende la risposta liberamente data dal chiamato. Spetta al chiarimento filosofico o alla discussione religiosa lo stabilire se l’uomo è o non  libero di scegliere, e quali conseguenze abbia la sua scelta; in poche parole, se e come la sua vita possa avere senso, o debba rimanerne priva. Ma più ancora, e più realmente, questo spetta a una sicura esperienza tratta dalla vita vissuta.

La psicologia afferma che l’uomo può essere signore del proprio passato; non le è lecito affermare ch’egli ne è signore; essa quindi è una scienza puramente sussidiaria della vita, che dev0’essere integrata dalla filosofia e dalla religione, cui affida la soluzione dei problemi ultimi del contenuto e del senso dell’esistenza umana, accontentandosi di contribuire a chiarire il significato e l’azione del passato sull’uomo.

Ogni qual volta essa offre il proprio aiuto agli uomini, li aiuta a comprendere il significato del loro passato. Ma essi procederanno nella vita minacciati o beneficiati, servi o signori, in base alla scelta fatta secondo principi ideologici e religiosi.

 

Se tutto questo  è vero, ecco allora che il braccio teso e l’indice puntato dell’Angelo divengono una metafora della vita, purché noi non ci lasciamo sospingere di qua e di là, come quello, dal soffio di ogni vento (ossia dalla forza incontrollata del passato), ma decidiamo con un atto intenzionale della coscienza di orientarci in una data direzione.

È quindi evidente che, per poter prendere in mano il proprio passato e trasformarlo positivamente per il nostro presente, bisogna avere un progetto consapevole di vita e, ancora più a monte, una chiara convinzione circa il senso del nostro esistere. Se noi pensiamo di essere frutto del caso, come sostiene, ad esempio, la teoria evoluzionistica - tipico esempio di una teoria della modernità che, voltando le spalle a Dio, ha cercato di dare da sé le risposte al proprio domandare, di fare del tu una parte del proprio io, ossia di deificare l’uomo -, il nostro orizzonte esistenziale e valoriale sarà ben diverso da quello che scaturisce dalla convinzione che nulla esiste per caso e che nulla è diretto, a caso, verso il nulla.

Se pensiamo che le cose esistano per qualche ragione, e che anche noi siamo stati chiamati all’esistenza da qualche potente ragione, allora  è chiaro che siamo anche diretti verso un fine ben preciso; e che quello che ci viene chiesto di fare è scegliere se collaborare, oppure no, alla realizzazione di questo fine. Ora, in un orizzonte di senso è chiaro che il fine non può essere immanente all’ambito esistenziale, perché l’esistenza delle cose (e di noi con esse) non si può spiegare rimanendo al loro interno. Bisogna cercare, pertanto, al di là delle cose sensibili, indirizzando lo sguardo verso ciò che è impermanente ed autosussistente: ossia verso l‘Essere.

Noi, dunque, in questa prospettiva, siamo stati chiamati all’esistenza dall’Essere; e la nostra destinazione e il senso del nostro cammino risiedono nel ritorno all’Essere dal quale proveniamo e senza il quale non posiamo fare nulla, se non scegliere, appunto, il nulla.

 

Ecco allora che il nostro passato può divenire estremamente prezioso, perché esso ci offre i mattoni con i quali contribuire alla edificazione del progetto armonioso che, per tutte le cose chiamate all’esistenza, costituisce il ritorno all’Essere. Solo l’uomo ha la facoltà di dire no a questo progetto, e in ciò sta la sua grandezza e la sua responsabilità.

In questo senso, potremmo dire che solo l’uomo - a quel che ne sappiamo – può divenire lo schiavo o il signore del proprio passato, perché la libertà di cui gode non si rivolge soltanto al futuro, ma anche al passato.

Ce ne siamo già occupati (fra l’altro, nell’articolo Il passato può essere cambiato o è radicalmente immodificabile?, sul sito di Edicolaweb e anche su quello di Arianna Editrice), per cui non ci torneremo sopra in questa sede.

Ci limitiamo ad osservare che, se il mondo fenomenico è sostanzialmente illusorio e frutto della nostra ignoranza e del nostro attaccamento, doppiamente illusoria è la nostra percezione della rigidità ontologica e, quindi, della immodificabilità del nostro passato.

No: il passato può essere «cambiato» nella misura in cui, confrontandoci lealmente con esso, e riconoscendo il nostro immenso debito nei suoi confronti, siamo in grado di rappacificarci con quanto di esso è stato doloroso e anche con la dimensione della malinconia che esso, a causa del suo statuto ontologico compiuto, inevitabilmente reca con sé.

Rappacificarci col passato, vuol dire riviverlo correttamente ed estrarne per sempre il pungiglione velenoso, mediante il quale esso è ancora in grado di farci del male, talvolta solo in modo sporadico, altre volte in modo permanente, condizionando tutto il nostro presente e vanificando le possibilità insite nel nostro futuro.

Solo quando avremo riconosciuto il nostro passato e ci saremo riconciliati con esso, potremo trovarvi non già una spada di Damocle ognora incombente sulla nostra vita interiore, ma una fonte durevole di consolazione, di forza e di incoraggiamento, capace di aiutarci a seguire la giusta direzione, verso cui orientare le scelte dell'oggi e le speranze del domani.