Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Nella rete dei pirati c’è un infedele

Nella rete dei pirati c’è un infedele

di Alessandro Barbero - 15/04/2008

   
Alessandro Barbero racconta la vicenda di Hasan al Wazzan, esempio emblematico dell’incontro fra cristiani e musulmani nel XVI secolo, ricostruita nel libro Leone l’Africano della modernista Natalie Zemon Davis.
Hasan era un diplomatico maghrebino catturato dai pirati cristiani e portato a Roma dove si convertì al cristianesimo e fu battezzato dal papa col nome di Giovanni Leone. Hasan-Leone divenne ben presto una figura di riferimento per l’ambiente culturale romano e italiano che era interessato all’Islam. Nel 1526 finì di scrivere una
Descrittione dell’Africa che ebbe grande fortuna nei decenni successivi. Zemon Davis aveva letto il testo di Hasan-Leone già negli anni ‘70, ma solo oggi che l’incontro fra cultura Occidentale e Islam è divenuto centrale, ha deciso di affrontare questa affascinante figura.

La storia di Hasan al Wazzan, diplomatico maghrebino del Cinquecento catturato in mare dai pirati cristiani, portato a Roma e convertito al Cristianesimo, battezzato col nome di Giovanni Leone e autore, in italiano, di una popolarissima Descrittione dell’Africa, sembra fatta apposta per catturare l’immaginazione del nostro tempo, affascinato da tutto ciò che rispecchia i problemi odierni dell’incontro di culture, della mediazione e del meticciato. Natalie Zemon Davis non ha paura di riconoscere che gli interessi dello storico sono plasmati dalle ossessioni del presente: s’era imbattuta in quel libro, confessa, più di quarant’anni fa, studiando i tipografi di Lione, ma allora «l’incontro tra Europa e Africa al centro della Descrittione mi era sembrato lontanissimo e meno urgente» rispetto al tema che stava studiando, i conflitti fra padroni e operai all’epoca della Riforma. Oggi la prospettiva si è capovolta e Zemon Davis [...] ha consacrato una vasta fatica a cercar di riscoprire chi fu davvero Leone l’Africano. [...] Tremendi i pericoli della navigazione nel Mediterraneo cinquecentesco solcato dai pirati; e non soltanto da barbareschi a caccia di cristiani, come si tende ad immaginare, ma da pirati europei in caccia di musulmani ed ebrei. Prigioniero di rango, Hasan/Leone ebbe peraltro il privilegio d’un trattamento ben diverso da quello dei poveracci messi al remo sulle galere dei corsari: durante una comoda detenzione in Sant’Angelo, poté leggere ed annotare libri che gli venivano portati dalla Biblioteca Vaticana; e quando decise di rinnegare l’Islam fu il papa in persona a celebrare il sacramento, come avviene ai convertiti di forte impatto mediatico. Presto famoso fra gli intellettuali e i bibliotecari romani che gli portavano da correggere manoscritti e traduzioni dall’arabo, impegnato insieme a un collega ebreo nel progetto d’un grande dizionario trilingue, finì di scrivere il suo best-seller sull’Africa nel 1526. L’anno dopo, Roma era messa a sacco dai lanzichenecchi, e del tranquillo studioso ch’era diventato Leone si perdono le tracce; ma sappiamo che non ci lasciò la pelle e secondo testimonianze posteriori approfittò dell’immenso caos per svignarsela e tornare nel Maghreb [...]. Il Cinquecento fu un secolo di grandi viaggiatori e Leone non è da meno; i suoi libri contengono resoconti di avventure memorabili e descrizioni pittoresche di imperi e città, non più rappresentati a tinte favolose com’era stato nel gusto di un’epoca precedente, ma con occhio attento al dettaglio realistico, anche se volentieri velato dal razzismo. Si veda la sistematica ostilità alle popolazioni nere, «pegio che le bestie», benché spesso convertite all’islam e fondatrici, all’epoca, di grandi imperi e di metropoli commerciali come Timbuctù; mentre decisamente simpatetica è la descrizione degli abitanti di Tunisi, di carattere allegrissimo, enorme appetito e sfrenata inventiva sessuale, grazie alla buona abitudine di fumare «el hasis». Ma purtroppo questi squarci soggettivi sono piuttosto rari nelle opere di Leone, che si volle scienziato e ignorò del tutto l’introspezione; sicché l’autrice, che proprio di lui e del suo dramma interiore vorrebbe capire di più, è costretta con disarmante frequenza a integrare i dati con le ipotesi, o addirittura con l’immaginazione. Pratica oggi sempre più consueta, ma legittima solo fino a un certo punto in un’opera che si vuole storica. Zemon Davis ci lascia sconcertati quando, trovando nel censimento romano del 1527 un «Iohannes Leo» a capo d’una famiglia di tre persone, ne deduce senz’altro che si tratta del nostro, dato che non era un nome diffuso; poi, trovando improbabile che il nucleo familiare fosse formato di soli uomini, decide di «presumere» che avesse una moglie e un figlio. A questo punto, sarebbe stato meglio fare quello che fa sempre più spesso lo storico quando si trova di fronte a una documentazione che non soddisfa fino in fondo le sue curiosità: seguire l’esempio di Maalouf e scrivere un romanzo.