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Socialdemocrazia e liberal-capitalismo hanno perso sostanza a vantaggio della forma esteriore

di Stenio Solinas - 15/04/2008

 

La paura e la speranza

(Mondadori, 111

pagine, 126 euro) è il

pamphlet con cui

Giulio Tremonti si è

di fatto candidato alla

leadership culturale

del centro-destra. Non faticherà a ottenerla,

visto lo stato comatoso in cui quest’ultima si

trova, ma colpisce egualmente che ad agitare

la fiaccola dei valori, della comunità organica,

delle radici e dei doveri sia un tributarista,

già teorico delle partite Iva, già ministro

delle Finanze, homo economicus come pochi

altri.

Nel suo percorso intellettuale Tremonti

rivendica una coerenza di pensiero, e sarà

sicuramente così, ma da semplici osservatori

e da comuni cittadini resta l’impressione che

nel quindicennio trascorso da quando Berlusconi

scese in politica, il tono centrale fosse

un altro e le magnifiche sorti e progressive

del libero mercato e della società liberale

venissero raccontate con accenti diversi e

molto trionfanti.

Naturalmente, Tremonti resta un liberale e

infatti non ce l’ha con il

liberalismo e (o il liberismo,

ma con quello che lui

definisce il “mercatismo”,

neologismo ben trovato, ma

che serve un po’ come

“testa di turco” (fantoccio,

n.d.r.) grazie alla quale si

concentrano le critiche su un

particolare in modo da non

dover guardare l’essenziale.

Tremonti è ostile al consumismo

e alla società dei consumi,

ma è difficile ridurre

entrambi a una pura e semplice

deformazione dell’idea di mercato

e non interrogarsi invece

sui limiti della società liberalcapitalista,

dell’idea di progresso

e del modello di sviluppo.

Allo stesso modo, l’ostilità nei

confronti della globalizzazione

che esce dalle sue pagine e la

richiesta di più politica e meno

economia, rimane sbilanciata se,

in termini di geo-politica, non

assegna all’Europa soggetto

sovrano da lui sognato, una libertà

di alleanze che vada al di là del

semplice bastione occidentale. Sotto

questo profilo, pensare che gli

interessi americani e quelli del Vecchio continente

possano coincidere anche in zone e

campi di influenza radicalmente diversi, è

una bizzarria su cui varrebbe la pena riflettere.

Scritto bene, in forma assertiva e con uno

stile asciutto, La paura e la speranza è un

bel libro, colmo di richiami e di echi a quella

che, in altri tempi, si sarebbe chiamata una

cultura reazionaria, ma che più semplicemente

è l’altro filone della riflessione sulla

modernità, quello elaborato dai pensatori

non moderni. È curioso, ma le cose più intelligenti

e più profetiche sulla modernità le

hanno dette e scritte proprio i non moderni e

sono loro ad aver lasciato un’impronta, un

segno di diversità. In poesia, nel romanzo, la

rivoluzione l’hanno fatta i Pound, i Céline,

gente che non sventolava la fiaccola del

futuro, che andava avanti non per forza di

inerzia o per bramosia del nuovo in quanto

tale, ma perché aveva capito che era l’unico

modo per potersi riallacciare all’antico,

rimettere linfa in ciò che si era seccato. Il

dramma del Novecento è qui: arrivano le

masse, si espande la tecnica, si spersonalizza

il futuro potere, si indebolisce

la sfera del politico, l’economia si fa destino,

le classi si liquefanno e la Destra e la Sinistra

classiche non sanno più che panni indossare.

All’inizio del secolo si può ancora essere

conservatori o reazionari, materialisti o marxisti;

alla fine, non significa più nulla. La

modernizzazione totalitaria fra le due guerre

è terminata in un bagno di sangue e del totalitarismo

rimasto in piedi oggi non si celebrano

altro che i funerali. Socialdemocrazia e

liberal-capitalismo sono ciò che resta delle

due antiche famiglie di pensiero, ma appaiono

più forma che sostanza. La prima non

incarna più la forza-lavoro, sa ormai che

l’assistenzialismo non paga ed è quindi a disagio

nel sostegno ai ceti più deboli, teorizza

ancora il Welfare, ma intuisce che si va verso

un modello lavorativo del tutto nuovo in cui

le certezze consolidate dall’abitudine non

serviranno più: pensioni, difesa del salario,

sicurezza del posto di lavoro... Lo intuisce,

ma non ha la lucidità necessaria per capire

quale strategia adottare. Il secondo vive il

suo trionfo apparente, ma avverte una crisi di

legittimità: il peso e il ruolo del cittadino nella

vita democratica sono sempre più esigui,

le grandi decisioni vengono prese da entità di

cui si ignora la reale fisionomia (banche centrali,

Borse internazionali, multifinanziarie),

l’interesse per la cosa pubblica diminuisce

via via che la macchina statale si rivela

carente nelle sue prestazioni e la classe politica

viene sentita come una nomenklatura a

sé. Il deficit di incidenza politica viene colmato

da un attivismo economico che però fa

legge a parte, non risponde a controlli, non

accetta tutele. Si assiste a una spoliazione di

sovranità che non si sa dove potrà condurre,

ma nella quale la gente comune avverte la

propria fragilità.

Di tutto questo i cantori della modernità sembrano

non rendersi conto. Magnificano le

conquiste della scienza, si affidano alle virtù

salvifiche dell’ingegno umano, ironizzano

sul catastrofismo ambientale, rimandano a

una sorta di autoregolamentazione del sistema...

E poi, indietro non si torna, dicono.

Sarà, ma in nome di cosa si deve andare

avanti? E in quale direzione? È sul senso da

dare alla vita che nascono le differenze e si

rafforzano le diffidenze, è sulle scelte esistenziali,

sul ruolo dell’agire umano.

La paura e la speranza è interessante proprio

perché si interroga su questi fini ultimi,

ovvero sul fatto che l’economia

non è il destino. Abbiamo i

telefonini, ma non abbiamo più

i bambini e come in una sorta

di mondo rovesciato oggi il

superfluo costa più del necessario,

e se con 20 euro vai a Londra

in aereo, con 40 non fai la

spesa al supermercato...

Siamo passati dall’impulso del

bisogno alla frenesia compulsiva

dello spreco, dal tutto è

politica all’alienazione dalla

politica, come se, nota Tremonti,

“dopo il comunismo

esistessero solo le privatizzazioni”...

Stiamo perdendo “il

nostro tessuto connettivo e ci

sono più turisti fuori che fedeli

dentro le nostre cattedrali, lo

splendore pietrificato della

nostra storia”. E ancora: sotto

la pressione della crisi che

arriva, “stanno dichiarando

fallimento proprio gli alchimisti

che, appena ieri (sol alla

fine del Novecento), hanno

inventato il mercatismo, l’utopia-

madre della globalizzazione,

il suo strapotente motore

ideologico: i liberali drogati

dal successo appena ottenuto

nella lotta contro il comunismo;

i post-comunisti divenuti

liberisti per salvarsi; i banchieri

travestiti da statisti; gli

speculatori-benefattori; e i più

capaci pensatori di questo

tempo, gli economisti, sacerdoti

e falsi profeti del nuovo

mondo”.

Sostiene Tremonti che consumismo

e comunismo si sono

fusi “in un nuovo materialismo”,

ma ritenere che il primo

sia solo l’effetto del perverso

mercatismo e non affondi invece

in pieno in una logica liberal-

liberista, all’insegna dell’individualismo

e della soddisfazione

dei propri interessi e dei

propri bisogni, fa torto all’intelligenza

dell’autore. Ci sono

molti più punti di contatto fra

liberalismo e marxismo, fratelli

separati della modernità, di

quanti Tremonti non voglia e/o

non possa ammettere.

Allo stesso modo, l’insistenza

sulle radici, coniugata nel nome

del “romanticismo”, ha poco a

che vedere con le società capitalistico-

liberali di massa: “L’idea

non divisionista e non atomica

della appartenenza dell’essere

umano a una comunità

storica, a una civiltà organica;

l’idea che le sue radici affondino

nella stessa terra in cui

riposano i suoi padri; il rispetto per il particolare,

l’opposto dell’universale globale”.

Nel centinaio di pagine che sorreggono La

Paura e la speranza ci sono dunque la demonía

dell’economia, la comunità organica, il

decisionismo politico, le “piccole patrie” e

la sovranità europea e quindi vien voglia

comunque di dire a Tremonti, al di là di differenze

e perplessità d’altro genere, “benvenuto

nel club” di noi non moderni... Quanto

poi tutto questo possa riversarsi in una cultura

politica di governo ci vorrebbe la sfera di

cristallo, da un lato, la bacchetta di Mago

Merlino dall’altro.