La paura e la speranza
di Stenio Solinas - 16/04/2008
La paura e la speranza
(Mondadori, 111
pagine, 126 euro) è il
pamphlet con cui
Giulio Tremonti si è
di fatto candidato alla
leadership
culturaledel centro-destra. Non faticherà a ottenerla,
visto lo stato comatoso in cui quest’ultima si
trova, ma colpisce egualmente che ad agitare
la fiaccola dei valori, della comunità organica,
delle radici e dei doveri sia un tributarista,
già teorico delle partite Iva, già ministro
delle Finanze,
homo economicus come pochialtri.
Nel suo percorso intellettuale Tremonti
rivendica una coerenza di pensiero, e sarà
sicuramente così, ma da semplici osservatori
e da comuni cittadini resta l’impressione che
nel quindicennio trascorso da quando Berlusconi
scese in politica, il tono centrale fosse
un altro e le magnifiche sorti e progressive
del libero mercato e della società liberale
venissero raccontate con accenti diversi e
molto trionfanti.
Naturalmente, Tremonti resta un liberale e
infatti non ce l’ha con il
liberalismo e (o il liberismo,
ma con quello che lui
definisce il “mercatismo”,
neologismo ben trovato, ma
che serve un po’ come
“testa di turco”
(fantoccio,n.d.r.) grazie alla quale si
concentrano le critiche su un
particolare in modo da non
dover guardare l’essenziale.
Tremonti è ostile al consumismo
e alla società dei consumi,
ma è difficile ridurre
entrambi a una pura e semplice
deformazione dell’idea di mercato
e non interrogarsi invece
sui limiti della società liberalcapitalista,
dell’idea di progresso
e del modello di sviluppo.
Allo stesso modo, l’ostilità nei
confronti della globalizzazione
che esce dalle sue pagine e la
richiesta di più politica e meno
economia, rimane sbilanciata se,
in termini di geo-politica, non
assegna all’Europa soggetto
sovrano da lui sognato, una libertà
di alleanze che vada al di là del
semplice bastione occidentale. Sotto
questo profilo, pensare che gli
interessi americani e quelli del Vecchio continente
possano coincidere anche in zone e
campi di influenza radicalmente diversi, è
una bizzarria su cui varrebbe la pena riflettere.
Scritto bene, in forma assertiva e con uno
stile asciutto,
La paura e la speranza è unbel libro, colmo di richiami e di echi a quella
che, in altri tempi, si sarebbe chiamata una
cultura reazionaria, ma che più semplicemente
è l’altro filone della riflessione sulla
modernità, quello elaborato dai pensatori
non moderni. È curioso, ma le cose più intelligenti
e più profetiche sulla modernità le
hanno dette e scritte proprio i non moderni e
sono loro ad aver lasciato un’impronta, un
segno di diversità. In poesia, nel romanzo, la
rivoluzione l’hanno fatta i Pound, i Céline,
gente che non sventolava la fiaccola del
futuro, che andava avanti non per forza di
inerzia o per bramosia del nuovo in quanto
tale, ma perché aveva capito che era l’unico
modo per potersi riallacciare all’antico,
rimettere linfa in ciò che si era seccato. Il
dramma del Novecento è qui: arrivano le
masse, si espande la tecnica, si spersonalizza
il futuro potere, si indebolisce
la sfera del politico, l’economia si fa destino,
le classi si liquefanno e la Destra e la Sinistra
classiche non sanno più che panni indossare.
All’inizio del secolo si può ancora essere
conservatori o reazionari, materialisti o marxisti;
alla fine, non significa più nulla. La
modernizzazione totalitaria fra le due guerre
è terminata in un bagno di sangue e del totalitarismo
rimasto in piedi oggi non si celebrano
altro che i funerali. Socialdemocrazia e
liberal-capitalismo sono ciò che resta delle
due antiche famiglie di pensiero, ma appaiono
più forma che sostanza. La prima non
incarna più la forza-lavoro, sa ormai che
l’assistenzialismo non paga ed è quindi a disagio
nel sostegno ai ceti più deboli, teorizza
ancora il Welfare, ma intuisce che si va verso
un modello lavorativo del tutto nuovo in cui
le certezze consolidate dall’abitudine non
serviranno più: pensioni, difesa del salario,
sicurezza del posto di lavoro... Lo intuisce,
ma non ha la lucidità necessaria per capire
quale strategia adottare. Il secondo vive il
suo trionfo apparente, ma avverte una crisi di
legittimità: il peso e il ruolo del cittadino nella
vita democratica sono sempre più esigui,
le grandi decisioni vengono prese da entità di
cui si ignora la reale fisionomia (banche centrali,
Borse internazionali, multifinanziarie),
l’interesse per la
cosa pubblica diminuiscevia via che la macchina statale si rivela
carente nelle sue prestazioni e la classe politica
viene sentita come una
nomenklatura asé. Il deficit di incidenza politica viene colmato
da un attivismo economico che però fa
legge a parte, non risponde a controlli, non
accetta tutele. Si assiste a una spoliazione di
sovranità che non si sa dove potrà condurre,
ma nella quale la gente comune avverte la
propria fragilità.
Di tutto questo i cantori della modernità sembrano
non rendersi conto. Magnificano le
conquiste della scienza, si affidano alle virtù
salvifiche dell’ingegno umano, ironizzano
sul catastrofismo ambientale, rimandano a
una sorta di autoregolamentazione del sistema...
E poi, indietro non si torna, dicono.
Sarà, ma in nome di cosa si deve andare
avanti? E in quale direzione? È sul senso da
dare alla vita che nascono le differenze e si
rafforzano le diffidenze, è sulle scelte esistenziali,
sul ruolo dell’agire umano.
La paura e la speranza
è interessante proprioperché si interroga su questi fini ultimi,
ovvero sul fatto che l’economia
non è il destino. Abbiamo i
telefonini, ma non abbiamo più
i bambini e come in una sorta
di mondo rovesciato oggi il
superfluo costa più del necessario,
e se con 20 euro vai a Londra
in aereo, con 40 non fai la
spesa al supermercato...
Siamo passati dall’impulso del
bisogno alla frenesia compulsiva
dello spreco, dal tutto è
politica all’alienazione dalla
politica, come se, nota Tremonti,
“dopo il comunismo
esistessero solo le privatizzazioni”...
Stiamo perdendo
“ilnostro tessuto connettivo e ci
sono più turisti fuori che fedeli
dentro le nostre cattedrali, lo
splendore pietrificato della
nostra storia”
. E ancora: sottola pressione della crisi che
arriva,
“stanno dichiarandofallimento proprio gli alchimisti
che, appena ieri (sol alla
fine del Novecento), hanno
inventato il mercatismo, l’utopia-
madre della globalizzazione,
il suo strapotente motore
ideologico: i liberali drogati
dal successo appena ottenuto
nella lotta contro il comunismo;
i post-comunisti divenuti
liberisti per salvarsi; i banchieri
travestiti da statisti; gli
speculatori-benefattori; e i più
capaci pensatori di questo
tempo, gli economisti, sacerdoti
e falsi profeti del nuovo
mondo”
.Sostiene Tremonti che consumismo
e comunismo si sono
fusi “in un nuovo materialismo”,
ma ritenere che il primo
sia solo l’effetto del perverso
mercatismo e non affondi invece
in pieno in una logica liberal-
liberista, all’insegna dell’individualismo
e della soddisfazione
dei propri interessi e dei
propri bisogni, fa torto all’intelligenza
dell’autore. Ci sono
molti più punti di contatto fra
liberalismo e marxismo, fratelli
separati della modernità, di
quanti Tremonti non voglia e/o
non possa ammettere.
Allo stesso modo, l’insistenza
sulle radici, coniugata nel nome
del “romanticismo”, ha poco a
che vedere con le società capitalistico-
liberali di massa:
“L’ideanon divisionista e non atomica
della appartenenza dell’essere
umano a una comunità
storica, a una civiltà organica;
l’idea che le sue radici affondino
nella stessa terra in cui
riposano i suoi padri; il rispetto per il particolare,
l’opposto dell’universale globale”.
Nel centinaio di pagine che sorreggono
LaPaura e la speranza
ci sono dunque la demoníadell’economia, la comunità organica, il
decisionismo politico, le “piccole patrie” e
la sovranità europea e quindi vien voglia
comunque di dire a Tremonti, al di là di differenze
e perplessità d’altro genere, “benvenuto
nel club” di noi non moderni... Quanto
poi tutto questo possa riversarsi in una cultura
politica di governo ci vorrebbe la sfera di
cristallo, da un lato, la bacchetta di Mago
Merlino dall’altro.