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Decrescita: parliamone seriamente

di Massimo Corbucci - 17/04/2008

 

Sotto la pressione di processi planetari sempre più stringenti, come la concorrenza dei paesi in via di sviluppo, la carenza di materie prime e i cambiamenti climatici, entro pochi anni le correnti di pensiero convoglieranno in tre filoni fondamentali:

- Crescita ad ogni costo, per chi riterrà prioritario mantenere comunque una egemonia economica e militare per difendere i confini di un’isola fortificata di benessere.

- Crescita sostenibile, per chi continuerà a ritenere conciliabili ambiente ed economia attraverso processi di ottimizzazione.

- Decrescita, per coloro che man mano prenderanno coscienza di contraddizioni ritenute inconciliabili.

A queste tre correnti di pensiero dovranno necessariamente corrispondere tre organizzazioni politiche, che le rappresenteranno e che cercheranno di far virare lo sviluppo secondo le loro convinzioni o convenienze. Il confronto sarà aspro e fortemente motivato perché sempre più coinvolgerà la sopravvivenza stessa. Le altre ideologie tenderanno a svanire. Di fronte a questo possibile scenario dobbiamo porci l’obiettivo di rendere maturo il nostro movimento in tempi brevi, dandogli concretezza e programmi.

Il movimento della decrescita ha portato avanti fino ad ora un’opera di sensibilizzazione incentrata su una forte critica nei confronti del PIL. A questo indice di freddo benessere materiale contrappone appelli per una società più umana caratterizzata da un minor consumismo. Propone inoltre soluzioni finalizzate al risparmio energetico e ad una gestione più oculata dei rifiuti scivolando in tematiche spesso riconducibili alla crescita sostenibile. Così facendo non si evidenziano gli elementi caratteristici della decrescita, che pur apprezzando l’ottimizzazione del processo produttivo con il fine del risparmio energetico e della salvaguardia ambientale, trova la sua effettiva ragione di essere nel preciso obiettivo di ridurre una grande quantità di merci inutili!  

Questa mancanza di chiarezza è frutto di una certa difficoltà a decolonizzare il nostro immaginario ma deriva anche dal timore di affrontare la problematica con tutte le conseguenze connesse.

Siamo restii a dire con chiarezza a coloro che si avvicinano al movimento, perché nauseati dalla società dei consumi, che l’alternativa da noi  proposta si chiama ‘decrescita’ perché presuppone, almeno in via transitoria, una probabile diminuzione del nostro benessere materiale.

Una reticenza peraltro comprensibile considerato il fatto che una minore disponibilità economica, per chi già fatica ad arrivare a fine mese, è prospettiva assai poco appetibile.

Cerchiamo inconsciamente di farci tornare i conti e l’ambiguità di fondo che ne consegue genera scarsa concretezza e giustifica a sua volta il fatto che molta gente, pur avendo rigettato il consumismo come stile di vita non abbraccia la nostra visione, non trovandola una proposta politica convincente.

È quindi importante fare chiarezza, ed è atto di responsabilità utilizzare tutte le competenze per tracciare sin da ora un percorso, immaginando contestualmente le possibili cautele da prendere per superare le molte difficoltà che seguiranno. Quello che proponiamo è infatti un triplo salto mortale: cambiare un’economia basata sul consumo in una fondata sul risparmio, passando per un riequilibrio dei redditi da realizzarsi nell’ambito di una società liberale!

Ma prima ancora è necessario individuare un punto di partenza su cui fare leva per uscire dalla attuale situazione ed innescare un processo virtuoso, che si autoalimenti verso uno sviluppo più assennato. Una proposta che contenga in sé i limiti cui siamo costretti e gli strumenti per superare detti limiti:

Provo a dare il mio contributo entrando nel merito. Viviamo in una società caratterizzata dal concetto del trickle down. In parole povere: crescere, crescere, crescere; i guadagni sono divisi in maniera iniqua ma, tuttavia, quello che “gocciola” sulle classi meno abbienti è comunque sufficiente a dare benessere… purché si mantenga attiva la domanda e quindi la produzione. Tutti, ricchi e poveri, devono fare la loro parte alimentando i consumi, altrimenti il meccanismo si inceppa ed è il disastro.

La domanda che ci dobbiamo porre è: come far cambiare direzione all’economia e gestire il necessario punto morto dell’inversione di rotta? Non possiamo infatti ipotizzare tout court una diminuzione di reddito, anche se transitoria, senza avere pronta una risposta che consenta alle famiglie meno abbienti di fronteggiare la situazione.

Abbiamo bisogno di fare affidamento su una riserva di reddito che ci permetta di superare senza troppi danni il periodo di letargo dell’economia, nella fase di transizione, finché lo sviluppo non si riassetti su un nuovo binario. E in realtà, nelle pieghe di un mondo che ha fatto del consumo un obbligo, un dovere civico, questa riserva, questa quota della nostra spesa da cui potremmo esimerci, senza troppi sacrifici, esiste!

La possiamo chiamare “spesa di base obbligata”: soldi che escono dal nostro portafoglio senza che noi usciamo di casa, senza che facciamo alcun atto volontario di acquisto.

A questo proposito và infatti considerato che il sistema economico ci vuole consumatori a tutti i costi e fa sì che ci sobbarchiamo di tutta una serie di canoni per avere il diritto di esistere (utenze, conto bancario, assicurazione, internet etc.); ci obbliga poi a spese consequenziali per cui un acquisto, sia esso merce o servizio, se ne porta dietro tanti altri e per tanto tempo (pensate a tutto quello che consegue all’acquisto di una nuova auto o un nuovo computer); ci impone “dazi”: se necessitiamo di medicine dobbiamo acquistare tutta la confezione, se abbiamo bisogno di un cellulare ci impone il carica batteria etc. etc.

Se facciamo il conto di queste spese obbligate, spese di non vita, perché non corrispondono ad una effettiva nostra gratificazione né bisogno, esse gravano per circa 300/400 € mensili. Cifra che ognuno di noi è obbligato a mettere come gettone di presenza, ma che potrebbe essere assai meglio impegnata per il nostro benessere se lasciata al libero arbitrio. In un periodo di vacche grasse possiamo non considerarlo un grosso problema, ma se dovremo affrontare la “virata” dell’economia sarà indispensabile che ognuno possa gestire il reddito secondo le propri esigenze, altrimenti in tanti si troveranno a fare come alcuni pensionati già fanno: pagano sì il loro gettone di presenza ma per mangiare vanno a rubare al supermercato!

Lo stato dovrebbe operare per proteggerci da questo stato di cose fungendo da operatore di buon senso che ha a cuore i beni comuni (acqua, territorio, ambiente): quindi il risparmio. Invece ci spinge verso il consumo e contribuisce con tasse fisse e balzelli (ad es. notaio, geometra e quant’altro per l’espletamento delle più semplici pratiche amministrative) ad incrementare la spesa di base obbligata.

Il nostro punto di partenza dovrà essere batterci per riprendere possesso di quei 300 €. Man mano che noi ci rifiuteremo di spenderli andremo ad aggredire i guadagni delle grandi aziende: per il principio che qualche goccia di quel reddito andrebbe comunque a nostro vantaggio, saremo sì un po’ più poveri, ma avremo effettivamente molte meno spese da affrontare. Forse saremo così in grado di avviare un processo virtuoso che ci porterà fuori dall’attuale follia. Il risparmio contiene in sé il male e la cura, ma per funzionare da leva senza il ricatto della sussistenza, dobbiamo liberarci dall’obbligo di un consumo “di base”. Riappropriarci della possibilità di risparmiare è a parer mio lo slogan da portare avanti per dare concretezza e un programma politico alla teoria della decrescita.