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È possibile perdonare qualcuno che non chiede perdono?

di Francesco Lamendola - 17/04/2008

 

 

Il vocabolario Zingarelli, alla voce perdono, recita: remissione di una colpa e del relativo castigo; e, alla voce perdonare, spiega: assolvere qualcuno dalla colpa commessa, condonare a qualcuno l’errore. L’ultima affermazione, veramente, ci sembra inesatta: si può condonare la pena, ma non la colpa; e, comunque, “perdonare” non ha tanto a che fare con la remissione della pena, quanto con la remissione, appunto, della colpa.

Dunque, perché ci sia perdono, occorre la compresenza di questi cinque elementi:

1)      una colpa che è stata commessa;

2)      qualcuno che rilevi che vi è stata una colpa (e non, poniamo, una semplice fatalità);

3)      qualcuno che ha compiuto tale colpa;

4)      qualcuno che ne ha subito gli effetti negativi;

5)      qualcuno che sia disponibile ad offrire il perdono.

Nei rapporti privati interpersonali, la persona che perdona è la stessa che ha subito gli effetti negativi della colpa, dunque gli elementi al punto 4 e al punto 5 coincidono. Nei rapporti di legge, invece, civili o penali, è un terzo che si erge a giudice  (lo Stato) ed, eventualmente, a concessionario del perdono. Questo secondo caso, qui non ci interessa, perché intendiamo limitarci al perdono come atto individuale della coscienza.

Così pure, per meglio delimitare il campo della nostra presente riflessione, tralasceremo l’aspetto relativo al condono della pena. Quando la parte offesa, infatti, non si rivolge ad una istanza superiore (lo Stato), l’idea del perdono comprende quella della remissione del castigo, nel senso che colui il quale perdona, evidentemente rinuncia ad ogni volontà di vendicarsi. Tra soggetti privati, infatti, il concetto di “pena” diviene automaticamente quello di “vendetta” e non scaturisce da una valutazione impersonale della colpa e del castigo ad essa proporzionato, bensì da una valutazione soggettiva, in cui giudice e parte lesa coincidono.

 

Dunque, punto primo: l’azione del perdonare presuppone che sia stata commessa una colpa; e che tale colpa sia stata commessa ai danni di colui che, dopo averne subito le conseguenze negative (o, al limite, dopo averle evitate per pura fatalità, indipendentemente - cioè - dall’intenzione del soggetto colpevole), offra la sua disponibilità a concedere il perdono.

Qui sorge la prima difficoltà: perché, in mancanza di una istanza superiore di giudizio, impersonale e oggettiva (per quanto fallibile, come tutte le realtà umane), non è detto che vi sia accordo tra le parti nell’ammettere che una colpa vi sia stata.

Può accadere che colui che ha commesso la colpa, neghi di averlo fatto o che, in buona fede, non ne sia consapevole: il che presuppone o una grandissima innocenza o una crudeltà così  radicata, da non essere più suscettibile di riconoscere se stessa. Il caso dei torturatori nazisti dei campi di concentramento, i quali, a guerra finita, si stupivano sinceramente dei processi intentati a loro carico, può rendere un’idea di come una tale ambiguità sia possibile non sono in presenza di colpe relativamente lievi e decisamente soggettive, ma anche di colpe gravissime, dalle conseguenze di portata devastante.

Pertanto precisiamo subito che il concetto di colpa è da noi inteso, in questa sede, esclusivamente nel senso di colpa morale (e non necessariamente giuridica): ossia di un male commesso in modo intenzionale, indipendentemente dal fatto che esso sia sanzionato (o sanzionabile) da una istanza giuridica di ordine superiore. E ci affrettiamo a riconoscere che, posto in tali termini, il concetto di colpa non può che investire l’interiorità della coscienza, la quale sola è giudice di essa. Ma la coscienza di chi, dell’offeso o dell’offensore? In altri termini: vi è un colpevole, se la colpa non è riconosciuta come tale da colui che l’ha compiuta? E vi è una colpa, se questa viene riconosciuta solo da colui che ritiene (e magari a torto) di averla subita?

Sono problemi difficili, ai quali non ci sentiamo di rispondere in maniera categorica e unilaterale. Istintivamente, gli esseri umani sentono, o credono di sentire, con sicurezza infallibile, quando si trovano in presenza di una colpa, sia commessa che subita; eppure non è detto che le cose appaiano sempre tanto chiare. Se così non fosse, non accadrebbe che tante persone si rivolgano al giudice per dirimere delle questioni circa le quali non riescono a stabilire, in maniera condivisa, se una colpa sia stata commessa e da parte di chi. E così anche nel campo delle abituali relazioni umane, senza implicazioni legali: non sempre chi ha commesso una colpa se ne riconosce responsabile; e non sempre chi pensa di averla subita è equo nel giudicare il presunto colpevole.

Parrebbe che siamo arrivati ad un vicolo cieco. Se l’unico giudice di un atto morale è, in ultima istanza - come sosteneva San Tommaso d’Aquino - la voce della propria coscienza, che fare allorché un conflitto tra due soggetti non è superato mediante il riconoscimento della colpa commessa, da parte di uno dei due (o, magari, da parte di entrambi)?

In effetti, non esiste soluzione. Nell’ambito della legge, è il giudice super partes che dirime la questione e supera la difficoltà, pronunciandosi a favore dell’una o dell’altra parte in causa; ma, nelle normali relazioni interpersonali, questa figura super partes non esiste. Si può solo sperare, pertanto, che la colpa sia così evidente di per se stessa, da indurre non solo la parte lesa, ma anche la parte colpevole, a trovare un accordo circa il giudizio morale su di essa. Ma sappiamo bene quanto ciò accada raramente; o, magari - il che è meno grave, ma pur sempre assai spiacevole - come un simile accordo possa realizzarsi solo a una grande distanza di tempo dai fatti.

Punto secondo: perché sia possibile l’azione del perdono, bisogna che via qualcuno capace di rilevare che vi è stata una colpa. Quanto a ciò, valgono le osservazioni svolte or ora nel punto precedente.

Punti terzo e quarto: bisogna che vi sia qualcuno che ha commesso la colpa e qualcuno che ne ha subito gli effetti negativi. Se una delle due parti, ad esempio, è deceduta, evidentemente non vi può essere perdono in senso stretto, perché perdonare a un morto, o chiedere perdono all’anima di un morto, sono azioni possibili e, da un certo punto di vista, lodevoli (ancorché tardive), ma riguardano un livello di realtà diverso da quello in cui la colpa è stata commessa da qualcuno e a danno di qualcuno altro. Riguardano, cioè, il livello dell’Assoluto, mentre la colpa, in quanto frutto dell’imperfezione umana, è una tipica manifestazione del piano del relativo.

Punto quinto: nell’azione del perdonare, è necessaria la presenza di qualcuno che sia disponibile ad offrire il perdono al colpevole. Chiediamo: deve essere necessariamente lo stesso soggetto che, a suo tempo, ha subito gli effetti negativi della colpa, o può essere anche qualcun altro? Nel caso della giustizia istituzionale, può essere lo Stato (il quale, per la verità, rimette la pena e non la colpa, come si è detto; o, se rimette la colpa, lo fa mediante un atto puramente formale); ma nel caso dei normali rapporti interpersonali? Un parente, ad esempio, ha il potere (e il diritto) di perdonare l’offensore, al posto della vittima?

Anche questo è un problema difficile. Pertanto ci limiteremo a dire che, a nostro giudizio, un parente o un membro del gruppo della vittima ha, sì, il potere e il diritto di perdonare; ma che tale perdono non ha la forza di ristabilire pienamente e interamente la bilancia della giustizia morale, se non si accompagna a quello della vittima che, sola, può esercitare una tale azione nel senso più vero e profondo, ossia come remissione del male commesso.

 

Abbiamo deciso, però, di fermare la nostra attenzione su un caso ancora più particolare di colpa e di perdono: quello, cioè, in cui il soggetto colpevole non chiede perdono alla vittima e non mostra alcun desiderio di essere perdonato.

Ciò può avvenire, a nostro parere, nelle seguenti circostanze:

a)      quando il colpevole non ha coscienza d’essere tale;

b)      quando il colpevole ha una qualche intima coscienza del male compiuto, ma non intende riconoscerlo;

c)      quando il colpevole ha consapevolezza del male compiuto, ma non ritiene di poter essere perdonato.

Il caso a), a sua volta, si suddivide nelle due seguenti tipologie:

      a.1) quando il colpevole è assolutamente inconsapevole di aver commesso il male (ad es. nel                      caso di una persona che, in un dato momento, sia incapace di intendere e di volere, come quando si tratti di un bambino);

      a.2) quando il colpevole ha consapevolezza della portata della propria azione, ma non le attribuisce un valore negativo, bensì positivo (come avviene nei crimini di tipo ideologico o anche in quelli di tipo privato, specialmente sessuale, ma da parte di soggetti totalmente prigionieri della propria ottica edonistica e narcisistica).

In entrambi questi “sottocasi”, il ristabilimento di un principio di giustizia (da cui scaturisce l’eventualità del perdono) è estremamente problematico. In un certo senso, si può dire che giustizia non è veramente fatta se il colpevole non giunge ad un’ammissione piena e incondizionata della propria colpa. Esercitare il castigo su un soggetto che non si è pentito, perché non si riconosce colpevole (come nel caso de Lo straniero di Albert Camus) è un atto puramente formale, che ristabilisce la giustizia solo formalmente; e altrettanto vale per il perdono. Perdonare qualcuno che non si pente, perché non si riconoscere colpevole (ma, semmai, meritevole) è non solo un atto che richiede una forza morale pressoché sovrumana, ma anche un atto che si perde nel vuoto della mancata risposta.

Perché il perdono abbia un senso, infatti, è necessario che si collochi all’interno di un dialogo, e sia pure di un dialogo ideale e magari non esplicito, fra il colpevole e la vittima.

Tutti conoscono un celeberrimo episodio di perdono che sembra trascendere il limite qui delineato, ed è quello di Cristo che offre il suo perdono a coloro che lo stanno crocifiggendo; o, per essere più precisi, che domanda a Dio di perdonarli, affermando che essi non sanno ciò che stanno facendo Ecco, questo è possibile: nel senso che solo Dio può perdonare il colpevole che non mostra segni di pentimento né, tanto meno, chiede perdono; ma nessun altri potrebbe farlo all'infuori di Lui, neppure la vittima.

Infatti, il male commesso volontariamente da un essere umano su un altro essere umano non è “semplicemente” una questione, diciamo così, privata; è sempre, al contrario, anche e soprattutto una violazione dell’ordine morale dell’universo.

Pertanto, il perdono della vittima non assorbe e non annulla il male commesso ma, tutt’al più, lo supera e lo trasforma (nel bene della riconciliazione), solo qualora si accompagni al ravvedimento del colpevole e alla sua richiesta di perdono. Ma, se questa manca, il turbamento dell’ordine morale non viene ristabilito dalla generosità a senso unico della vittima, per quanto essa sia disposta a perdonare e aperta alla concreta attualità del perdono.

In altre parole, l’infrazione dell’ordine morale non è paragonabile a un vaso delicato che può essere rotto, ma che può essere anche opportunamente aggiustato e restaurato nel suo primitivo aspetto, mediante un’azione meccanica e puramente esteriore. No: i segni della rottura resteranno pur sempre evidenti, le cicatrici della ferita non si chiuderanno mai del tutto, a meno che sia completamente superata la intenzionalità maligna della coscienza, da cui l’azione colpevole è scaturita e che ne è stata, per così dire, la parte visibile. E questo può avvenire solo se vi è, da parte di colui che quell’ordine ha infranto, una consapevolezza del male commesso.

Per inciso, osserviamo che è ben per questa ragione che la morale religiosa non parla, genericamente, di colpa o di errore, ma di peccato: perché la colpa e l'errore attengono alla sfera delle relazioni umane, mentre il peccato implica una rottura dell'ordine cosmico voluto da Dio e, quindi, oltre agli effetti specifici sulla vittima, esso comporta un turbamento di portata molto più ampia, un rifiuto o una ribellione contro l'ordine divino.

Il caso b) è una variante del caso a), ma ne è una variante ancor più negativa. Qui, infatti, il male commesso è riconosciuto come tale da colui che gli ha dato libero sfogo, macchiandosi della colpa; ma vi è un tale indurimento della coscienza, che questa non è disposta a fare il necessario atto di pentimento e di ravvedimento. Anche in questo caso, il perdono da parte della vittima, o di chi per essa, non è sufficiente a ristabilire l’ordine morale turbato, per le medesime ragioni che abbiamo esposto nel caso precedente.

Il caso c) rientra, propriamente parlando, nella categoria della disperazione. Il disperato è colui che non ha più alcuna speranza di essere perdonato, né da Dio, né dagli uomini; e che non trova nella propria coscienza la forza necessaria a chiedere perdono, perché si ritiene da se stesso come assolutamente imperdonabile.

Kierkegaard ha scritto pagine mirabili sul concetto della disperazione, che riteneva, giustamente, la “malattia mortale” dell’anima. La logica e coerente conseguenza di essa dovrebbe essere il suicidio, come nel caso di Giuda che, pentitosi per aver tradito Cristo, gettò in terra i trenta denari avuti dai sacerdoti del Tempio, e corse ad impiccarsi.

Naturalmente, non tutti i disperati per una colpa commessa arrivano al suicidio fisico; la maggior parte sceglie il suicidio morale, che è meno vistoso e drammatico, ma non meno devastante per la vita dell’anima. È un lento inaridirsi e lasciarsi morire della coscienza; una lunga, interminabile agonia, non mai rischiaratala un sol raggio di luce e di speranza.

 

I filosofi antichi non si sono soffermati particolarmente sul concetto del perdono e sulle problematiche in esso implicate, forse perché il sentimento del perdono non rientrava nei loro orizzonti spirituali. Solo con il buddismo, nelle culture orientali, e con il cristianesimo, in quella occidentale, l’idea del perdono si è diffusa ed è penetrata a fondo nelle coscienze, al punto da costituire una parte essenziale del nostro bagaglio etico.

Nietzsche, tra i filosofi moderni, ha svolto delle riflessioni memorabili sugli effetti negativi di un perdono concesso non per un’intima e convinta esigenza della coscienza, ma per adempiere a un precetto morale o religioso e per “sentirsi” buoni. Ha osservato, giustamente, che un tal genere di perdono intossica la coscienza e produce quella particolare forma di risentimento che, essendo sotterraneo e non riconosciuto come tale, non dona alla coscienza l'effetto liberatorio e rasserenante della riconciliazione, bensì spande ovunque le tossine del rancore e finisce per rendere la vittima non migliore, sul piano morale, del colpevole.

Il pericolo è reale.

Tuttavia, nonostante quel che Nietzsche pensava degli effetti del cristianesimo sulla civiltà occidentale, onestamente non ci sembra che il messaggio del perdono, che del cristianesimo è l’essenza, sia penetrato così a fondo da poter intossicare intere generazioni e una intera civiltà. Al contrario: ci sembra che il perdono sia, a tutt’oggi, una merce talmente rara, che davvero risulta molto aleatorio il rischio di una intossicazione collettiva da esso provocata. Il problema, semmai - oggi come ieri - rimane la difficoltà del perdono, non certo quello di una diffusione generalizzata della sua pratica, per quanto mal concepita e mal diretta.

Infatti, se il perdono è, come poc'anzi dicemmo, non un monologo ma una forma di dialogo fra due soggetti moralmente liberi e consapevoli, esso può realizzarsi solo laddove siano aperti e dialoganti un io ed un tu. Ma l'uomo contemporaneo, inebriato dai successi della sua scienza e della sua tecnica, ossia del suo Logos strumentale e calcolante, sta disimparando a porsi di fronte al tu, in ascolto e in dialogo; sempre più spesso, tutto quello che cerca è un'altra faccia di se stesso. È divenuto un io che pone sia le domande, sia le risposte; un io-tu che ha smarrito l'essenza della relazione e che si compiace solo di contemplare, narcisisticamente, la sua forza, la sua bellezza, la sua intelligenza.

Ma l'io colpevole non potrà mai perdonare veramente se stesso, non potrà mai perdonarsi da solo; e questa è la ragione per cui la disperazione incombe su di esso e, in generale, sull'intera società contemporanea: una società che si è allontanata dal tu e, in particolare, da quel Tu che egli concepisce solo come un limite molesto al proprio senso di onnipotenza.

 

Perciò, concludendo, possiamo osservare che se è praticamente impossibile offrire il proprio perdono a colui che non lo chiede, a maggior ragione è difficile pensare che Dio possa perdonare l'umanità colpevole, dal momento che questa non pensa affatto a cercare il Suo perdono, anzi, nega addirittura che vi sia Qualcuno che solo ha, in ultima istanza, il potere di perdonare, di perdonare in senso assoluto.

Si spiega così, crediamo, quel particolare pervertimento del senso morale che, oggi, spinge numerose persone non solo a commettere il male, ma a negare di averlo commesso, quando lo ha commesso (cfr. il nostro precedente articolo La rimozione della colpa, malattia mortale della modernità, sempre sul sito di Arianna Editrice).

Esiste una via d'uscita da questo vicolo cieco?

Sì, se l'uomo contemporaneo sarà capace, mediante un salutare atto di umiltà, di rinunciare alla maschera del proprio io solipsistico e onnipotente, e riscoprire l'infinita bellezza e ricchezza del tu, ossia dell'ascolto e del dialogo autentico; ivi compreso quel Tu Assoluto ed onnicomprensivo che lo pone, chiamandolo all'esistenza; e che, ponendolo, gli conferisce un posto ben preciso nel mondo, un senso ed un fine a cui tendere.