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La questione settentrionale che non si è voluta vedere

di Salvatore Carrubba - 17/04/2008

 

 

Ma che Paese ci hanno descritto molti giornali nelle scorse settimane? Un'Italia apparentemente «marziana», se messa a paragone con quella uscita dalle urne: completamente diversa, addirittura contraddittoria, rispetto al profilo, al tempo stesso moderato e preoccupato, che riassume le ragioni del successo del Pdl e della Lega.

 

Le elezioni, si sa, sono cose serie, di cui i sondaggisti non possono anticipare tutte le sfumature: le sorprese sono sempre possibili. Ma come mai di questa Italia che lunedì abbiamo scoperto entusiasta di affidarsi a Silvio Berlusconi e a Umberto Bossi nessuno avesse captato nulla? Né sugli interminabili talk show televisivi, popolati sempre dalle stesse facce, bruscamente pensionate poi dagli elettori? Né sulle sterminate pagine di cronache politiche, più ricche di gossip che di notizie? Né sui telegiornali «a panino», di cui ci si preoccupa di calcolare con il bilancino i secondi assegnati a questo e a quello, senza badare poi se sappiano assolvere al compito di raccontare e spiegare l'Italia?

 

Per la verità, qualcuno ci aveva provato, anche da queste colonne, dove la questione settentrionale, da alcuni sbrigativamente liquidata come una «non questione», è stata al centro di una riflessione protrattasi per mesi, grazie al contributo di colleghi svegli e di studiosi curiosi.

 

Una riflessione, purtroppo, alla quale la politica centrale e, soprattutto, quella della sinistra è rimasta rigorosamente estranea, salvo poi scoprire basita le percentuali raggiunte da Bossi.

 

Ho letto martedì su un grande quotidiano che la vittoria leghista «era nell'aria»: a leggere i giornali dei giorni precedenti, anche quel quotidiano, non me ne ero accorto. Del resto, a metà degli anni 90, chi mai aveva capito e previsto che quel partito considerato strano e volgare, una meteora presto destinata a essere ammansita dai sornioni politici della Prima Repubblica, stava per esprimere il sindaco di Milano?

 

Quando poi la Lega e il suo radicamento diventarono fenomeni imprescindibili, per esorcizzarli li si ridusse a espressione di un mondo arcaico ed egoista, fatto di cascine e officine, relegato alle zone pedemontane, estraneo allo scintillio glamourous della cultura metropolitana. Così bollata, la Lega poteva rientrare nel cliché di partito di baluba, nella migliore delle ipotesi, se non di cripto-fascisti, nella peggiore; ed era quindi rimovibile dall'orizzonte informativo di giornali che, sentendosi espressione della borghesia colta e pensosa, quei fenomeni, al massimo, deprecano con fiero cipiglio, non certo tentano di comprendere con umiltà.

 

Le stesse domande cui la Lega cerca di dare risposte (spesso discutibili), a partire dalla sicurezza, venivano derubricate a espressione di incorreggibile egoismo microborghese se non di autentica isteria collettiva. Abbiamo poi scoperto, martedì, che il partito dei fascio-baluba era capace di sfondare quell'indifferenza, di tornare a percentuali a due cifre anche nei quartieri popolari di Milano, di violare i santuari rossi dell'Emilia e della Toscana.

 

Non sarebbe stato necessario trasformarsi in militanti della Lega per riconoscere, forse, nel Nord una pentola che borbottava da tempo: comunque, dopo tanti segnali, il risultato del 2006 non avrebbe più dovuto lasciare dubbi. In quell'Italia rimasta (non a tutti) segreta, c'era un risentimento crescente, frutto non più solo dell'asimmetria dispotica imposta dallo Stato nel rapporto col cittadino, ma ora anche della percezione di trovarsi al centro di uno sconvolgimento globale di cui sfuggono prospettive e implicazioni ma di cui incombono rischi e costi.

 

Ma non c'è solo un peccato di omissione tra le responsabilità su cui l'informazione italiana dovrebbe interrogarsi: una riflessione dovrebbe fare sul clima alimentato negli ultimi mesi da gran parte dei media contro la politica, che ha contribuito a consolidare la convinzione che tutta la politica sia dannosa, che tutti i politici siano ladri, che tutte le istituzioni siano inutili, che tutte le spese per tenere insieme un Paese siano uno spreco. La politica italiana deve certamente e rapidamente riconquistare una legittimazione etica; che è cosa diversa dall'alimentare un sentimento di antipolitica che, poi, naturalmente, ha gonfiato le vele a chi, di quella battaglia, aveva fatto il vessillo per anni. La moralità, in politica, si difende tagliando lo statalismo, non alimentando il qualunquismo.

 

Si potrebbe concludere che quello della difficoltà a capirsi tra aree diverse dal Paese non sia fenomeno nuovo, ma non è stato solo il Nord a rivelarsi diverso da quello che ci era stato spesso dipinto. Pensiamo, di nuovo, al successo della Lega in aree che apparivano inespugnabili del Centro; pensiamo alla sorpresa per la sconfitta di Riccardo Illy o per il ballottaggio cui è stato costretto Francesco Rutelli, in una città come Roma in cui la vulgata dava scontato un successo travolgente.

 

Evidentemente, i romani non dovevano essere così entusiasti della gestione della propria città che su tutti giornali, di tutto il mondo, abbiamo letto per anni come un modello; probabilmente, sentivano uno iato tra la condizione quotidiana del cittadino e la scintillante immagine della capitale. Di nuovo: perché nessuno ce l'ha saputo raccontare? Dal Nord e da Roma giunge allora una domanda anche all'informazione, perché questa riacquisti la capacità di interrogarsi e di scavare, senza fermarsi all'apparenza e senza aggrapparsi al pregiudizio. Con il rischio, se no, di risultare completamente inutile.