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La Lega? Un comunitarismo territoriale post-ideologico

di Angelo Panebianco - 18/04/2008

 

Il successo elettorale della Lega Nord sembra avere sconcertato e stupito tanti osservatori. Sconcerto e stupore sembrano dipendere dalla circostanza che, eccezion fatta per una manciata di attenti analisti del fenomeno, la Lega, nonostante la sua storia ormai ventennale e il suo radicamento territoriale, resta ancora per tanti un oggetto misterioso, un enigma, giudicato più per le periodiche intemperanze verbali dei suoi leader che per la sua natura. Il riflesso pavloviano di molti è ancora quello (come accadeva agli albori della vicenda leghista) di liquidare il fenomeno sotto l'etichetta di «movimento di protesta».

In parte, ciò dipende dalla difficoltà di comprendere che cosa davvero sia un partito regionale o territoriale. Un partito regionale è un partito che sfugge alle classiche etichette destra/sinistra: imponendosi come portavoce di una certa area territoriale, che aspira a rappresentare in modo monopolistico, è un partito interclassista e comunitario. E' un partito-comunità. Per un gruppo politico siffatto, avere un ruolo nel governo nazionale è importante ma solo se ciò rende più efficace la sua azione a favore della comunità territoriale rappresentata. La sua vera forza sta nel controllo delle amministrazioni locali e in una presenza capillare sul territorio. Come ha osservato Andrea Romano (La Stampa), non si capisce la Lega Nord se non si tiene conto della capacità che Umberto Bossi ha avuto nel corso degli anni di fare crescere una classe dirigente locale, di giovani amministratori, spesso abili, e capaci di tenersi in sintonia con le domande dei loro amministrati.

Per questo, certi paragoni reggono poco. Non funziona accostare la Lega, partito territoriale insediato in alcune delle zone più ricche del Paese e che gode del consenso di ceti produttivi, ai movimenti classici di tipo ideologico, vuoi di estrema destra (come il lepenismo in Francia) vuoi di estrema sinistra (come la sinistra massimalista in Italia). Al di là di certe somiglianze superficiali con i movimenti estremisti (e senza negare che le spinte anti-politiche possano oggi avere avuto un qualche ruolo nel successo elettorale della Lega), un partito regionale come la Lega Nord vive e prospera in virtù di un rapporto «contrattuale», di scambio, su temi concretissimi, che toccano direttamente le loro vite e i loro interessi, con i propri rappresentati. A dare forza alla sua azione, a spiegare il suo radicamento e i suoi successi, sono due circostanze. In primo luogo, il fatto che un partito regionale non deve preoccuparsi, a differenza dei grandi partiti nazionali, delle «compatibilità» (se non quando non preoccuparsene danneggerebbe i territori rappresentati) e degli interessi nazionali. Ciò lo rende meno impacciato dei partiti nazionali che devono mediare fra tanti interessi, territorialmente diffusi, e fra loro contrastanti. In secondo luogo, il fatto che il comunitarismo territoriale che lo ispira gli permette di muoversi «come se» le popolazioni rappresentate fossero internamente omogenee. Per l'interclassismo comunitario, «se ci guadagna» il territorio, ci guadagnano tutti i suoi abitanti.

In questa prospettiva, per inciso, l'erosione dell'area dell'incompatibilità di interessi, e della conflittualità, fra datori di lavoro e salariati, dovuta ai cambiamenti intervenuti nella struttura economica e sociale, può contribuire a spiegare il tracollo della sinistra classista e certi significativi spostamenti di voto operaio verso la Lega.

Per capire meglio le specificità della Lega si pensi alle differenze fra il suo ruolo nel precedente governo Berlusconi e quello svolto dalla sinistra massimalista nel governo Prodi. La sinistra massimalista tenne il governo Prodi in scacco su tutti i temi possibili, dalla politica estera al welfare, fu fonte di continua instabilità. La Lega Nord, nel passato esecutivo di Berlusconi, invece, sostenne sistematicamente le politiche governative nel loro complesso, tenendo ferma la barra sui pochi ma cruciali temi che le interessavano: l'immigrazione, la devolution. Né si può ignorare, a conferma del carattere assai pragmatico dell'azione leghista, che il governo Berlusconi fu debitore nei confronti della Lega di un ministro del Lavoro (Roberto Maroni) cui si dovette, fra l'altro, uno dei provvedimenti più significativi di quel governo: la legge Biagi.

Poiché la natura della Lega non è cambiata, nulla lascia pensare che le cose andranno ora diversamente. La Lega si impegnerà nel governo sostenendolo lealmente ma chiedendo in cambio provvedimenti precisi sulle cose che stanno a cuore ai suoi rappresentati: sicurezza, immigrazione, federalismo fiscale.

Sulla sicurezza e sulle politiche dell'immigrazione, probabilmente, non incontrerà difficoltà dal momento che esiste, su questi temi, omogeneità di vedute nel centrodestra. Assai più delicato e complesso potrebbe risultare invece il tema del federalismo fiscale: agitato propagandisticamente per anni, questa volta il federalismo fiscale entrerà davvero nell'agenda politica, diventerà oggetto di vere decisioni. Qui potrebbero insorgere problemi, anche seri, fra il partito regionale (che punta a trattenere al Nord il massimo possibile delle risorse prodotte) e il partito nazionale, il Pdl, che deve mediare fra interessi diversi e che non può ignorare le domande, di tutt'altro tenore, del Mezzogiorno. La sintesi, difficile comunque, sarà resa verosimilmente ancora più ardua dalla fase recessiva che ci aspetta. E' lecito ipotizzare che proprio sul federalismo fiscale, nei prossimi anni, il centrodestra possa giocarsi il suo futuro, garantendosi sine die, o prima o poi perdendo, il sostegno del partito regionale.