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Quali sono i presupposti filosofici di una corretta pratica della salute mentale?

di Francesco Lamendola - 19/04/2008

 

 

In alcuni precedenti lavori ci eravamo posti il problema di come sia possibile preservare l’equilibrio mentale e spirituale della persona mediante una pratica costante di tipo preventivo; e di come la perdita di tale equilibrio sia all’origine della maggior parte dei disturbi psico-fisici che affliggono la nostra salute (cfr. in particolare L’ecologia della mente come presupposto dell’equilibrio spirituale e La mente disturbata si crea da sé le proprie malattie).

Desideriamo riprendere ora questo tema, ponendoci la questione dei presupposti filosofici necessari al mantenimento di un siffatto equilibrio spirituale e, indirettamente, fisiologico.

Oppure è sufficiente evitare le fonti più dannose dell’inquinamento mentale, individuandole - per così dire - d’istinto, e procedendo sul puro terreno del buon senso?

Noi non lo crediamo. Certo, il cosiddetto buon senso svolge abitualmente un ruolo importante nel mantenimento della nostra salute mentale; nondimeno, anch’esso è soggetto a cadere in errore e, talvolta, non è in grado di riconoscere le situazioni e le abitudini mentali che, alla lunga, si riveleranno dannose. Anche l’istinto svolge un ruolo importante, anzi, vorremmo dire infallibile, così sul piano psichico, come su quello fisiologico. Ma quante volte siamo disposti ad assecondarlo, riconoscendogli un ruolo di superiore saggezza, e quante altre, invece, non preferiamo ignorare i segnali che esso si sforza d’inviarci? Quante volte esso ci segnala delle situazioni e delle abitudini mentali pericolose, e tuttavia non lo ascoltiamo; così come, sul piano fisico, esso ci avverte, ad. es., che siamo stanchi, mentre noi continuiamo a lavorare; oppure che abbiamo mangiato a sufficienza, ma noi continuiamo a riempirci lo stomaco, non per fame ma per placare qualche imperiosa richiesta di un inconscio disturbato?

Siamo convinti, pertanto, che per preservare una vita della coscienza serena e armoniosa non siano sufficienti né l’istinto né il “buon senso”, ma sia necessaria una vera e propria filosofia della salute mentale, ossia un impianto teorico - elaborato, peraltro, nel confronto quotidiano con la personale pratica di vita di ciascuno - capace di fornire indicazioni generali e un indirizzo complessivo, che possano coordinare e orientare la mente nelle concrete circostanze esistenziali. In altri termini, bisogna essere in possesso di una mappa concettuale che faccia da substrato ai nostri comportamenti e atteggiamenti quotidiani; così come - è stato dimostrato da recenti ricerche - il cacciatore eschimese che si sposta per decine di chilometri sul deserto bianco delle regioni artiche, a caccia di foche, sa “registrare” ogni elemento di quel paesaggio apparentemente uniforme, al punto da essere in grado di disegnarne, se richiesto, una carta geografica estremamente dettagliata e precisa, di poco inferiore, per accuratezza e rispetto delle distanze reali, a quella che possono realizzare i nostri cartografi, dotati di tutti i sussidi della moderna tecnologia, a cominciare dal prezioso strumento della fotografia aerea.

 

Punto primo: che cos’è la filosofia della salute mentale?

La definiamo così: quel ramo della filosofia il cui scopo è quello di mostrare alla persona umana quali siano i corretti atteggiamenti mentali e comportamenti pratici, che possano aiutarla a conservare, custodire o, eventualmente, recuperare il bene inestimabile della pace interiore, della sicurezza e del benessere spirituale.

Qualcuno non esiterebbe ad aggiungere: “e della felicità”.

Noi non arriviamo a tanto: “felicità” è una parola grossa; ci sembra che il benessere spirituale sia una meta già sufficientemente ambiziosa e, una volta raggiunta, sufficientemente apprezzabile nel contesto della vita umana. Precisiamo, inoltre, che il benessere spirituale non coincide sempre e necessariamente con il benessere fisico, anche se, in genere, le due cose sono intimamente collegate; e, soprattutto, non coincide necessariamente con uno stato di serafica imperturbabilità e assenza di tensioni e conflitti interiori.

Il conflitto, infatti, è necessario e costituisce una parte ineliminabile della vita: abolire il conflitto significherebbe abolire la vita (altra cosa, s’intende, è il concetto di violenza, che è la manifestazione immatura e distruttiva del conflitto).

Aggiungiamo, anzi, che quanto più una personale è spiritualmente evoluta - e, quindi, ha raggiunto uno stadio elevato di benessere spirituale -, tanto più essa, di norma, si troverà esposta a sollecitazioni, tentazioni, tensioni e conflitti; proprio come chi ha raggiunto la vetta di una montagna gode di un panorama infinitamente più bello, ma è anche infinitamente più esposto ai venti, in confronto a coloro che si trovano ancora in basso, lungo le pendici, o, addirittura, alla base della montagna stessa.

Del resto, questo è un paradosso solo apparente.

L’equilibrio spirituale, una volta raggiunto, mette in grado la coscienza e la volontà di elaborare gli strumenti per fronteggiare adeguatamente quel “di più” di sollecitazioni e di tensioni, cui è sottoposto chi è riuscito a salire più in alto. Come dire che le forze di ciascuno sono sempre proporzionate al livello di difficoltà spirituale che esse devono affrontare, e che ciò è tanto più vero, quanto più ci si trova in presenza di una ascesa consapevole della persona umana verso le regioni superiori dello spirito.

Si obietterà che non è così, perché noi vediamo sovente delle persone soccombere sotto il peso di un fardello spirituale che non sono in grado di portare; se così non fosse, le sale d’aspetto di psicologi e psicanalisti sarebbero malinconicamente vuote… Ma (a prescindere dal fatto se la psicologia e, soprattutto, la psicanalisi siano in grado di fornire un aiuto efficace al recupero dell’equilibrio interiore, cosa della quale ci sentiamo di dubitare), la spiegazione di ciò risiede sovente nel cattivo uso che molte persone fanno dei mezzi di cui dispongono, piuttosto che di una fatalità o di una “ingiustizia” cosmica.

Così come nessuno si meraviglia se un alpinista inesperto, avventurandosi su una parete di quarto o quinto grado, finisce per trovarsi in grave difficoltà, allo stesso modo non dovrebbe suscitare stupore il fatto che persone spiritualmente poco evolute vacillino sotto il peso di difficoltà esistenziali che non hanno saputo adeguatamente valutare. Sposarsi e mettere al mondo dei figli, ad es., sono azioni che - a torto - riteniamo essere alla portata di tutti, solo perché vediamo che, in pratica, più o meno tutti le compiono; mentre esse implicano il possesso di un livello minimo di equilibrio mentale e spirituale, che solo alcuni possiedono. Il risultato sono unioni infelici, incomprensioni, frustrazioni, violenze, separazioni e, quel che è peggio, gravi ripercussioni sull’equilibrio mentale e spirituale dei bambini, che nessuna colpa hanno dei problemi dei loro genitori. Tutte cose non erano affatto “inevitabili” ma che, al contrario, si sarebbero potute evitare, o almeno se ne sarebbe potuta attenuare la carica dirompente, se l’uomo e la donna si fossero uniti sulla base della loro maturità e di una raggiunta consapevolezza, invece che per mettere insieme la loro debolezza, il loro narcisismo e la loro immaturità.

In pratica, sappiamo benissimo che solo poche persone possiedono un grado di conoscenza di sé sufficiente, non diciamo ad assumersi gli impegni che la vita di coppia richiede, ma almeno ad essere consapevoli di quali essi siano e di quanto dovranno lavorare su sé stesse per raggiungerli. Resta però il fatto che una società che illude sistematicamente tutti i suoi membri, in nome di un malinteso egualitarismo e democraticismo, di essere degli esperti scalatori e di poter affrontare senz’altro montagne come l’Everest o il K2, prepara essa stessa i disastri esistenziali che abbiamo ogni giorno sotto gli occhi; e che la diffusione di una tale pratica dell’incoscienza non ci può offrire che un senso illusorio di sicurezza verso i rischi dell’esistenza.

D’altra parte, quando affermiamo che le forze di ciascuno sono sempre proporzionate al livello di difficoltà spirituale che esse devono affrontare, lo facciamo anche alla luce di una consapevolezza di ordine superiore a quella puramente razionale: ossia confidando nell’aiuto di una forza potente e benefica, superiore all’umana, che può intervenire - e di fatto interviene - per aiutare l’alpinista in difficoltà, nei passaggi più ardui della sua ascensione.

Se questa forza non vi fosse, noi potremmo fare ben poco, sia che ci riteniamo dei provetti alpinisti, sia che siamo solo dei goffi principianti nell’arte di salire verso le altezze. Ed è essa che dovremmo ringraziare, quando troviamo la forza di affrontare e superare difficoltà che, inizialmente, ci avevano scoraggiati o perfino terrorizzati: perché non noi con le nostre sole forze, ma essa ci ha ispirati, guidati, sostenuti e incoraggiati nelle fasi più critiche di quella lenta e continua ascensione che è la vita umana.

 

Punto secondo: quali sono le linee di pensiero lungo le quali si articola una filosofia della salute mentale?

Evidentemente,  quelle che aiutano la persona a riconoscere la propria natura, il proprio scopo e la propria destinazione nel viaggio della vita.

Data questa definizione, non sarà difficile - sia detto tra parentesi - rendersi conto che la gran parte delle filosofie della modernità (in particolare, quelle sviluppatesi in Occidente dopo la cosiddetta Rivoluzione scientifica e, poi, il suo corollario tecnologico, la Rivoluzione industriale), non favoriscono affatto la salute mentale, ma anzi costituiscono per essa delle gravi minacce. Infatti, nella maggior parte dei casi, esse non aiutano affatto la persona umana a riconoscersi come tale, bensì le forniscono un’immagine orribilmente deformata dell’uomo, ridotto a un fascio di nervi e di muscoli evoluti a caso, e a un fascio d’impulsi istintuali vergognosi ed incoercibili; non l’aiutano a riconoscere il proprio scopo, ma le suggeriscono l’assoluta mancanza di scopo di ogni cosa; non le indicano la destinazione nel viaggio della vita, ma proclamano con sfrontata sicumera che al termine dell’esistenza non v’ altro che il Grande Nulla.

 

Osserva giustamente una acuta (e poco conosciuta) studiosa francese di psicologia, Marie-Paule Vinay, autrice di un aureo manuale di oltre 700 pagine, la cui lettura ci sentiamo di raccomandare caldamente a chiunque non concepisca la psicologia solo come una scienza materialistica e ateistica, Igiene mentale (titolo originale: Hygiène mentale, traduzione italiana Benito Chiarabolli, Edizioni Paoline, 1973, p. 35):

 

Gli atti umani non possono essere giustamente osservati, compresi, ordinati se si ignora il fine supremo a cui sono diretti, la legge a cui sono soggetti e la natura che li pone.

 

Dunque, eccoci nella necessità di indicare positivamente quali siano le corrette linee di pensiero che presiedono a una bene intesa filosofia della salute mentale.

Innanzitutto, occorre definire cosa sia la persona umana. Per noi, la persona è un essere razionale dotato di coscienza di sé e in possesso di una propria identità. Aggiungiamo, subito dopo, che la persona non è un dato, ma un processo in continua evoluzione; e che, per potersi realizzare  pienamente, essa deve esplicare le potenzialità insite nella propria natura. La natura della persona è, come diceva san Tommaso, la sussistenza in una sostanza, ossia "un supposito di natura razionale". La natura della persona non è l'Essere, ma il partecipare all'Essere, mediante l'unione con un corpo. Lasciamo perdere, in questa sede, l'arduo problema se la realtà del corpo sia effettiva o apparente; si tratta di una distinzione speculativa: in pratica, finché la coscienza è convinta della realtà effettiva del corpo, l'anima non può configurarsi se non come la forma sostanziale del corpo (cfr. Tommaso, Summa Theologiae, I, 76, 1), e la persona umana come una sostanza sussistente ed essenza spirituale, dotata di intelletto e volontà.

Se tale è la persona, ne consegue che la sua natura sarà realizzata laddove essa esplichi pienamente le sue potenzialità spirituali, intellettive e volontaristiche; in altre parole, laddove tende a realizzare la propria essenza. Come afferma Aristotele nell'Etica Nichomachea, ogni cosa tende al bene; dunque anche l'anima umana, forma del corpo, tende al proprio bene. Il bene, infatti, è ciò verso cui ogni cosa tende.

 

Ma ogni cosa - scrive Emanuele Severino in La filosofia antica e medioevale, Milano, Rizzoli, 1996, 2004, pp. 197-98 - tende a sviluppare compiutamente la propria essenza, tende a essere compiutamente se stessa e a evitare ciò che la allontana da sé stessa, dalla propria essenza. Per l'uomo, il riuscire a essere sé steso è la "felicità". Ciò vuol dire che il 'bene' dell'uomo (ossia ciò a cui egli tende) è la felicità. Ogni altra cosa cui tende l'uomo non è voluta per sé stessa, ma per altro. La felicità è il "bene supremo", perché tutto ciò che l'uomo vuole, lo vuole per essere felice. Ma che cos'è la felicità? Per rispondere a questa domanda, è necessario conoscere l'essenza dell'uomo, ciò che rende uomo l'uomo, e l'opera che sviluppa compiutamente tale essenza. La felicità è infatti lo sviluppo compiuto di tale essenza. Non può quindi consistere nello sviluppo di un aspetto accidentale o parziale dell'uomo. Ciò a cui ogni cosa tende è innanzi tutto ciò a cui l'essenza di ogni cosa tende. Se un uomo sviluppa un suo aspetto parziale o accidentale, egli non ritrova sé stesso al termine di tale sviluppo, e quindi non è felice, anche se dichiara di esserlo.

Si tratta di comprendere che come esiste un'opera propria dell'occhio, della mano, del piede (opere cioè che sviluppano compiutamente l'essenza dell'occhio, della mano e del piede), e come vi sono opere proprie del contadino, del flautista, del calzolaio, del falegname, ecc., così è necessario ammettere che l'uomo, come uomo, non è un ente inattivo e quindi esiste un'opera che è propria dell'uomo in quanto uomo, e che dunque quest'opera non può essere il vivere o la nutrizione o la crescita (che sono comuni anche alle piate), e nemmeno può essere la sensazione , e quindi il piacere (che sono comuni anche agli animali), e nemmeno il vivere nelle ricchezze, giacché la ricchezza è mezzo e non fine, mezzo per raggiungere qualcosa d'altro, e quando la si assume come fine (qui, come altrove, Aristotele anticipa potentemente Marx) è qualcosa di contro natura.

L'opera propria dell'uomo è allora "l'attività dell'uomo secondo ragione", e propriamente "l'attività dell'anima [razionale] secondo virtù".

 

Analogamente, Aristotele sostiene che esistono numerose scienze che si occupano di altrettanti beni contingenti e parziali, ma che una sola è la scienza suprema, il cui contenuto è Dio, che muove ogni ente verso di sé. Dio è lo scopo del mondo e, in un certo senso, "comanda" al mondo di darsi un ordinamento per poter essere l'amante di Lui. Ma se Dio è ciò verso cui ogni cosa tende, allora anche l'anima umana tende a Dio; e poiché ogni cosa tende al bene e alla felicità, ciò significa che Dio è il bene supremo e la felicità dell'uomo.

Pertanto, tutti quei beni naturali che avvicinano l'uomo al suo fine, la contemplazione di Dio, sono buoni in sé stessi; mentre tutto ciò che tende a distogliere e allontanare l'uomo da Dio, non può essere che cattivo, in quanto contrario alla sua natura.

 

Queste riflessioni gettano una luce particolare sulle filosofie oggi largamente maggioritarie, prima fra tutte lo scientismo materialista, e sugli stili di vita che ne derivano. Infatti, noi non soltanto viviamo in un mondo che ha deciso di voltare le spalle a Dio, ma che, al tempo stesso, ha sviato l'uomo dalla sua vera natura, condannandolo a una crescente infelicità, a dispetto di tutti i beni contingenti che gli fa scintillare davanti.

L'uomo, in altre parole, si è condannato da sé stesso all'infelicità, perché, tradendo la sua natura e violentando la sua reale essenza, ha eretto al rango di fine i mezzi naturali dei quali dispone, e ha deificato se stesso, mortificando l'ansia metafisica che costituisce la parte essenziale della sua natura e il pegno o la caparra della sua destinazione alla felicità. Pervertendo l'ordine del mondo, l'uomo ha visto nella sua natura di essere finito un segno d'imperfezione; ha spento, o cercato di spegnere in se stesso, ogni slancio verso la trascendenza; ha dichiarato guerra a tutto ciò che sta al di là e al di sopra di lui, giudicandolo come un segno intollerabile della sua limitatezza e della sua imperfezione, come un continuo memento della sua piccolezza.

Ora, il bene desiderato dalla natura umana attraverso la sua volontà, è anche il bene che gli fa conoscere la sua ragione: e questo bene non è nell'uomo stesso(o, se lo è, lo è in misura inadeguata e inconsapevole), ma al di là dell'uomo, nella sua tensione verso l'Essere. E la libertà umana consiste precisamente nel sapere riconoscere e perseguire questo fine supremo, oppure nel voltare ad esso le spalle e nel negarlo.

Scrive ancora Marie-Paule Vinay (citando G. Caplan, An approach to community mental beath, cit. in Igiene mentale, p. 34):

 

Tale essendo la condizione della libertà umana, ad essa occorreva una protezione, una legge, cioè una regola che stabilisse quello che poteva fare e quello che non poteva fare… È infatti la ragione che prescrive alla volontà quello che deve ricercare e quello che deve sfuggire, affinché l'uomo possa un giorno raggiungere il suo fine ultimo, in vista del quale egli deve compiere ogni suo atto. È proprio questo imperativo della ragione che denominiamo legge… Così è di quella che su tutte ha la priorità, la legge naturale, scritta e impressa nel cuore di ogni uomo. Essa è la ragione stessa dell'uomo, che gli ordina di fare il bene e gli proibisce di peccare. Ma questa prescrizione della ragione umana non avrebbe forza di legge, se non fosse l'organo e l'interprete di una ragione più alta, alla quale il nostro spirito e la nostra libertà debbono obbedire. Essendo infatti suo specifico compito imporre doveri e attribuire diritti, la legge si fonda totalmente sull'autorità, cioè su un potere veramente capace di stabilire tali doveri e di definire tali diritti, capace anche di sanzionare tali ordini mediante pene e ricompense. Tutto questo non potrebbe evidentemente esistere nell'uomo, se fosse lui stesso a darsi, come legislatore supremo, la regola dei propri atti.

 

Avevamo già sostenuto, in alcuni precedenti lavori, che la persona umana, per realizzarsi veramente, deve rispondere a una chiamata; e che, per vedere con chiarezza la meta cui tendere, deve sforzarsi di elaborare una visione unificatrice del reale, in controtendenza rispetto alla cultura oggi dominante, che tende, invece, all'iperspecialismo, al riduzionismo e alla frammentazione (cfr., in particolare, Francesco Lamendola, La persona si realizza se riconosce e segue la propria vocazione; Voltar le spalle alla Grazia, il peccato d'origine della modernità; e Per essere persone e non pecore nel gregge è necessaria una visione unificatrice della vita, tutti consultabili sul sito di Arianna Editrice).

Aggiungiamo solo che la filosofia della salute mentale è, in conclusione, la chiara consapevolezza della reale natura della persona, della sua vera essenza, del fine cui è diretta; ossia la capacità di tendere all'essenziale e al sostanziale, trascurando, se necessario, tutto ciò che è accessorio e contingente.

Per fare un semplice esempio: la salute e la forza fisica sono certamente beni utili alla persona umana, non però dei fini in se stessi, ma solo in quanto mezzi per collaborare al raggiungimento del fine ultimo. Il culturista, il quale dedichi la totalità dei suoi pensieri e delle sue energie al raggiungimento di una prestanza fisica sempre più imponente, scambia il mezzo per il fine e diviene schiavo di un aspetto accessorio della natura umana (che essa ha in comune, ad esempio, con gli animali), allontanandosi dal suo fine e condannandosi alla conseguente infelicità. È in questo quadro, crediamo, che si possono leggere drammi umani, come quello di cui ci siamo recentemente occupati nell'articolo Nel dramma dimenticato di Claudia Bianchi il grido d'aiuto di una femminilità infelice (sempre sul sito di Arianna Editrice).

La persona umana non troverà mai pace, sicurezza e benessere spirituale, perseguendo i beni parziali che non possono consentirle di realizzare pienamente la propria natura e il proprio destino. La filosofia della salute mentale sarà, allora, quella mappa concettuale che potrà guidarla a riconoscere quale sia il bene autentico ch'ella oscuramente cerca, quali le situazioni e le abitudini da evitare, quali i mezzi idonei a raggiungerlo.

Sarà anche una disciplina capace di risvegliare in lui poderose energie latenti, accendendogli in cuore la nostalgia delle vette (cfr. il precedente articolo Diventare maestri di se stessi imparando, ogni giorno, da tutto e da tutti). E poi… su le maniche, e buona fortuna.