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Ultime notizie dal mondo

di redazionale - 21/04/2008


a)      Italia. La dipendenza dell’Italia per le guerre di Washington nel Base Structure Report del Pentagono (31 marzo). Sul Dal Molin (base USA progettata a Vicenza) appalti sinistri (29 marzo).

 

b)     Libano. Quella strana alleanza fra salafiti e Washington contro Hezbollah. Parla lo sceicco Omar Bakri (28 marzo). Un sondaggio sulla percezione del futuro d’Israele da parte dei libanesi (23 marzo). Ennesime violazioni israeliane impunite (Israele / Libano 18 marzo). Per altro sul Libano, cfr. Siria (27 e 29 marzo).

 

c)      USA. L’Unione Europea sarà «integrata» nella NATO in funzione delle strategie imperiali statunitensi (USA / Unione Europea. 17 marzo). Su Obama il parere di alcuni economisti (29 marzo). Alla BBC, Bush dichiara: «Approvai io le torture» (13 aprile). L’arroganza induce ad arroganza e violenza (cfr. Giappone 24 marzo). Annullata la sentenza contro l’ex Pantera Nera Mumia Abu-Jamal, da 26 anni nel braccio della morte. Restano però le incognite (28 marzo). L’Iran sempre nel mirino di Washington, più di al Qaeda (USA / Iran. 13 aprile e Iran 28 aprile). Continua inarrestabile la corsa del prezzo del petrolio (23 marzo). Sui rapporti con Israele cfr 24 marzo e Israele / USA 15 aprile. Sull’Iraq, vedere USA al 9, 11 e 12 aprile. Sui rapporti con Parigi (Francia / USA al 27 marzo). Per gli oltranzisti dell’info-mondo, vedere anche al 17 marzo e all’1, 12, 14 aprile.

Sparse ma significative:

Belgio. «Giustificare la guerra in nome dei diritti umani è la nuova ideologia imperialista». Lo sostiene il fisico belga Jean Bricmont, scienziato della politica e professore all’Università di Lovanio, autore del saggio “Imperialismo umanitario” (11 aprile).

 

  • Euskal Herria. Nei Paesi Baschi «c’è una vera e propria apartheid politica: in Europa dopo la Turchia, la Spagna è il paese che commette più violazioni dei diritti umani». Così Julen Arzuaga, avvocato basco, portavoce di “Behatokia” (12 aprile).

 

  • Vaticano / Salvador. Il Vaticano fa i conti (28 anni dopo il suo assassinio) con la scomoda figura di mons. Romero (28 marzo).

 

  • Nepal. Vittoria elettorale e prossimo avvento al governo dei maoisti (15 aprile).

 

 

Tra l’altro:

 

Gran Bretagna (15 marzo).

Turchia / Kurdistan (18 e 31 marzo).

Perù / Colombia (20 marzo).

Bulgaria (21 marzo).

Irlanda del Nord (24 marzo).

Eire (7 aprile).

Palestina (24, 30 marzo e 13 aprile).

Serbia (25 marzo e 11 aprile).

Israele (27 marzo e 12 aprile).

Iraq (29 marzo e 15 aprile).

Cina / Tibet (15 aprile).

Russia (29, 31 marzo e 15 aprile).

Corsica (11 aprile).

Venezuela (3 aprile).

Ecuador (2, 7 aprile).

Bolivia (31 marzo e 8 aprile).

Somalia (31 marzo).

Messico (30 marzo e 15 aprile).

Iran (9, 15 aprile).

Pakistan / Cina (15 aprile).

 

 

  • Gran Bretagna. 15 marzo. Niente referendum sul Trattato Europeo. Sarà il parlamento a ratificare il trattato di Lisbona. La camera bassa britannica ha bocciato lo scorso 6 marzo la proposta dei conservatori con 311 no contro 248 sì. I Tories volevano sottoporre a consultazione popolare il Trattato Europeo firmato a dicembre. Gordon Brown, primo ministro della Gran Bretagna, ha difeso la sua posizione di fronte ai deputati: «Se fosse un trattato costituzionale faremmo un referendum. Se si trattasse di votare sull’euro, sarebbe la stessa cosa. Ma il concetto di costituzione è stato abbandonato». Dura la risposta dei conservatori. «La verità è che abbiamo promesso un referendum (...) Lasci che le chieda: se facessimo il referendum, lei pensa che lo vincerebbe?», ha detto il leader Tory, David Cameron. Tutti i Paesi europei tranne l’Irlanda si avviano a ratificare il Trattato per via parlamentare.

 

  • USA / Unione Europea. 17 marzo. L’Unione Europea sarà «integrata» nella NATO per ottimizzare le spese militari in funzione delle strategie imperiali USA. È il concetto che si ricava da un discorso del segretario generale della NATO, De Hoop Scheffer, pronunciato al German Marshall Fund di Bruxelles. «Sono convinto che prendere sul serio la riforma della NATO significa cercare maggiori sinergie con l’Unione Europea», ha dichiarato l’olandese, «voglio vedere molta messa in comune delle nostre capacità, specialmente in aree come trasporti ed elicotteri, ricerca e sviluppo, armonizzazione e addestramento (…) è assolutamente essenziale che la totalità delle capacità che siamo capaci di generare da questo bacino di forze siano egualmente a disposizione della NATO e della UE». Il progetto sarebbe parte di una riforma della NATO o, per dirla con De Hoop Scheffer, dell’elaborazione di un «nuovo Concetto Strategico» da avviare a partire dal prossimo vertice nel 2009, data del «60° anniversario della NATO. Gli anniversari nella NATO non celebrano solo le passate realizzazioni; anzitutto e più di tutto, riguardano il futuro. Con un nuovo presidente USA in carica, un nuovo atteggiamento francese verso la NATO, e una nuova dinamica nel processo di integrazione europea, penso che il nostro vertice 2009 produrrà un breve ma incisivo documento che riaffermi i duraturi fondamenti della cooperazione transatlantica nella sicurezza, e delinei i parametri basilari del nuovo Concetto Strategico. In mancanza di un termine migliore, chiamerò questo documento Carta Atlantica».

 

  • USA / Unione Europea. 17 marzo. L’integrazione dell’Unione Europea in un’”alleanza” militare come la NATO, sempre più usata come forza di aggressione in ogni parte del mondo, è un evento certamente ad un tempo significativo ed inquietante. Tra l’altro la discussione sul nuovo concetto strategico NATO va di pari passo con l’approvazione in sordina, nell’assordante silenzio dei media e senza prevedere la consultazione della volontà popolare, del nuovo Trattato UE di Lisbona. Il nuovo Trattato, in realtà la riproposizione sotto altre vesti della cosiddetta “Costituzione Europea” bocciata nel 2005 dai popoli francese ed olandese, tra le altre cose prevede che la politica di difesa degli Stati membri dev’essere compatibile con quella della NATO. Un documento recentemente circolato tra gli ambienti neo-conservatori “transatlantici”, intitolato “Verso una grande strategia per un mondo nell’incertezza” e presumibilmente tra gli argomenti principali di dibattito al prossimo incontro dell’Alleanza a Bucarest, caldeggia l’approvazione della strategia del primo colpo nucleare. In uno scenario geopolitico caratterizzato dall’invadenza aggressiva di Washington, in ultima istanza volta a fronteggiare l’espansionismo dei rivali Russia e Cina, l’Unione Europea si presenta sempre più come «cortile di casa» degli USA, con gli Stati membri chiamati a rispettare ed eseguire le direttive strategiche USA.

 

  • USA. 17 marzo. L’attuale crisi finanziaria negli Stati Uniti verrà probabilmente giudicata come la più grave dalla fine della seconda guerra mondiale. Parola di Alan Greenspan, ex presidente della Fed (la Federal Reserve, la Banca centrale degli USA) dal 1987 al 2006, autore di un editoriale sul Financial Times.

  • Israele / Libano. 18 marzo. Una corvetta israeliana è entrata ieri nell’area Unifil «senza rispettare le procedure e violando le acque territoriali libanesi». L’Unifil sta indagando sull’incidente ed ha già contattato l’esercito israeliano. Intorno alle 7:30 di lunedì la corvetta è stata individuata dalla nave italiana “Bettica”. Per il comando, dopo le ripetute violazioni israeliane dello spazio aereo libanese, questo episodio è «una continuazione delle violazioni della risoluzione 1701» dell’ONU.

 

  • Turchia / Kurdistan. 18 marzo. PKK rilancia: deporremo le armi se Ankara opta per il dialogo e non per la repressione. La direzione del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) ha rilanciato la proposta con un comunicato. «La questione kurda è un problema sociale che può risolversi unicamente attraverso l’attuazione di progetti politici, non con l’uso della forza». Il PKK lotta da quasi 25 anni per l’indipendenza del Kurdistan.

 

  • Perù / Colombia. 20 marzo. Le proteste sociali sono «ispirate dalle FARC». Il presidente peruviano Alan García gioca questa carta per screditare i movimenti di protesta, e nella fattispecie lo sciopero di 48 ore contro il provvedimento che apre la strada alla privatizzazione dell’Amazzonia, sciopero conclusosi con il ferimento di sette persone. Per sostanziare la regìa delle FARC (Forze Armate Rivoluzionarie di Colombia) dietro le manifestazioni, l’annuncio ieri dell’arresto a Iquitos di due presunti membri delle FARC, Johnny Cárdenas (alias Oliver o Tanaka) e Dayvis Vivas. I due, dicono le autorità, sarebbero giunti in Perù per «aizzare la popolazione» e «destabilizzare il paese». I collegamenti con le FARC, dunque, insieme all’influenza di Hugo Chávez, spiegherebbero la crescente opposizione dei movimenti sociali alla politica neoliberista del governo. E così García sta giustificando l’escalation repressiva.

 

  • Bulgaria. 21 marzo. Sofia ratifica il Trattato di Lisbona. I deputati del parlamento bulgaro votano a larga maggioranza a favore del nuovo Trattato Europeo, che dovrebbe entrare in vigore il 1 gennaio 2009. La Bulgaria è il sesto Paese dell’Unione Europea dopo Ungheria, Malta, Romania, Slovenia e Francia ad aver ratificato il Trattato di Lisbona, che ripropone nella sostanza quella “Costituzione Europea” bocciata da Francia e Olanda nei referendum del 2005.

 

  • Libano. 23 marzo. I libanesi ritengono che lo Stato d’Israele si estinguerà. È l’esito di un sondaggio effettuato in Libano, riportato dal segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah: «Più del 94% di sciiti, 90% di sunniti, 77% di cristiani e 66% di drusi sono convinti che questo regime sarà spazzato via». Nasrallah, celebrando a Beirut il 40° giorno dal martirio del comandante Imad Mugniyeh, avvenuto lo scorso 12 febbraio a Damasco per mano di agenti del Mossad, rivolgendosi in collegamento video a decine di migliaia di persone convenute a Dahiya (sud di Beirut) ha affermato che «Mughniyah è ancora fra noi, il suo spirito non ci ha lasciati. Siamo determinati a proseguire sulla sua via». Nasrallah denuncia inoltre un’infiltrazione senza precedenti dei sionisti e degli USA nei mass-media: «vogliono minare la coscienza della nostra nazione. Vogliono che il risultato finale sia la nostra resa. Usano i loro metodi violenti per cercare di convincerci che siamo deboli e inermi. Vogliono farci credere che non abbiano alcuna speranza di vincere. La macchina propagandistica sionista e americana è all’opera da sessant’anni per ingigantire le vittorie dell’esercito israeliano». Ricordando il ritiro unilaterale dell’esercito sionista dal sud del Libano nel maggio 2000, Nasrallah l’ha definita una «enorme vittoria» della resistenza. «C’è una vittoria politico-militare che si chiama ritiro dell’esercito occupante dal Libano meridionale, che fu anche una vittoria ideologica per la conquista delle coscienze» ha detto. Nel suo discorso il leader di Hezballah ha annunciato che i negoziati mediati dalle Nazioni Unite con Israele per uno scambio di prigionieri continueranno nonostante l’assassinio di Imad Mughniyah. «Anche se Israele ha ucciso il pilastro della resistenza, non fermeremo i negoziati per lo scambio di prigionieri», ha dichiarato. «Non li fermeremo per realizzare uno dei desideri del martire Imad Mughniyah, e cioè vedere i prigionieri liberi tra i loro parenti e tra le persone amate», ha detto. Nasrallah ha però giurato di vendicare la morte del comandante Mughniyeh. «Chi ha ucciso il nostro comandante deve essere punito. I killer devono essere puniti e lo saranno con la volontà di Dio», ha dichiarato Nasrallah per poi aggiungere: «Sceglieremo i tempi, il luoghi e il modo di punirlo».

 

  • USA. 23 marzo. Continua inarrestabile la corsa del prezzo del petrolio, arrivato ad oltre i 100 dollari. Contrariamente a quanto si pensa, l’aumento del prezzo del greggio, oltre ad influenzare negativamente l’economia dei paesi industrializzati, produce conseguenze anche sui paesi produttori di petrolio, sovente privi sia di infrastrutture e tecnologie occorrenti per la raffinazione, sia di industrie all’avanguardia, pertanto costretti ad importare derivati del greggio e prodotti industriali ad un costo che aumenta più del tasso di incremento del prezzo del greggio. A chi conviene allora una crescita di tale portata del prezzo del barile? E come ci riesce? C’è a tal proposito chi mette in luce il ruolo nefasto degli Stati Uniti. Al di là dei deficit pubblico e della bilancia dei pagamenti, con effetti sul dollaro in forte svalutazione e quindi sul prezzo del petrolio stesso (con cui vengono pagate le forniture petrolifere), alcuni analisti rilevano che le politiche statunitensi in Medioriente e nell’area del Golfo Persico creano costantemente insicurezza nei pressi delle zone dove viene prodotto il grosso del petrolio mondiale, e ciò non può che elevarne il prezzo, per l’aumento del rischio degli investimenti, delle polizze di sicurezza, delle spese per l’estrazione, eccetera. Elemento forse ancor più decisivo è però il comportamento della finanza, in un contesto che vede i prezzi delle materie prime salire alle stelle anche per consentire a questi istituti di ripianare le perdite subite con i cosiddetti “mutui subprime”. Anche un economista come Giacomo Vaciago ha ad esempio spiegato che «la quotazione del dollaro avvantaggia la speculazione. Si tratta di un meccanismo molto semplice: fai debiti in dollari e compra petrolio. I tassi scendono, i debiti si fanno in dollari e più ne fai e meno costano, perché scende il dollaro e paghi di meno. C’è un effetto subprime sul dollaro, a tutto vantaggio di chi compra petrolio e fa i soldi: la speculazione vince, perché non può perdere».

 

  • USA. 23 marzo. Il prezzo del petrolio viene poi in prevalenza determinato sulle borse di New York e Londra, dove gli speculatori della grande finanza giocano sul relativo prezzo attraverso contratti a termine. Addirittura alcuni rilevano che sulle piazze finanziarie internazionali circolano contratti di opzione e futures su greggio e derivati petroliferi che scommettono su una quotazione fino a 200 dollari al barile. Tali somme per l’acquisto e vendita a termine di petrolio sono ben più elevati delle reali consegne di oro nero, ed una risorsa così strategica viene lasciata in balia della speculazione finanziaria. Il resto, vale a dire le varie voci che si susseguono per giusiticare tali impennate (aumento della domanda cinese ed altro), sono semplici scuse. Alberto Clò, dell’Università di Bologna e presidente del centro studi RIE, rileva che la situazione di oggi è relativamente migliore di quella di un anno fa, quando il barile era a 50-55 dollari. «La domanda cresce meno di quanto si attendeva ed è aumentata la capacità produttiva. I fondamentali reali, quindi, sono relativamente migliori, anche se di poco», sottolineando che è dunque «la componente finanziaria a spingere le quotazioni ed essa rispetta logiche completamente diverse. Il petrolio è diventato l’investimento più redditizio e rende di più che gli investimenti sulle obbligazioni o sulle divise. A ciò si deve aggiungere la perdita di valore del dollaro che accentua la pressione della componente finanziaria». Per Clò è necessario quindi prestare «più attenzione ai derivati petroliferi, visto che anche le autorità americane parlano di scarsa trasparenza in questo settore e di facili manipolazioni. Andando nella direzione di una maggiore sorveglianza su questi elementi si potrebbe ottenere di più anche grazie ad una maggiore concertazione tra le autorità europee e americane sul fronte della sorveglianza e di una regolamentazione più severa». Quanto alle previsioni sul futuro prezzo del petrolio, l’economista ritiene che «il barile potrebbe anche scendere nelle prossime settimane perché guadagna nuove soglie di prezzo e poi cala quando gli speculatori incassano i loro dividendi. Dopo di che può tornare a salire».

 

  • Irlanda del Nord. 24 marzo. Adams reclama una strategia congiunta per l’unità d’Irlanda. La celebrazione del 92° anniversario della rivolta di Pasqua (1916), che aprì le porte all’indipendenza del sud dell’isola, ha visto nella celebrazione governativa, insieme al primo ministro Bertie Ahern e alla presidentessa d’Irlanda Mary McAleese, anche il viceprimo ministro nordirlandese, il repubblicano Martin McGuinness. Nella commemorazione del Sinn Féin, nel corso della quale le bandiere irlandesi si sono mescolate con quelle basche, il presidente del Sinn Féin, Gerry Adams, ha salutato in gaelico i cittadini baschi presenti ed ha augurato loro un «felice Aberri Eguna [festa nazionale basca, ndr]». Durante la celebrazione, la musica rivendicativa repubblicana e la sfilata di sbandieratori del partito si sono alternati alla lettura di testi storici e a quello inviato dall’IRA (Esercito Repubblicano Irlandese) che ha speso parole di apprezzamento per il ruolo che i «volontari» dell’organizzazione hanno giocato nella «nuova fase della lotta» aperta con il disarmo, una prova che «in unità e fratellanza possiamo avanzare nella lotta». Adams ha quindi dichiarato che, al referendum del prossimo giugno, il Sinn Féin chiederà il voto contrario sul Trattato di Lisbona perché «non si deve accettare un cattivo accordo per l’Irlanda».

 

  • Palestina. 24 marzo. Hamas ed al Fatah firmano in Yemen un principio di accordo di riconciliazione. L’impegno è a «riannodare il dialogo tra i due movimenti per arrivare ad una situazione analoga a quella che precedette gli incidenti di Gaza». Il testo, ribattezzato come la “Dichiarazione di Sanaa”, riafferma «l’unità del popolo palestinese». Sabato, il presidente yemenita Ali Abdullah Saleh si è impegnato personalmente a che le negoziazioni, giunte al limite del collasso, continuassero. Ieri Azzam al Ahmed, rappresentante di al Fatah, e Mousa Abu Marzouk, responsabile della delegazione negoziatrice di Hamas, hanno sottoscritto un accordo che riprende le basi degli accordi di El Cairo (2005) e della Mecca (2007), la convocazione di elezioni anticipate, la formazione di un altro governo di unità, la riforma delle forze di sicurezza e che tutte le istituzioni palestinesi siano sottoposte alla legge e alle autorità esecutive, e libere da qualunque tipo di discriminazione. Un accordo che gli stessi firmatari hanno però definito «fragile», per le «difficoltà» che può incontrare al di là delle relazioni interpalestinesi.

 

  • Giappone. 24 marzo. Migliaia di persone ieri in piazza a Chatan, nel sud di Okinawa, per denunciare i «crimini» dei militari statunitensi compiuti nell’isola ed esigere la loro uscita dall’isola. Il coinvolgimento di marines in omicidi o atti criminosi è cresciuto significativamente negli ultimi mesi. Lo stupro di una quattordicenne è stato all’origine dell’attuale ondata di proteste, che ha visto la partecipazione anche delle autorità, come la sindaca della città, Mitsuko Tomon. I manifestanti hanno ieri presentato una risoluzione nella quale chiedono la revisione del patto sullo status dei quasi 50mila militari statunitensi dislocati in Giappone. Tra i punti principali l’ampliamento dei margini di attuazione delle autorità giudiziarie nipponiche e la riduzione della presenza militare USA. «Voi pensate che, poiché l’esercito USA ha versato del sangue per impadronirsi di Okinawa durante la Seconda guerra mondiale, il luogo vi appartiene e voi potete farci tutto quel che volete, vero? Ma qualunque siano i paesi o i governi che abbiano vinto o perso qualsiasi guerra, noi abbiamo la nostra dignità, il nostro onore e la nostra libertà, queste sono le nostre isole, il nostro paese, il nostro cielo, il nostro mare. È qui che noi manteniamo la catena della vita, facendo nascere dei bambini e allevandoli perché diventino adulti. Questo sono le donne di Okinawa. E di questo siamo fiere. Non vi permetteremo più di continuare a insultare la fierezza, l’onore, la dignità nostra, delle nostre madri, delle nostre sorelle e delle nostre figlie. Tornate in America. Subito». Questo uno stralcio della lettera aperta delle donne di Okinawa. Poche ore prima della manifestazione quattro marines, di stanza a Hiroshima, aggredivano sessualmente una giapponese.

 

  • USA / Israele. 24 marzo. «L’incrollabile sostegno» degli Stati Uniti ad Israele è stato ribadito ieri dal vicepresidente statunitense Dick Cheney, in visita a Ramallah. Hamas ha denunciato queste dichiarazioni giudicandole «indignanti e continuazione del grande olocausto contro Gaza».

 

  • Serbia. 25 marzo. Belgrado pone all’ONU il suo piano di spartizione del Kosovo. La Serbia ha proposto una divisione amministrativa del Kosovo secondo criteri etnici che sottrarrebbero le enclave serbe alle autorità del nuovo Stato kosovaro, che ha ufficializzato il suo distacco il 17 febrbaio scorso. Belgrado, secondo quanto riferisce la stampa belgradese, rivendica –per le autorità locali serbe– le competenze di polizia e dei tribunali nonché il 15% del Kosovo in cui i serbi sono maggioranza. La proposta serba «di divisione funzionale tra serbi e albanesi» prevede che i poliziotti serbi agiscano sotto mandato dell’UNMIK (la missione ONU in Kosovo) e rispondano davanti alle proprie autorità locali ed anche che la popolazione serba abbia i suoi diritti davanti ai tribunali locali. Secondo il documento, l’UNMIK e Belgrado saranno responsabili del commercio e del transito libero tra Serbia e Kosovo ed i serbi kosovari avranno il diritto a «stabilire la propria autorità doganale» se «una terza parte impone barriere». La proposta è stata consegnata la settimana scorsa all’UNMIK dal ministro serbo per il Kosovo, Slobodan Samardzic. La sede dell’UNMIK a Pristina non ha commentato la proposta e ha chiesto più precisazioni a Belgrado. Intanto, la maggioranza dei serbi che lavoravano nelle istituzioni kosovare hanno abbandonato i loro posti di lavoro come forma di protesta.

 

  • Francia / USA. 27 marzo. Ieri, a Londra, Nicolas Sarkozy, nel discorso alla Camera dei comuni (presenti anche i lord), ha lanciato la politica della «nuova fratellanza» tra Parigi e Londra. La Francia –ha detto– ha deciso di rispondere positivamente alla richiesta di USA, Gran Bretagna e Canada di una più consistente presenza in Afghanistan. In concreto, ci saranno mille soldati francesi in più in Afghanistan, che andranno a rafforzare la presenza militare francese di 1500 uomini. In totale, nel 2009 la presenza francese in Afghanistan sarà di 5 mila uomini, quando la portaerei “Charles De Gaulle” sarà di nuovo operativa. Visto che l’«entente cordiale» con la Gran Bretagna, trasformata ora in «fratellanza», è soprattutto militare, Sarkozy ha approfittato della visita per confermare che la Francia tornerà nelle strutture militari della NATO, dove Parigi vuole «riprendere interamente il suo posto». La «nuova fratellanza» franco-britannica, per Sarkozy, verte anche su un’intesa sul nucleare. In effetti, il rilancio del programma nucleare britannico apre delle prospettive all’industria francese, con Areva, Edf, Alstom. Il progetto è di costruire nuove centrali nucleari in Gran Bretagna e poi esportare la tecnologia nel mondo intero (cosa che del resto Sarkozy fa ad ogni viaggio ufficiale, dalla Libia alla Cina)

 

  • Siria. 27 marzo. Il primo ministro libanese Fouad Siniora boicotta il vertice della Lega Araba in programma a Damasco. Ad annunciarlo è Marwan Ahmade, ministro libanese per le Telecomunicazioni, il quale ha spiegato che il premier terrà un discorso poco prima o in contemporanea al Summit del prossimo 29 e 30 marzo. Il discorso, ha spiegato, «lascerà il segno più di quanto possa fare il vertice», perché denuncerà il ruolo avuto dalla Siria nella crisi che coinvolge il paese. Già prima della defezione di Siniora, Egitto e Arabia Saudita avevano preso le distanze dal summit, comunicando che avrebbero mandato a Damasco solo un ambasciatore. Immediata la reazione del ministro degli Esteri siriano, Walid al-Muallam, secondo cui «il Libano ha perso un’occasione d’oro per risolvere la sua crisi politico–istituzionale decidendo di boicottare il vertice di Damasco».

 

  • Siria. 27 marzo. La 20ª riunione dei vertici dei paesi arabi si incentrerà sostanzialmente su tre punti: la crisi istituzionale in Libano, la proposta yemenita di dialogo tra palestinesi e il problema del milione e mezzo di rifugiati iracheni presenti in Siria e Giordania. Damasco negli ultimi mesi ha fatto sforzi ben visibili per attirare la massima partecipazione dei leader arabi alla riunione, anche invitando come osservatore la Repubblica islamica dell’Iran. Ma in uno scenario mediorientale dove gli USA assicurano la più totale impunità alle stragi israeliane di civili palestinesi, sostengono il delegittimato governo Siniora e proseguono l’occupazione dell’Iraq, buona parte del mondo arabo si accoda alle direttive di Washington. Dimostrazione di questo fatto, il rifiuto espresso dal Libano di Fuad Siniora (che ha perso la maggioranza da mesi ed ha insistito nel mantenere il potere tenendo in scacco il paese) di partecipare al vertice, ciò quando il Libano era uno dei temi principali di dibattimento. Arabia Saudita ed Egitto hanno poi deciso di abbassare, come mai accaduto prima, il livello della loro rappresentanza al vertice arabo di Damasco, con il re saudita Abdallah e il presidente egiziano Mubarak sostituiti rispettivamente dal delegato saudita presso la Lega Araba e dal ministro di stato egiziano per gli Affari Parlamentari. Vanno poi rilevate le divisioni sui temi del summit. Oltre al Libano, anche la questione dell’accordo siglato in Yemen tra Hamas e Fatah divide i convitati. L’accordo, poche ore dopo la firma, è stato praticamente sconfessato dal presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, Abu Mazen. Il presidente yemenita Saleh, con l’appoggio dei sauditi, aveva investito molto nella mediazione e la sua irritazione, come quella dell’Arabia Saudita, per il dietrofront di Mazen è palpabile. Sulla questione dei rifugiati iracheni, Giordania e Siria, che hanno pagato praticamente da sole il peso di milioni di sfollati, chiederanno agli altri Stati arabi di farsi carico economicamente della tragedia irachena: ma un’insuccesso è dato per scontato.

 

  • Israele. 27 marzo. «Un giornalista boicottato dal potere è un buon giornalista. E la decisione dei vertici israeliani di boicottare l’emittente satellitare araba costituisce in realtà un punto d’onore per i giornalisti di Al Jazira, che evidentemente rispondono solo all’opinione pubblica e non a quella dei portavoce del governo israeliano o alle lobby di potere». La difesa dell’emittente del Qatar, accusata dal governo di Tel Aviv di essere «schierata a favore dei palestinesi e filo-Hamas», è firmata da giornalisti israeliani come Avi Weinberg, segretario generale del sindacato dei giornalisti israeliani, in un editoriale pubblicato nei giorni scorsi dal quotidiano Yaediot Aharonot. «Come accaduto in passato per l’inglese BBC», sostiene Weinberg, «la televisione del Qatar è ora nel mirino dei responsabili israeliani per i servizi sull’elevato numero di bambini palestinesi massacrati nei raid sulla Striscia di Gaza».

 

  • Vaticano / Salvador. 28 marzo. Il Vaticano dopo 28 anni riabilita mons. Romero, un vescovo scomodo. Il 24 marzo 1980 il vescovo del Salvador fu assassinato dalle squadre della morte sull’altare della catterale di San Salvador. Da allora, tombale il silenzio del Vaticano. Romero fu uno dei tanti preti assassinati, nei 12 anni di guerra civile, dall’esercito salvadoregno (addestrato negli USA di Reagan) e dagli squadroni della morte del maggiore Roberto D’Aubuisson (finanziati dagli USA), l’uomo che ordinò e forse eseguì la condanna a morte del «vescovo dei poveri» (nato da una famiglia dell’oligarchia terriera salvadoregna, e quindi due volte traditore). Ieri, a pochi giorni dall’anniversario dell’uccisione di Romero, il 24 marzo, con due articoli l’Osservatore romano, per la prima volta in 28 anni, ha fatto l’audace passo. “Oscar Romero, un vescovo fedele al suo popolo”, a firma del vescovo di Terni, Vincenzo Paglia, che è anche il postulatore della causa di beatificazione e “La vicinanza di Paolo VI e papa Wojtyla” di Carlo Di Cicco, vicedirettore del giornale vaticano. Romero, un mese prima di essere ucciso, disse: «Quando una dittatura attenta gravemente ai diritti umani e al bene comune della nazione, e si chiudono i canali di dialogo, di comprensione, di razionalità... allora la Chiesa parla di legittimo diritto alla violenza insurrezionale» (parole riportate nel libro uscito da poco, di Claudia Fanti, dedicato al Salvador di monsignor Romero). Diceva un altro monsignore accusato di essere «comunista», il brasiliano don Helder Camara: se dò da mangiare a un affamato, mi dicono che sono santo, se gli spiego perché non ha da mangiare, mi dicono che sono comunista. Sull’Osservatore romano anche un terzo articolo firmato da monsignor Luigi Bettazzi, non direttamente dedicato a Romero ma a Marianela Garcia-Villas, «l’avvocata dei poveri» amica di Romero, una cattolica anche lei della «buona borghesia» salvadoregna, presa, torturata, violentata e assassinata dai militari il 13 marzo 1983. Romero, scrive il vescovo emerito di Ivrea, «evangelicamente condannava ogni violenza, anche se riconosceva che non poteva mettere sullo stesso piano la violenza di chi voleva in tal modo approfondire e perpetuare la propria condizione di privilegio economico e politico, nello sfruttamento legalizzato delle grandi masse popolari, e la violenza di chi, esasperato e sfiduciato da una situazione di violenza strutturale che opprime insopportabilmente la stragrande maggioranza della popolazione, non vede altra strada d’uscita che quella di una momentanea, inevitabile violenza rivoluzionaria...».

 

  • Libano. 28 marzo. Quella strana alleanza fra salafiti e Washington. Su il Manifesto, Michele Giorgio stende il suo reportage da Abu Samra, il quartiere di Tripoli, roccaforte salafita dello sceicco Omar Bakri: seguace di al Qaeda, alleato del premier Hariri e quindi degli USA. In nome del radicalismo sunnita contro il nemico numero uno, gli Hezbollah sciiti. «Volete saperla una cosa? In Libano uno Stato islamico non si farà mai». Così dice lo sceicco Omar Bakri. «Qui sono tutti collaborazionisti, lavorano per il mukhabarat (servizi di sicurezza, ndr), amano il cibo buono, i ristoranti in riva al mare. I veri qaedisti qui non metteranno mai piede perché dopo un paio d’ore verrebbero arrestati». Prosegue Bakri: «I servizi segreti, non solo quelli libanesi, manovrano tutto e tutti in questa terra e se uno elogia Osama bin Laden finisce subito in prigione, tanti giovani sono stati arrestati». Ma se i servizi non esitano ad arrestare i sospetti qaedisti, come si spiega l’ampia libertà di parola e di movimento che viene lasciata proprio a Bakri, che pure è un aperto sostenitore di bin Laden, predica con passione contro gli Stati Uniti e figura sulla lista nera dei servizi segreti della Gran Bretagna (dove ha vissuto per oltre 20 anni)? La risposta sta in quella «zona salafita autonoma» che si consolida giorno dopo giorno ad Abu Samra, all’ombra dei poster giganteschi del leader della maggioranza filo USA e antisiriana Saad Hariri, figlio dell’ex premier assassinato Rafiq Hariri, nonché capo del partito Mustaqbal (Futuro). Un territorio che ospita gli islamisti più radicali del Libano ma che hanno abbandonato la retorica anti-USA per abbracciare, sotto la guida di Saad Hariri, la causa della lotta all’Islam sciita, a Hezbollah e all’Iran. A Tripoli regna ora una calma insolita, frutto evidente di una intesa tra potere politico e i salafiti che da un lato afferma l’inviolabilità delle forze armate (sempre più equipaggiate e armate dagli USA) e dall’altro sancisce che i sunniti libanesi, laici o religiosi, devono puntare i loro sforzi contro gli sciiti e il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah. Il partito di Hariri è impegnato a registrare oscure società di sicurezza privata che assomigliano sempre più ad una milizia sunnita armata con oltre 2mila affiliati che presto, secondo Fidaa Itani, solo nel nord del Libano arriverà a toccare quota 14mila. Una di queste società è la al-Afwaj. «I suoi membri sono venuti anche da noi», conferma lo sceicco Omar Bakri, «sono molto attivi e cercano di attirare quante più persone qui a Tripoli e in altre città». Nel frattempo gli islamisti sunniti non apertamente schierati contro «il nemico sciita» vengono messi fuori gioco. Fathi Yakan, leader storico di una corrente locale della Fratellanza islamica e sostenitore del fronte “8 marzo” guidato da Hezbollah, è stato espulso dal Gruppo Islamico, l’ombrello di varie organizzazioni musulmane.

 

  • Libano. 28 marzo. Il salafismo, che è solo sunnita, si basa sul principio che i Salaf –i primi leader dell’Islam– rappresentino la voce originale che i fedeli devono tornare ad ascoltare. Il suo concetto fondamentale è la distinzione tra i valori originari da accettare e l’innovazione (qualificata come «shirk», politeismo) rispetto ai tempi di Maometto che è da respingere, così come le culture estranee, anche in modo violento. Sono due le forme di salafismo: quello riformista tra la fine dell’’800 e inizi ‘900 guidato da teologi come Mohammed Abdo e Jamal al Din al Afghani, volto a ricostruire il pensiero islamico e che ha dato origine tra gli altri alla Società dei Fratelli musulmani, e quello wahabita che oggi domina in Arabia Saudita. Dal salafimo riformista, negli anni Sessanta, sotto la spinta anche dell’egiziano Sayyed Qutub, è nata la corrente estremista del «Takfir» (quando si dichiara una persona o una intera società «non credente»). La fusione della visione radicale-violenta dell’egiziano Ayman Zawahry e di quella del wahabita saudita Osama bin Laden ha partorito l’alleanza ideologico-militare rappresentata da al Qaeda. In Libano, tenuti sotto stretto controllo per 30 anni dai servizi segreti siriani, i salafiti, dopo il ritiro delle truppe di Damasco nel 2005, hanno ritrovato ampia libertà di movimento. A causa anche del sistema settario e confessionale ora concentrano la loro azione in particolare contro lo sciismo (non riconosciuto come propriamente islamico) di cui è principale rappresentante il segretario di Hezbollah, Hassan Nasrallah. Un altro tra i principali leader salafita libanese, lo sceicco Daii al-Islam al Shahhal di Tripoli, sempre a il Manifesto, rilancia: «La questione sciita (in Libano, ndr) è un problema che riteniamo ben più grave delle interferenze e progetti USA. Con ciò non voglio dire che i sunniti libanesi debbano accettare l’influenza degli Stati Uniti ma rendersi conto che è meno pericolosa di quella degli sciiti e riconoscere di aver trovato in Saad Hariri il loro protettore. Il pericolo USA è più generale mentre l’attacco degli sciiti è diretto». Questi attacchi «prima di tutto vengono dalle loro basi teologiche che possono danneggiare la nazione islamica. Subito dopo dall’appoggio che siriani e iraniani offrono agli sciiti ed Hezbollah nel sud del Libano negli attacchi contro Israele».

 

  • Iran / USA / Iraq. 28 marzo. Teheran considera un atto aggressivo l’addestramento e la costituzione di una milizia armata sunnita irachena (circa 90mila uomini)voluta dal generale statunitense Petraeus e la costituzione di un’agenzia di intelligence irachena sotto controllo sunnita «alternativa» a quella sotto il controllo del governo sciita. I leader sciiti che sostengono il governo, come il filo-iraniano Abdul Aziz al Hakim, hanno protestato per la moltiplicazione di forze armate fuori dal controllo del governo. Selig Harrison, direttore degli studi asiatici al Center for International Policy, faceva notare giorni fa che agli occhi iraniani, mentre gli USA sostengono il premier (sciita) al Maliki, lo circondano di forze ostili (International Herald Tribune, 20 marzo). Per Harrison, l’Iran sta mandando un messaggio chiaro: potrebbe smettere di collaborare a stabilizzare l’Iraq.

 

  • USA. 28 marzo. Annullata la sentenza contro Mumia Abu-Jamal. La corte federale d’appello di Filadelfia ha detto no alla pena capitale per l’ex Pantera Nera, da 26 anni nel braccio della morte. Il tribunale non ha però accolto la richiesta di un nuovo processo che provi finalmente la sua innocenza. Abu-Jamal ha sempre dichiarato di essere stato condannato da una giuria razzista, composta da dieci bianchi e due neri. Il processo stesso è stato una farsa. Il giudice italo-americano ha fatto apertamente dichiarazioni razziste prima dell’inizio dell’istruttoria. Non poteva emettere la sentenza. Poi non si è fatta testimoniare gente presente la sera della sparatoria. Non coincidono nemmeno i proiettili. È dal 1982 che Mumia si professa innocente e con il passare degli anni sono emerse prove che rafforzano la sua tesi. La carriera di attivista politico di Mumia Abu-Jamal, 53 anni (è nato il 24 aprile 1954), comincia quando era giovanissimo e si batteva nel 1968 contro il candidato segregazionista alle presidenziali, George Wallace. A 15 anni fonda la sezione delle «Pantere Nere» di Filadelfia. Esponente di spicco delle Pantere Nere, giornalista radiofonico senza peli sulla lingua, Wesley Cook –questo il suo vero nome– faceva il tassista di notte per arrotondare. Negli anni Settanta diventa uno dei più noti giornalisti radiofonici black. Fu accusato di aver ucciso nel dicembre del 1981 il poliziotto Daniel Faulkner, 25 anni, che stava arrestando suo fratello per una contravvenzione stradale. Cosa accadde veramente quella notte di 26 anni fa? La polizia avrebbe trovato Mumia privo di sensi, ferito da un’arma da fuoco, accanto al cadavere di Faulkner. L’arma del delitto era diversa da quella che il giornalista-tassista portava legalmente nell’auto. Inoltre, ci sono dubbi sulla presenza di una “supertestimone”, una prostituta conosciuta come Cynthia White. Diversi anni dopo, un altro uomo, Arnold Beverly, avrebbe confessato di essere l’omicida. Sostenitori di Mumia hanno reagito organizzando manifestazioni di protesta. «Non è stata una vittoria, in nessun modo», ha dichiarato Pam Africa, membro del gruppo radicale Move. «Quella di oggi è stata la parodia della giustizia», ha detto Jeff Mackler, del gruppo “Mumia Abu-Jamal libero”, che sperava in un processo tutto nuovo. In carcere dal 1982, Mumia Abu-Jamal ha scritto il best seller “Live from death row”, in cui racconta come si vive nel braccio della morte.

 

  • USA. 28 marzo. Il caso di Mumia Abu-Jamal, a suo tempo membro del Black Panther Party (BPP), richiama le lotte contro l’apartheid negli USA e la storia del programma Cointelpro, ovvero di come l’Fbi si sbarazzò dei leader neri che osarono alzare la testa e porre la questione della discriminazione razziale e sociale negli States. La tecnica repressiva delle amministrazioni statunitensi conobbe diverse fasi. In una prima fase, più pericolosa, di lotte sociali di massa anni Sessanta, si assassinano «indirettamente» i leader troppo carismatici (Lumumba, Malcolm X, Martin Luther King...). Poi, negli anni Settanta, direttamente, e senza alcun pudore, tra calunnie e delatori, squadre terroriste dell’Fbi appositamente organizzate (programma Cointelpro) annichiliscono il fulcro delle organizzazioni antisistemiche di base. Basta ricordare la quindicina di dirigenti e simpatizzanti famosi del BPP sterminati via via dalla polizia (Bobby Hutton, Fred Hampton, Mark Clark, fratelli Solidad, Move, simbionesi...) o messi in condizione di non nuocere (incarcerati o perseguitati o esiliati tutti gli altri, da Seale a Huey Newton a James Forman...). Quindi, con Reagan, una ridicola semplificazione delle procedure e della possibilità d’appello che trasformò le prigioni statunitensi in «mattatoi quotati in borsa» per ispanici e african-american. Soldi. Infine una tortura «infinita» contro i sovversivi ancora in libertà, che colpisce via via tutti, non solo il prigioniero politico Mumia Abu-Jamal, ma anche, proprio nell’agosto 1995, Rap Brown, altro leader storico del “movimento per l’emancipazione mentale degli americani”, e di qualunque sfumatura di colore siano.

 

  • USA. 28 marzo. Mumia Abu Jamal, il cui caso è divenuto un emblema per gli oppositori della pena capitale in tutto il mondo, è stato condannato nel 1982 alla sedia elettrica con l’accusa di aver ucciso il 9 dicembre 1981 un agente di polizia a Filadelfia. Il poliziotto, Daniel Faulkner, 25 anni, fu assassinato a colpi d’arma da fuoco mentre stava arrestando il fratello di Abu Jamal per una contravvenzione stradale. Nella sparatoria fu ferito anche lo stesso Mumia mentre faceva il taxista. Tre persone testimoniarono di averlo visto sparare all’agente. Già a dicembre del 2001 il giudice federale di Filadelfia aveva respinto la pena capitale ordinando la revisione della fase processuale in cui viene stabilita la pena. In alternativa gli sarebbe stato comminato l’ergastolo.

 

  • Italia / USA. 29 marzo. Appalto «rosso» per il Dal Molin. Gli USA assegnano l’appalto per la costruzione della base di Vicenza a due cooperative in joint venture: la Cmc e il Consorzio cooperative costruzioni di Ravenna. Costo totale: 245 milioni di euro. Immediata la replica del presidio permanente “no Dal Molin”: «Cari Prodi, Costa, Bersani, D’Alema, Veltroni: quella base non si farà mai, perché le vostre bugie hanno le gambe corte, perché migliaia di uomini e donne lo impediranno, in maniera pacifica ma determinata». La coop «rossa» Cmc, oltre a partecipare agli appalti per la base USA di Sigonella, è anche la cooperativa che avrebbe dovuto costruire la Tav in Val Susa, in particolare il contestatissimo tunnel di Venaus. «Inutile ricordare i legami stretti tra queste cooperative rosse e molti membri del governo Prodi e del commissario Costa», dicono dal presidio, «Il ministro Bersani era stato presidente della Cmc di Ravenna, l’inaugurazione della nuova sede della Ccc di Bologna venne fatta in pompa magna da Massimo D’Alema». Ed aggiungono: «Altro che inderogabili impegni internazionali, altro che rispetto dei patti: hanno svenduto la nostra città per garantire un lucroso affare alle cooperative rosse loro amiche. Le stesse cooperative impegnate nella costruzione della Tav in val Susa, giusto per gradire. Ecco perché il buon Walter Veltroni, nel suo recente viaggio elettorale a Vicenza ha detto: la base si farà. Non vorrete mica far perdere un sacco di soldi ai nostri amici, vero?». La lotta contro il Dal Molin entra dunque in una nuova fase. Dal presidio promettono: «A Monopoli giocherete un’altra volta, e non sulle nostre teste».

 

  • Siria. 29 marzo. Damasco auspica una soluzione del problema libanese. Nel suo discorso all’apertura del summit dei Paesi della Lega araba, il presidente siriano Bashar al Assad ha affermato che, sulla questione Libano, la Siria è pronta «a cooperare con sforzi arabi e non, a condizione che godano del consenso nazionale libanese che costituisce la base della stabilità in Libano». Al summit assenti i principali sostenitori della politica USA in Medio Oriente: re Abdullah (Arabia Saudita), Abdallah (Giordania), Mubarak (Egitto), sostituiti da alcuni delegati, e il governo di Fouad Sinora, che teoricamente rappresenta il Libano. Presente al vertice anche l’Iran con il ministro degli Esteri Mottaki.

 

  • Iraq. 29 marzo. Oltre 200 morti e feriti a centinaia al quinto giorno di combattimenti. È il bilancio degli scontri fra le forze sciite radicali e l’esercito regolare iracheno, affiancato dalle truppe statunitensi. Scontri che si intensificano, in particolare nel Sud del Paese dove l’esercito fronteggia i miliziani sciiti fedeli all’imam Moqtada al Sadr. Mentre le città di Nassiriya e Chatra sono ormai completamente nelle mani dei militanti dell’esercito del Mahdi, ieri sono entrati in azione i caccia dell’aeronautica USA che hanno bombardato postazioni a Bassora. Il primo ministro iracheno Nuri al Maliki ha prolungato all’8 aprile l’ultimatum ai rivoltosi per arrendersi con un incentivo finanziario a chi renderà le armi. Scontri si susseguono a Baghdad non soltanto nel quartiere sciita di Sadr City ma persino nella super protetta zona verde.

 

  • Russia. 29 marzo. Monito da Mosca ad un eventuale ingresso della Georgia nella NATO. Nell’imminenza del vertice NATO del 3-4 aprile a Bucarest, dove si parlerà tra l’altro della possibile adesione di Ucraina e Georgia, il ministro degli esteri russo Serguei Lavrov afferma: «se la Georgia entra nella NATO nella speranza che l’Alleanza Atlantica intervenga nei conflitti dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud, si tratta di un gioco molto pericoloso». Il primo ministro polacco Donald Tusk si è intanto recato a Kiev dove dove ha incontrato il premier ucraino, Iulia Timoshenko. Tusk ha promesso il sostegno della Polonia all’ingresso dell’Ucraina nell’Alleanza Atlantica.

 

  • USA. 29 marzo. Per gli economisti Obama è un supermoderato. Il senatore democratico dell’Illinois che concorre per la Casa Bianca è considerato un centrista e opportunista. Paul Krugman, professore a Princeton, dalla sua rubrica sul New York Times non perde occasione per criticare Obama. Non gli ha perdona di aver elogiato Ronald Reagan per aver «offerto un senso di dinamismo e imprenditorialità che era mancato» (e per avere eliminato «gli eccessi degli anni ‘60», ndr), senza aver mai detto a chiare lettere che la politica economica reaganiana è fallita: «Obama, invece di insistere sui danni prodotti dal governo del partito avversario, preferisce biasimare entrambe le parti per la nostra situazione pietosa. Nei suoi discorsi promette non un rigetto del repubblicanismo, ma un’era di unità post-partisan... Diversi progressisti sono raccapricciati dalla direzione che sembra aver preso il loro partito: volevano un altro Franklin Delano Roosevelt, e invece si ritrovano con una versione oratoria migliorata di Michael Bloomberg (il sindaco repubblicano liberal di New York, ndr)». Altrettanto critico è l’economista Doug Henwood che sul Left Business Observer scrive: «[Obama, ndr] non merita la sua fama progressista. È solo un altro democratico tradizionale con nel suo passato un sordido palazzinaro (Tony Rezko di Chicago, finanziatore di Obama e intrallazzatore, ndr). Anche se è stato reclamizzato come oppositore precoce della guerra in Iraq, nel 2004 Obama disse al Chicago Tribune: ‘Non c’è una differenza così grande tra la mia posizione e quella di George Bush...’. Ha votato a favore del rinnovo del Patriot Act (che limita le libertà civili, ndr), ha fatto campagna per il bellicista Joe Lieberman contro Ned Lamont nel 2006, e vuole espandere l’esercito USA. Il Congressional Quarterly ha analizzato i suoi voti al senato e ha trovato che erano indistinguibili da quelle di Hillary Clinton, con un’unica e sorprendente differenza: Clinton votò contro, e Obama a favore di una legge per limitare le class actions (cioè i processi per risarcimenti danni collettivi, ndr) contro le grandi corporations. Obama votò contro la base democratica, gli avvocati civili, ma piacque alle 500 maggiori società di Fortune e a Wall street». Obama, ricorda Henwood, «dal punto di politica interna è molto più a destra di Hillary», anche se si è sempre fatto vanto di essere contro il Democratic Leadership Council (Dlc), la destra democratica (i cui massimi alfieri furono Bill Clinton e Al Gore) laboratorio dei “New Democrats”. «Il principale consulente economico di Obama è Austan Goolsbee che del Dlc è il capo economista e che ha scritto parole smancerose su Milton Friedman e si è opposto all’idea di una moratoria degli espropri delle case per insolvenza dei mutui». Sui finanziamenti elargiti ai due candidati democratici da Wall Street, dice Krugman: «Non c’è il minimo dubbio che i contributi di Wall Street per assicurare la nuova maggioranza democratica al Congresso contribuirono l’anno scorso a salvare, almeno per il momento, quelle scappatoie fiscali che permettono ai manager degli hedge funds di pagare meno tasse delle loro segretarie. Ora le grandi agenzie d’investimento e di securities pompano denaro nelle casseforti sia di Obama che di Clinton. E questi finanziatori ritengono certo di assicurarsi qualcosa in cambio». Henwood fa notare come la proposta più incisiva di Obama sia di classico stampo repubblicano: «ridurre le tasse ai ceti medi, sempre con i tagli fiscali come unico stimolo possibile. Ma che c’è da aspettarsi se Wall Street sta donando a ognuno dei due candidati democratici molto di più di quanto stia dando all’ormai unico candidato repubblicano che si è già assicurato la nomination? Ma si sa, Wall Street corre sempre in soccorso del vincitore, che di solito sa come manifestare la propria gratitudine, una volta eletto».

 

  • Palestina. 30 marzo. Gli attacchi di Israele rafforzano Hamas, che tornerebbe a vincere le elezioni. È quanto emerge da un sondaggio realizzato tra il 13 ed il 15 marzo dal Centro Palestinese di Inchiesta Politica, con sede nella città cisgiordana di Ramallah. Se si tenessero le presidenziali adesso, Ismail Haniyeh di Hamas (Movimento della Resistenza Islamica) otterrebbe il 47% dei voti a fronte del 46% di Abbas (al-Fatah). Il dato capovolge l’esito di un’analoga inchiesta di dicembre da parte dello stesso Centro, quando il 56% era a favore di Abbas ed appena un 37% per Haniyeh. Il mutamento è attribuito, in parte, all’incursione armata di Israele a Gaza, conclusasi con la morte di oltre 100 palestinesi, in maggioranza civili. Lo studio indica che la popolarità di Haniyeh è cresciuta dopo la distruzione, da parte di Hamas, di un settore del muro che separa Gaza dall’Egitto, effettuato nell’ottica di spezzare il blocco israeliano.

 

  • Messico. 30 marzo. Sulla sovranità energetica del paese è lotta. Civile e armata. In questi ultimi tempi si è acuita la pressione per la privatizzazione del petrolio da parte delle multinazionali Exxon, Mobil, Repsol, Petrobras, vogliose di spartirsi –con la complicità del governo Calderón– Pemex, la petrolifera parastatale messicana. López Obrador, esponente del Partido de la Revolución Democrática (centro-sinistra) ha annunciato la costituzione di «brigate di difesa del petrolio» pronte ad azioni di resistenza civile, che circonderanno con cordoni di cittadini aeroporti, strade, installazioni strategiche di Pemex nel quadro di «uno sciopero nazionale patriottico». A difendere il patrimonio della nazione pensa anche un’altra sinistra, ma indigena e armata, nelle montagne dello stato di Guerrero. Convocato da militanti dell’Erpi, l’Ejercito Revolucionario del Pueblo Insurgente, il corrispondente del giornale La Jornada, Sergio Ocampo, ha presenziato giorni fa all’entrata di decine di giovani indigeni nelle fila dell’organizzazione guerrigliera. «Non dobbiamo aspettare il 2010 (centenario della Rivoluzione messicana, ndr) per fare la rivoluzione in Guerrero; qui in montagna la stiamo già facendo. Da qui siamo pronti a difendere il petrolio e le nostre risorse naturali», ha dichiarato il “compañero Ramón”. E l’Erpi, nato come una continuazione dell’Epr, l’Ejercito Popular Revolucionario, non è che una delle 17 organizzazioni guerrigliere –che non includono le numerose formazioni paramilitari, foraggiate dall’esercito– censite in Messico. Lo scrittore Carlos Montemayor, uno dei maggiori conoscitori della guerriglia in Messico, vede in quella indigena di Guerrero l’erede diretta della lotta armata di Lucio Cabañas e Genaro Vázquez, che da decenni su quelle montagne ispira i ribelli di tre generazioni.

 

  • Messico. 30 marzo. Non cessa di far discutere, a livello latino-americano, la morte di 4 studenti messicani che si trovavano in Ecuador nel campo delle FARC (Forze Armate Rivoluzionarie di Colombia), il 1° marzo scorso. Furono uccisi anche loro nel blitz oltre-frontiera dell’esercito colombiano. L’incursione, ordinata dal presidente Uribe mentre erano in corso trattative per la liberazione di altri ostaggi, fra cui la ex-candidata presidenziale Ingrid Betancourt, provocò 25 vittime, fra cui il n.2 delle FARC, Raul Reyes, e i 4 studenti messicani. Scoperta la mano di Washington dietro al blitz, i