Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Semi, guerre e carestie Capitolo VII

Semi, guerre e carestie Capitolo VII

di Romolo Gobbi - 22/04/2008

Autore: RomoloGobbi | Data: 21/04/2008 7.20.21
7. Schiavitù dell’agricoltura


La schiavitù fu presente nella storia greca fin dall’epoca achea, anche se era prevalente una forma di proprietà comune: “Ogni capofamiglia possiede un lotto, senza averne la piena proprietà, e la coltiva secondo il sistema dell’open field”. (1) Naturalmente le proprietà più grandi appartenevano ai re mentre ai funzionari venivano assegnati possedimenti più piccoli in cambio dei loro servigi. Gli schiavi appartenevano al re, ai funzionari o anche a privati ma svolgevano prevalentemente lavori domestici o artigianali.
Tra il 1200 e il 1100 a.C. la società degli Achei venne travolta dalle invasioni dei nomadi Dori, provenienti dalla regione danubiana: “Possiamo immaginarceli mentre procedono, alla maniera dei Valacchi nel Medioevo spingendo le greggi davanti a sé fermandosi tutt’al più una stagione per seminare e mietere”. (2) Nonostante la società dorica fosse egualitaria, alle popolazioni sottomesse venne imposta la schiavitù: “la schiavitù fu instaurata nel Peloponneso e a Creta e anche in molte delle colonie da loro fondate [...] anche gli abitanti della Tessaglia ebbero degli schiavi, cosa che non avveniva presso i nordoccidentali”.(3)
Nonostante questi precedenti storici fu durante l’epoca classica che in Grecia la schiavitù assunse un peso determinante: “Il mondo pregreco – il mondo dei sumeri, dei babilonesi, degli egizi, degli assiri, e non riesco ad aggiungere i micenei – fu, veramente, un mondo senza uomini liberi, nel senso in cui l’Occidente è giunto a interpretare questo concetto. Fu, allo stesso modo, un mondo nel quale il possesso di schiavi nel senso più appropriato della parola non giocò un ruolo di qualche rilievo. Anche questa fu una scoperta greca. Un aspetto della storia greca insomma, è il procedere, mano nella mano, di libertà e schiavitù”. (4)
Nella Grecia classica gli schiavi ebbero un ruolo così importante nella società e nell’economia sia urbana che rurale, tanto che nelle fonti greche vi fu una ”eccezionale abbondanza dei vocaboli, con i quali i greci indicavano le particolari categorie degli schiavi. Il loro numero totale raggiunge alcune decine.” (5) Ma in una società, nella quale l’agricoltura era l’attività prevalente, fu in questo settore che la schiavitù ebbe una maggior incidenza, anche se una parte della terra era gestita da piccoli proprietari su scala familiare (anche questi potevano possedere uno o due schiavi) che era destinata all’autoconsumo. Le grandi città con la loro massa di funzionari e di popolo minuto dovevano essere mantenute da una produzione agricola su vasta scala e questa era fornita dai grandi latifondi dei grandi proprietari terrieri che: “sebbene fossero una minoranza, costituivano l’élite politica (e spesso, anche intellettuale) del mondo greco; la nostra documentazione rivela eccezionalmente pochi nomi di qualche rilievo la cui base economica non fosse la terra [...] era la manodopera a lavorare la loro terra. In qualche area questa manodopera assunse la forma dell’ilotaggio e, nel periodo arcaico, della servitù per debiti, ma generalmente la forma fu la schiavitù completa”. (6) A Sparta, sempre nel V e nel IV secolo, non vi erano molti schiavi, ma la loro funzione di produttori di surplus agricolo era propria degli iloti, quasi tutti provenienti dalla Laconia e dalla Messenia, dopo la sottomissione di queste regioni. La loro condizione servile non era dissimile da quella degli schiavi, ma la loro proprietà non apparteneva ai privati bensì allo stato, che aveva il potere di assegnarli agli spartani. Quanto alla proporzione tra gli aristocratici di Sparta e gli iloti: “è stato calcolato che, all’inizio della guerra del Peloponneso, il numero degli Spartiati assommasse a circa 3.000; quello degli iloti, a 170.000-224.000 individui”. (7) Si trattava dunque di una schiacciante maggioranza che per di più era accomunata da comuni origini etniche, e quindi si può facilmente spiegare perché: “Nel 464 a.C. scoppiò una grande rivolta di iloti, e nel 462 Atene mandò un corpo di opliti agli ordini di Cimone per aiutare gli spartani a domarlo”. (8) Non si trattò di un gesto di amicizia, ma di una solidarietà di classe, tra proprietari di schiavi: in altre occasioni gli Ateniesi fomentarono rivolte di iloti a Sparta, oppure ospitarono gli iloti che erano riusciti a fuggire.
La rivolta degli iloti fu comunque un fatto eccezionale per gli schiavi di Atene che invece subivano passivamente la loro condizione. “L’Economico (1,5; 1344 a 35) riassume la vita dello schiavo come costituita da tre elementi: lavoro, punizione e cibo. Ci sono più che sufficienti bastonature e perfino torture, da un capo all’altro della letteratura greca. A parte vizi psicologici (sadismo e simili), la bastonatura significa semplicemente che lo schiavo, deve essere pungolato a compiere la funzione che gli è assegnata”. (9) Oltre che con le bastonature il “buon” padrone di schiavi poteva ottenere la loro collaborazione con vari incentivi, il principale dei quali era diventare sovrintendente agli altri schiavi. La condizione schiavile era così ben radicata che non mancava il rito di validazione della schiavitù, il tipico esempio di “mondo alla rovescia”, col quale tutto il mondo antico e anche medioevale si garantiva la continuità sociale, la festa di Kronia durante la quale: “i capifamiglia mangiavano i frutti del raccolto alla stessa tavola con i loro schiavi, con cui avevano condiviso la fatica della coltivazione”. (10) Ma la ragione principale dell’assenza di ribellione da parte degli schiavi derivava soprattutto dalla etereogenità della loro nazionalità; infatti mentre gli iloti si Sparta provenivano tutti dalla Laconia e dalla Messenia, gli schiavi di Atene erano tutti stranieri, almeno dopo l’abolizione della schiavitù per debiti dei cittadini. Gli schiavi erano soprattutto prigionieri di guerra o di pirateria e non si trattava solo dei soldati vinti, ma di intere popolazioni sconfitte: uomini, donne e bambini. Vi era quindi un vero e proprio commercio degli schiavi che si estendeva a tutte le regioni confinanti e che garantiva: “un flusso ininterrotto (traci, sciti, e cappodoci, ecc.) tramite l’incessante attività dei commercianti, molto simile al processo attraverso il quale gli schiavi africani raggiunsero il Nuovo Mondo in tempi più recenti. Molte erano le vittime delle guerre tra gli stessi barbari. Altri venivano, per così dire, pacificamente: Erodoto (5,6) racconta che i traci vendevano i propri figli perché fossero esportati”. (11)
Nelle colonie greche la popolazione indigena venne ridotta alla condizione degli iloti spartani “né liberi, né schiavi”, mentre in epoca ellenistica nelle varie regioni venne mantenuta la composizione sociale preesistente le conquiste macedoni. Infatti esistevano anche “potenti e numerose tribù, come per esempio i Moccadeni, i Licaoni e i Moxeani nella Lidia Occidentale, gli Abbaiti, gli Abrettani, i Moreni, gli Olimpeni della Misia e della Frigia e altri, che coniavano la loro moneta e fondavano le loro proprie città”. (12) Nelle altre città dell’impero macedone era fiorente il mercato degli schiavi sia per gli usi locali sia per fornire il mercato della Grecia: “Una città di tipo greco come Alessandria aveva i suoi schiavi-merce proprio come Atene; invece nella campagna egiziana i contadini conservavano il loro status tradizionale né libero né non-libero”. (13)
Roma non ereditò la schiavitù dalle colonie greche o fenicie in Italia, questa istituzione ebbe una sua genesi autoctona collegata alle necessità dell’agricoltura e della guerra. L’origine della città, verso la fine del VII secolo, avvenne in seguito alla unificazione di vari villaggi di latini insediatisi alla foce del Tevere. I suoi cittadini erano essenzialmente dei piccoli proprietari terrieri la cui produzione era il risultato degli sforzi congiunti dei membri della famiglia. Quando venne la guerra l’esercito era formato da contadini proprietari che provvedevano al proprio armamento .
In seguito alle vittoriose guerre contro i Cartaginesi questa piccola repubblica contadina entrò in crisi, sia perché Roma era diventata una potenza imperiale in tutto il Mediterraneo, sia perché le guerre puniche avevano messo in crisi la piccola proprietà contadina: “le continue leve condotte in modo implacabile per soddisfare una richiesta massiccia di soldati, oltre alla durata del servizio militare, devono aver effettivamente prodotto uno ‘sradicamento’ dei contadini italici rispetto al loro habitat naturale”. (14)
Le piccole proprietà, con la manodopera ridotta, videro peggiorare la produttività e furono costrette ad indebitarsi nei confronti dei grandi proprietari: “La necessità di coltivare comunque i campi indusse questi ultimi a cercare manodopera permanente: è in una situazione di questo genere che va individuato il primo momento dello sviluppo dell’agricoltura schiavistica”. (15) D’altra parte la guerra era la principale fonte di approvvigionamento di schiavi. Anche per altre vie andò crescendo a Roma la massa degli schiavi, infatti vi erano oltre ai: “prigionieri di guerra caduti in proprietà dello stato nemico, che li vendeva all’incanto ai privati, i bambini rapiti dai pirati e dai briganti e allevati per essere venduti, e poi tutti quelli che erano venduti o esposti dal padre; i colpiti da una pena che importasse la pedita della libertà personale, o coloro che divenivano proprietà del creditore in seguito a leggi disumane ma rigide tutrici del credito...”. (16) Inoltre cresceva la domanda di prodotti agricoli per alimentare le esigenze di Roma ormai divenuta capitale di un grande impero e solo la produzione di massa dei grandi latifondi era in grado di fornire un flusso sistematico di derrate agricole verso una città di centinaia di migliaia di abitanti: “Le grandi proprietà fondiarie d’Italia, i latifundia, specializzati nell’allevamento e nella produzione di olive e vino, restarono il modello occidentale dell’agricoltura schiavista par excellence, almeno finché il Sud americano non lo sostituì. Il numero di schiavi in queste proprietà e nelle ricche famiglie urbane raggiunse proporzioni ben superiori a quanto si poteva trovare in Grecia”. (17)
Ciò nonostante continuava a sussistere anche la piccola proprietà contadina, anche perché il premio ambito dei veterani di guerra, era appunto l’assegnazione di un fondo agricolo, quasi sempre ricavato dall’esproprio dei terreni dei nemici politici sconfitti. Ma la produzione dei piccoli fondi non era in concorrenza con quella dei latifondi, infatti i suoi prodotti erano quasi tutti destinati all’autoconsumo. Comunque la società romana fu essenzialmente una società schiavista al punto che al momento del suo massimo sviluppo si può presumere che la popolazione servile avesse: “un’entità che va da un terzo sino a quasi la metà di quella libera (da 2-3 milioni rispetto a 6-7 milioni e mezzo). Gli schiavi devono considerarsi preponderanti sulle grandi proprietà centro-meridionali ma è assai probabile che comunque il numero dei liberi sia stato sempre mag-giore di quello degli schiavi rurali, soprattutto nell’Italia settentrionale”. (18)
È chiaro che una massa così numerosa di schiavi andava strettamente controllata e questo poteva essere ottenuto con la promessa dell’emancipazione per lo schiavo solerte e ubbidiente; per gli altri le pene erano severissime: “le pene servili erano durissime: dal trasferimento della famiglia rustica, dall’obbligo del lavoro forzato nell’ergastulum o alla ruota del mulino, pene a cui si accompagnava di regola l’essere in catene, da altre punizioni più gravi, come la fustigazione, che si cercava di inasprire in vari modi, si giungeva a forme di tortura che sono fra le più raccapriccianti: l’ustione mediante lamine (lamminae) di metallo rese incandescenti e posate sulle carni; l’eculeus, uno strumento di legno che stirava il corpo e spezzava le giunture; la mutilazione; il crurifragium (la frattura violenta degli stinchi) ecc.. Agli schiavi fuggitivi, calunniatori o ladri si iscrivevano in fronte (stigma, nota) col marchio infuocato le lettere FUG., KAL., Fur. Nei casi più gravi lo schiavo era condannato a morte; e il modo stesso dell’esecuzione era doloroso e obbrobrioso. Come regola lo schiavo veniva crocefisso con le braccia aperte e legate a un palo che gli passava di sul collo (patibulum) era condotto sotto i colpi di flagello al luogo di esecuzione dove veniva issato e inchiodato a una trave confitta perpendicolarmente in terra. E lo lasciavano morire così, con lenta agonia. Altri modi di esecuzione consistevano nell’esporre lo schiavo alle belve feroci del circo, nel bruciarlo vivo, vestendolo di una tunica impeciata (tunica molesta) a cui veniva appiccicato il fuoco, o in altri supplizi non meno atroci”. (19)
Perché tanta crudeltà non stupisca si può ricordare il centinaio di feste che si celebrarono a Roma, tra il 220 e il 70 a.C., in onore del generale vincitore che avesse sconfitto un nemico straniero e ucciso almeno 5 mila uomini. Dopo il lungo corteo con i senatori, i magistrati, i carri con le spoglie di guerra, seguivano cinquemila prigionieri incatenati”: “Una volta giunti a Roma i prigionieri venivano decapitati, strangolati oppure sacrificati. Dopo essersi recati in Campidoglio per deporre il ramo d’alloro ai piedi della statua di Giove, il generale veniva festeggiato dal Senato nel tempio”. (20) In questo contesto di abbondanza di schiavi, al punto che ne venivano sacrificati a migliaia al solo scopo di “rappresentare” la forza del potere, e delle crudeltà a cui normalmente essi venivano sottoposti si possono spiegare le “guerre servili” e la rivolta di Spartaco. Bisogna anche dire che lo stesso contesto ci fa capire che le varie rivolte non furono espressione di una consapevole critica alla società schiavile, perché gli schiavi erano parte di un universo del quale non era neppur possibile immaginare un’alternativa. Quella stessa società per dimostrare, che un altro mondo non sarebbe stato possibile, ogni anno durante le feste dei Saturnali riservava un giorno per rappresentare collettivamente l’insostenibilità di un mondo alla rovescia, in quel giorno: “era lecito allo schiavo ingiuriare il suo padrone, ubriacarsi in compagnia di persone che gli erano superiori, sedere a tavola con loro [...] I padroni prendevano il posto dei servi, e li servivano a tavola”. (21)
Tutto ciò premesso si può affermare che le rivolte furono eventi casuali, determinate da particolari condizioni favorevoli, da cause scatenanti minime, e dalla presenza di capi eccezionali. In effetti le rivolte furono precedute da casi di ribellione individuale, quali l’uccisione del padrone e, più frequentemente, di fughe individuali o collettive di schiavi. Così come vi furono episodi di ribellioni di intere città, come quella della colonia laziale di Setia che nel 198 a.C. venne repressa con l’uccisione dei 500 schiavi che vi avevano preso parte. Un’altra rivolta avvenne in Etruria due anni dopo e Roma dovette inviare un’intera legione per sedarla. Nel 185 poi “si ribellarono gli schiavi-pastori in Apulia. L’agitazione fu sedata dal pretore Postumio, il quale condannò a morte 7.000 persone, ma non poté giustiziarle tutte, per la semplice ragione che ‘molti fuggirono’ ”. (22) Questi episodi furono eventi isolati, non collegati da una consapevolezza né dalla conoscenza dei fatti precedenti, erano semplicemente l’esplosione di una condizione insopportabile e senza alternative.
Un evento di più vaste proporzioni e di più lunga durata al punto di essere ricordata come una vera e propria guerra di schiavi contro Roma, la prima “guerra servile”, scoppiò in Sicilia nel 138 o nel 136 a.C. e durò fino al 132: “La Sicilia (insieme all’Africa) era considerata un tempo il granaio d’Italia: essa era la migliore produttrice di frumento, di cui la popolazione delle città italiane, e soprattutto di Roma, faceva grande richiesta. Inoltre l’isola, già nell’età antica, veniva considerata il paese classico dello schiavismo”. (23) La fonte principale delle notizie riguardanti la prima guerra servile sono state tramandate dallo storico romano Diodoro il quale, pur non potendo condividere la posizione degli schiavi, cercò di comprendere le cause della rivolta: “Gli Italici che si occupavano della coltivazione della terra si servivano di un gran numero di schiavi, e li segnavano tutti con un marchio. Non davano loro cibo sufficiente e li logoravano con la pesantezza del lavoro [...] i Siciliani – che avevano aumentato di molto il loro livello i vita acquistando grandi ricchezze – si misero a raccogliere una grande quantità di schiavi, e segnavano i loro corpi con marchi e stigmate, quando li portavano via a torme dai mercati. [...] Allo stesso modo, i latifondisti riunivano per i lavori della terra interi mercati di schiavi [...] alcuni li tenevano in ceppi, altri li sfinivano per la pesantezza dei lavori, e a tutti segnavano il corpo con umilianti marchi”. (24) Date queste condizioni era più che probabile che la rivolta prendesse corpo, ma per questo occorreva un capo che la guidasse: “C’era uno schiavo, appartenente ad Antigene di Enna, un Siro nato ad Apamena, che praticava la magia e dava presagi. Diceva di poter predire il futuro, secondo ordini che gli dei gli impartivano in sogno [...] Prima che la rivolta scoppiasse costui andava in giro a dire che gli era apparsa Atargatis, la dea siriana, che gli aveva annunciato che sarebbe stato re”. (25) Queste notizie dello schiavo ribelle che vengono fornite dallo storico romano tendevano a ridicolizzarlo, ma inconsapevolmente ci forniscono gli elementi mitico-religiosi che ispirarono la rivolta. D’altra parte tutta la società romana era satura di elementi mitico-religiosi, la stessa vita pubblica e anche le decisioni militari erano prese dopo aver consultato oracoli e invocato la benedizione degli dei. Quanto al modello di società alternativa a cui ispirarsi, questa non poteva che essere quella esistente: “i ribelli si erano già dati una capitale, Enna, e avevano fatto re uno di loro, che ha battuto moneta: difficile credere che in questo regno di antichi schiavi la schiavitù sarebbe stata vietata: e perché mai?”. (26) Ma prima di diventare re, Euno, questo era il nome dello schiavo siriano che capeggiò la rivolta, venne scelto da alcuni schiavi che si erano ribellati al loro padrone che li: “trattava con insolenza; bollava con marchi di ferro i corpi di uomini che in patria erano stati liberi, e che ora sperimentavano la schiavitù perché la sorte li aveva fatti cadere prigionieri in guerra. Alcuni di questi li incatenava ai ceppi e li gettava negli ergastoli, altri,
fattili suoi pastori, non li riforniva né di vestiti né di cibo sufficiente”. (27)
Capeggiati da Euno gli schiavi ribelli, che erano tutti ex soldati, marciarono su Enna e la conquistarono, massacrando i loro padroni e i loro familiari. A quel punto, anche gli schiavi di Enna si erano uniti ai rivoltosi, Euno venne proclamato re di “Nuova Siria” e assunse il nome di Antioco. Nel frattempo un’altra insurrezione si era verificata tra gli schiavi di Agrigento e anche questi aderirono al nuovo “regno”: a questo punto i rivoltosi aumentarono a circa 300.000. Fu quindi facile per gli insorti sconfiggere le truppe romane di stanza in Sicilia. Ma quando da Roma arrivarono gli eserciti consolari comandati dal console Rupilio, questo, dopo aver conquistato Taormina, sconfisse gli insorti e li mise in fuga: “Euno prese con sé le sue guardie del corpo, che erano circa un migliaio, e fuggì vilmente verso regioni impervie. Molti uomini che erano con lui, pensando che il suo destino fosse ormai segnato, poiché già Rupilio marciava contro di loro, si uccisero l’un l’altro tagliandosi la gola con la spada”. (28) Euno invece fu catturato e: “Fu messo in carcere, e il suo corpo fu divorato da una massa di parassiti, sicché finì la vita in modo consono alla sua malvagità, a Morgantina”. (29)
Ma nonostante la fine ingloriosa del suo capo la rivolta degli schiavi siciliani fu ricordata per anni sia dalle autorità romane sia dagli schiavi di tutte le parti dell’impero romano. La memoria della prima “guerra servile” si mantenne soprattutto in Sicilia dove circa trent’anni dopo, dal 104 al 101, divampò una seconda “guerra servile”. La scintilla partì da Siracusa da dove fuggirono numerosi schiavi che si rifugiarono nel santuario di Palici. Altri schiavi si ribellarono in varie parti della Sicilia e si unirono ai primi insorti, ma tutti insieme vennero sconfitti dai soldati romani. “Alcuni dei ribelli furono uccisi con le armi in pugno; altri, temendo la punizione che li aspettava dopo la cattura, si suicidarono gettandosi dalle rupi”. (30)
Ma nel frattempo un’altra insurrezione si verificò vicino ad Eraclea e le truppe romane inviate per reprimerla furono sconfitte e altri schiavi ribelli si unirono ai primi: “E poiché molti se ne ribellarono effettivamente ogni giorno, ne ricevettero un incremento rapido e stupefacente, tanto che in pochi giorni furono più di seimila. Fu allora che, raccoltisi in assemblea e dibattuta la questione, scelsero come re un tale di nome Salvio, che aveva fama di essere esperto di divinazioni, e che suonava col flauto la musica invasata dei riti delle donne”. (31) Dopo che gli insorti si organizzarono militarmente costituendo un vero e proprio esercito di circa 70.000 fanti e più di 2.000 cavalieri. Con queste forze i ribelli affrontarono i diecimila soldati romani che erano subito accorsi e li sconfissero. La notizia della vittoria raggiunse le città di Segesta e Lilibeo e altre città vicine e “la febbre della rivolta dilagava tra le masse degli schiavi. Qui assunse il loro comando un certo Atenione, uomo di eccezionale coraggio, un Cilicio di nascita. Costui, che era l’amministratore di due ricchissimi fratelli, e aveva grande esperienza nell’astrologia [...] Sosteneva che gli dei gli avevano rivelato, attraverso gli astri, che sarebbe stato re di tutta la Sicilia”. (32) I ribelli comandati da Salvio, che nel frattempo si era proclamato re col nome di Trifone, si unirono agli schiavi che avevano seguito Atenione, e anche se fra i due capi vi furono discordie, si scontrarono in campo aperto, presso Scirtes, con diciassettemila soldati mandati da Roma e comandati da Lucio Licinio Lucullo. Dopo alterne vicende: “I Romani guadagnarono una splendida vittoria, mentre gli uomini di Trifone – e Trifone stesso – si volsero in fuga; e poiché molti furono massacrati mentre fuggivano, ne morirono non meno di ventimila”. (33) Atenione invece si asserragliò a Triocala e resistette all’assedio dei romani che alla fine si ritirarono. Una nuova spedizione di soldati inviati da Roma l’anno successivo sconfisse definitivamente gli schiavi ribelli e Atenione restò ucciso in un duello dal console Gaio Aquilio. Gli schiavi sopravvissuti alla fine si arresero e vennero condannati a combattere con le bestie feroci del circo a Roma: “Qui, come si racconta, essi posero fine alla loro vita in un modo gloriosissimo: si rifiutarono infatti di combattere contro le belve, ma si sgozzarono l’un l’altro sui pubblici altari. Satiro uccise l’ultimo di loro poi, dopo che tutti gli altri furono morti, si uccise di sua mano, eroicamente”.(34)
La rivolta di Spartaco, che durò alcuni anni tra il 75 e il 71 a.C., ebbe un’origine e una natura abbastanza diverse. Intanto non fu uno schiavo agricolo a ribellarsi per primo, infatti Spartaco era un ex gladiatore divenuto istruttore in una scuola di gladiatori a Capua. Non fu dunque la sua condizione personale a spingerlo a organizzare la ribellione di un gruppo di una settantina di schiavi, essi infatti: “non pensavano a combattere per costruire una società meno ingiusta, dalla quale fosse eliminato lo scandalo della schiavitù, ma lanciarsi, per sfuggire alla loro miseria, in un’avventura paragonabile, più o meno, a quella dei Mammalucchi o dei filibustieri...”. (35) Infatti la prima mossa fu la fuga verso il Vesuvio: “presero in una cucina dei coltelli e degli spiedi, e scapparono. Per strada si imbatterono in carri che trasportavano armi di gladiatori verso un’altra città, le presero e se ne armarono; e occupata una posizione forte, si scelsero tre capi, dei quali il primo era Spartaco, un Trace della razza di Maides, che non solo era forte e coraggioso, ma anche superiore, per intelligenza e affabilità, alla sua condizione, e più greco di quanto non dicesse la sua origine. Si racconta che quando fu portato a Roma per la prima volta per esservi venduto, gli apparve in sogno un serpente che gli si avvolgeva al viso, e la sua donna, che era della stessa stirpe di Spartaco, profetessa e soggetta a invasamenti dionisiaci, vaticinò che quel sogno indicava un grosso e spaventoso potere che sarebbe andato a finire male; la donna in quel momento era ancora con lui e con lui fuggì...”. (36) Sfuggiti all’accerchiamento sul Vesuvio gli schiavi ribelli si scontrarono più volte con le truppe romane, sconfiggendole: “Dopo questi fatti un numero ancor maggiore accorse da Spartaco, che ebbe così un esercito di settantunmila uomini. Egli fabbricava anche le armi e preparava ogni altro equipaggiamento”.(37) L’armata di Spartaco andava via via ingrossandosi ma cominciarono anche le discordie e le separazioni: una parte degli schiavi ribelli si scatenarono e devastarono ville e città della Campania. Spartaco invece si diresse verso Nord probabilmente pensando di fuggire in Gallia, molti dei suoi uomini erano Galli, e di qui fare ritorno in Tracia. Nella sua marcia verso nord Spartaco si scontrò e sconfisse presso Mutina le truppe di Crasso, che in quel tempo era governatore della Gallia. A questo punto Spartaco cambiò idea e, non si sa per quale ragione, invertì la sua rotta marciando verso Roma con un esercito che contava ormai 120.000 uomini. Ma giunto nelle vicinanze di Roma proseguì il suo viaggio verso la Sicilia dove forse pensava di ristabilire i regni delle guerre servili. Ma non riuscì a varcare lo stretto di Sicilia; dopo alcuni tentativi infruttuosi, si diresse quindi in Puglia, dove il suo esercito venne sconfitto in battaglia, nella quale egli stesso trovò la morte: “Un buon numero di guerrieri di Spartaco, fuggiti dalla battaglia, andarono sulle montagne: Crasso li inseguì. Essi, divisi in quattro schiere, resistettero finché tutti furono distrutti, eccetto seimila che, catturati, furono crocifissi lungo l’intera strada che da Capua va a Roma”. )(38)

1) P. LEVEGNE, La civiltà greca, Einaudi, 1970, p. 63.

2) Ivi, p. 85.

3) Ivi, p. 91.

4) M.I. FINLEY, Economia e società nel mondo antico, Laterza, 1984, p. 150.

5) Ja. A. LENCMAN, in AA VV., Schiavitù e produzione nella Roma repubblicana, l’Erma di Bretschneider, Roma, 1986, pp. 25.6.

6) M.I. FINLEY, op.cit., p. 131.

7) A.PARADISO, Gli iloti e l’OIKOS, in AA.VV., Schiavi e dipendenti nell’ambito dell’”OIKOS” e della “FAMILIA”, Edizioni ETS, Pisa, 1997, p. 76.
8) M.I. FINLEY, op.cit., p. 140.

9) Ivi, p. 144.

10) Ivi, p. 131.

11) Ivi, p. 135.

12) E.S.GOLUBTSOVA, Le forme di dipendenza nella popolazione rurale in Asia Minore nei secoli III-I a.C., in AA.VV., Schiavitù e produzione, op.cit., p. 68.

13) M.I. FINLEY, op. cit., p. 163.

14) A.MARCONE, Storia dell’agricoltura romana, NIS, Roma, 1997, p. 124.

15) Ivi, p. 134.

16) U.E.PAOLI, Vita romana, Mondadori, 1982, p. 107.

17) M.I. FINLEY, op.cit., p. 164.

18) A.MARCONE, op.ci.t, p. 126.

19) U.E.FONTI, op.cit., pp. 112-3.

20) D.I.KERTZER, Riti e simboli del potere, Laterza, 1989, p. 45.

21) Ivi, p. 79.

22) S.L. UTCENKO, in AA.VV., Schiavitù e produzione..., op.cit., p. 148.

23) Ibidem.

24) DIODORO SICULO, Biblioteca storica, a cura di G. Bejor, Rusconi, Milano, 1988, 34/35, 2,2-2,27-29.

25) Ivi, 34/35, 2,4-9.

26) P. VEYNE, L’impero romano, in AA.VV., La vita privata dell’impero romano nell’anno Mille, op .cit., p. 43.

27) DIODORO SICULO, op.cit., 34/35, 2, 34-36.

28) Ivi, 34/35, 2, 21-24.

29) Ibidem.

30) Ivi, 36, 3, 1-6.

31) Ivi, 35, 4, 1-8.

32) Ivi, 36, 5, 1-36, 6, 1.

33) Ivi, 36, 9, 2.

34) Ivi. 36, 10, 1-3.

35) P. VEYNE, op.cit., p. 43.

36) PLUTARCO, Le vite di Nicia e di Crasso, Fondazione Lorenzo Valla, Mondadori, 1976, Crasso, 8, 1-4.

37) APPIANO, Guerre civili, La Nuova Italia, 1967, 1, 116, 540-542.

38) Ivi, 1, 120, 559.