Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / La Casta stampata

La Casta stampata

di Stenio Solinas - 24/04/2008

Ad elezioni appena

concluse, ci

si è accorti che

la stampa – la

grande stampa,

soprattutto –

non aveva capito

niente di quello che si andava preparando.

Di qui le accuse più o meno indignate, più o

meno accorate, più o meno interessate: “È

una casta” ha detto qualcuno, “è una mafia”

ha detto qualcun altro. Nessuno si è ricordato

che già anni fa Silvio Berlusconi aveva

reso noto che lui a quello che scrivevano i

giornali non dava alcun peso, il che fa il paio

con la disarmante osservazione di Massimo

D’Alema pronunciata invece proprio a ridosso

dell’ultima campagna elettorale: “Se per

vincere bastasse il voto di quelli che leggono

i giornali, saremmo già al governo”. Se è

consentito un inciso, diremo che è curioso

come un esponente di punta di quello che fu

una volta un grande partito popolare, sia

arrivato ad avere della democrazia una concezione

elitaria, laddove uno degli uomini

più ricchi del pianeta ha capito perfettamente

che nella società di massa contano poco i

ragionamenti e i distinguo e molto invece le

capacità di intercettare umori, desideri, speranze.

Ma torniamo al punto da dove siamo partiti,

ovvero le colpe, vere o

presunte, della carta

stampata. A sua difesa si

dovrà comunque osservare

che se i giornalisti

non si sono accorti di

che cosa la politica stesse

preparando per l’Italia,

a maggior ragione la

questione è sfuggita ai

politici di professione...

Diciamo la verità: sia

Berlusconi sia Veltroni

miravano, attraverso la

rispettiva creazione di un

partito unico, a una semplificazione

del quadro

generale, ma i risultati

sono andati ben al di là

delle aspettative. È scomparsa

dall’orizzonte parlamentare l’intera

sinistra radicale, non c’è stato spazio per la

destra dura e pura e il modesto successo di

sopravvivenza del Centro di Casini dovrà

fare i conti con l’ambiguità di alleanze elettorali

locali che lo radicano al nuovo governo

a fronte di una posizione nazionale che

dovrebbe vederlo all’opposizione. C’è chi ha

osservato che, senza volerlo, ci ritroviamo

con una Seconda, o Terza, repubblica già fatta,

e c’è del vero in questa affermazione. Il

tempo ci dirà quanto di positivo e/o di negativo

essa porta con sé.

Messi, dunque, ciascuno di fronte alle proprie

mancanze, proviamo egualmente a chiederci

perché il giornalismo sia stato così

carente dal punto di vista della valutazione.

L’accusa di “mafia”, ovvero di una casta

autoreferenziale, più che ingenerosa è fuorviante.

È vero che i grandi quotidiani nazionali,

Stampa, Repubblica, Corriere della

sera, hanno sempre strizzato l’occhio più al

centro-sinistra che al centro-destra, ma questo

è un fenomeno ormai quarantennale che

non si cancella con un tratto di penna o un

cambio di direzione. Fa parte di un imprinting,

di una ben precisa selezione generazionale,

corrisponde per alcuni versi a un mercato

editoriale, a una realtà societaria e proprietaria.

Delle tre testate, la più sfacciata in

questo senso è Repubblica, ma francamente

chiedere a un giornale di opinione, anzi a un

vero e proprio giornale-partito,

di cambiare quell’opinione, cioè quel

partito, suona un po’ irrealistico. Quanto agli

altri due, in cui opinione e informazione convivono

in un equilibrio meno precario, è probabile

che nei mesi a seguire correggeranno

il tiro, mantenendo comunque la diffidenza.

Per avere, nelle precedenti elezioni, schierato

troppo nettamente il Corriere a favore di Prodi,

Paolo Mieli perse qualcosa come ventimila

copie, e queste sono lezioni che lasciano il

segno.

Forse l’aspetto più vistoso dell’incapacità di

capire il Paese non sta tanto nel difendere le

proprie opinioni e nel cercare di renderle vincenti,

quanto nel non essersi accorti che

quelle opinioni non corrispondono più al

Paese stesso. I giornali hanno insistito nel

presentare un’Italia dove il bipartitismo era

tutt’al più un maquillage elettorale sotto cui

però continuava a celarsi la passione per il

proporzionale, l’identificazione con partiti

che rimandano a ideologie e radicamenti

sociali. E invece l’Italia ha votato mandando

in soffitta le une e gli altri e si è dimostrata

più avanti, o comunque diversa, da quello

che la stampa intanto andava scrivendo. Per

pigrizia, per stanchezza, per ottusità, o semplicemente

per non voler accettare la realtà,

noi giornalisti abbiamo continuato a fare un

giornalismo politico che prescindeva da

come l’idea di politica era intanto andata

mutando nel Paese. Abbiamo dedicato paginate

a Fausto Bertinotti, che parla bene, che

è uno colto ed educato, con un passato ricco

di storia e di memoria, ma non ci siamo resi

conto che non era più in grado di raccontare

il futuro agli italiani. Allo stesso modo,

abbiamo salutato con interesse una diaspora

a destra, seguendo con attenzione il battesimo

di nuovi leaders femminili alla sua testa,

e non abbiamo voluto e/o saputo intuire che

quel tipo di battaglia identitaria era talmente

minoritario, nella nuova logica dei grandi

numeri, da non avere possibilità di rappresentanza.

È successo un po’ come in passato

accadeva con le mode editoriali: generazioni

di intellettuali passano il loro tempo ad

appassionarsi ai romanzi dell’Ottocento francese,

e nessuno si accorge che intanto è arrivata

l’ora dei grandi scrittori russi, e non si fa

in tempo a prenderne atto che è già schierata

la nuova narrativa americana...

Una prova dell’inadeguatezza della stampa,

la dà anche la produzione editoriale sulla

stessa. Sulla mia scrivania ho due libri scritti

da colleghi, bravi colleghi con cui ho lavorato,

che bene o male conosco da trent’anni.

Uno si intitola Casta stampata (Mursia editore)

e l’ha scritto Luigi Bacialli, già direttore

del Gazzettino, lo storico quotidiano di

Venezia, l’altro Sempre meglio che lavorare

(Piemme) ed è opera di Michele Brambilla,

oggi vicedirettore del Giornale. Sono

entrambi ben scritti, divertenti, anche corrosivi,

di gradevole lettura, ma nessuno dei due

si interroga veramente non tanto sul mestiere,

quanto sui limiti reali dello stesso, sull’insufficienza

della categoria a raccontare bene

il Paese in cui vive. Dei due è Bacialli quello

che prova di più a farlo, ma, come accade

anche a Brambilla, più sul versante umorale

e in fondo aneddotico di chi conoscendo i

propri colleghi, se può li evita... Quello che

resta fuori, voglio dire, è una stampa che è in

realtà poco in grado di incidere anche per il

suo scarso peso reale: si legge poco, le proprietà

non sono quasi mai limpide, i costi

sono eccessivi, la deontologia professionale

un optional...

Non è che sul versante televisivo si stia

meglio, ma lì se non altro l’informazione,

colonizzata dalla politica nei telegiornali (il

luogo preferito dai politici di professione,

perché possono dire quello che gli pare senza

che nessuno gli chieda ragione delle stupidaggini

che escono dalle loro bocche), si è

ritagliata degli spazi di approfondimento che,

grazie all’audience che sta loro dietro, permettono

ancora dei margini di manovra. La

carta stampata, invece, procede addirittura a

una cannibalizzazione di sé stessa, come la

realtà della cosiddetta free press dimostra,

un’idea del giornalismo sempre più svincolata

dall’essere un fattore anche di crescita e di

educazione nazionale e sempre più legata a

un concetto di prodotto che, appunto, produca

utili.

A tutto ciò si aggiungono altri elementi. Alla

semplificazione del quadro politico dovrebbe

corrispondere un semplificazione del modo

di raccontarlo. È evidente che c’è una sorta

di stanchezza “elettorale” degli italiani, nel

senso che quest’ultimi non hanno più né

tempo né voglia di interessarsi alle mille diatribe

e ai mille distinguo propri della nostra

politica. Il successo di un libro come La

casta, sta anche in questo. E però i giornali e

i giornalisti, per una sorta di istinto condizionato,

di coazione a ripetere, insistono proprio

su quegli elementi, continuano a sfornare

pagine come se si fosse a trenta, quarant’anni

fa, salvo poi lamentarsi perché si perdono

copie.

Forse si dovrebbe tornare a raccontare di più

il Paese che non la sua politica, storie, reportage,

inchieste. Gomorra, di Roberto Saviano,

è sotto questo aspetto un classico che

andrebbe portato ad esempio... Forse si

dovrebbe privilegiare un aspetto più narrativo,

vista la carenza, come dire, interpretativa,

forse bisognerebbe cominciare ad ammettere

che fascismo, comunismo, destra, sinistra,

sono parole da abolire, non significano più

niente, non spiegano più niente. Forse la

Seconda Repubblica, o Terza – se tale si confermerà

– ci porterà veramente fuori da quel

XX secolo in cui, come un gregge di carta

stampata, continuiamo a pascolare.