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L'usura della terra

di Umberto Galimberti - 27/04/2008

 
Scrive Heidegger: "La tecnica obbliga la terra ad andare oltre il cerchio della possibilità che questa ha naturalmente sviluppato, verso ciò che non è più il suo possibile, e quindi è l'impossibile"

Leggevo, in un articolo sul problema delle risorse e i cambiamenti climatici, del "pericolo incombente su tutta l'umanità". Fino a poco tempo fa avrebbe potuto essere soltanto un'espressione ironica, o uno stralcio di un libro di fantascienza. Da quando è diventata non solo credibile abbastanza da spaventare, ma talmente credibile che, forse dopo un barlume di spavento che attraversa le nostre sinapsi, da neurone a neurone per tutto il cervello, ci rilasciamo piombare nella rassegnazione passiva. Credo che il tempo dello spavento sia più che passato, per i sensibili e coraggiosi che l'hanno provato. Il pericolo ambientale rischia di essere, forse è già, archiviato nel cassetto dei mali imprescindibili del mondo, dove la povertà dell'Africa si è stretta un pochino per fargli posto.

Pensavo a quanto è triste che, nell'arco di così poco, nell'arco della mia vita, breve, il mio pianeta abbia smesso di avere un futuro. Quando ero piccola non avrei mai immaginato che avrei visto la Terra cambiare sotto i miei occhi. Ora sì lo penso, tutta la mia generazione è pronta. È pronta a veder scomparire foreste, e sciogliersi ghiacci, è pronta a veder morire animali e soffocare per il caldo, è pronta a non avere più un futuro sicuro. E se non accadrà durante la mia vita, accadrà durante quella dei miei figli. La prima reazione che mi sorge spontanea è pregare un ritorno di massa alla natura, via il progresso, via le auto, via le industrie. Irrazionale, semplicistica. Mi fanno notare che se non ci fosse stato lo sviluppo industriale e il progresso tecnico sarei ad allevare mucche e coltivare ortaggi, non saprei leggere e non potrei sperare di campare un'altra ventina d'anni, se non fossi già morta di parto. E invece sono cresciuta sana, intelligente e con la possibilità di studiare. Ma la possibilità di conoscere ci è data per assistere meglio alla fine di ciò che amiamo, o alla fine di noi stessi? Mi sembra una sorta di dono di Cassandra.

veronika250@hotmail.com



Le radici che hanno portato l'uomo dall'uso della terra alla sua usura sono molto antiche. In questa mia risposta le darò solo alcuni elementi perché lei possa decidere con chi prendersela. Il rapporto uomo-natura è stato regolato per noi occidentali da due visioni del mondo: quella greca e quella giudaico-cristiana che, per quanto differenti tra loro, convenivano nell'escludere che la natura rientrasse nella sfera di pertinenza dell'etica, il cui ambito era limitato alla regolazione dei rapporti fra gli uomini, senza alcuna estensione agli enti di natura. I Greci concepivano la natura come quell'ordine immutabile che nessuna azione umana poteva violare perché, come dice un frammento di Eraclito: "Questo cosmo, che è di fronte a noi e che è lo stesso per tutti, non lo fece nessuno degli dei né degli uomini, ma fu sempre, ed è, e sarà fuoco sempre vivente, che divampa secondo misure e si spegne secondo misure". Avendo in sé la sua norma vincolata dal sigillo della necessità (anánke), la natura era quell'orizzonte inoltrepassabile, quel limite insuperabile a cui l'azione umana doveva piegarsi come alla suprema legge. Lo stesso Prometeo, l'inventore delle tecniche, non esita a riconoscere che: "La tecnica è di gran lunga più debole della necessità" (Eschilo).

La tradizione giudaico-cristiana concepisce la natura come creatura di Dio, quindi come effetto di una volontà, della volontà di Dio che l'ha creata e dell'uomo a cui è stata consegnata. Leggiamo infatti nel Genesi: "Poi Iddio disse: facciamo l'uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza: domini sopra i pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sugli animali domestici, su tutte le fiere della terra e sopra tutti i rettili che strisciano sopra la sua superficie". In questo modo la natura non è più espressione di un ordine immutabile, ma semplice materia da dominare al servizio dell'uomo. Su questo tracciato incontriamo la scienza moderna che, come vuole il programma di Bacone: "Scientia est potentia", conosce per dominare, e nel dominio della natura scorge l'impronta di Dio e le condizioni del riscatto umano. Scrive infatti Bacone: "In seguito al peccato originale, l'uomo decadde dal suo stato di innocenza, e dal suo dominio sulle cose create. Ma entrambe le cose si possono recuperare, almeno in parte, in questa vita. La prima mediante la religione e la fede, la seconda mediante le tecniche e le scienze". Al di là delle dispute, che tanto appassionano, tra fede e scienza, diciamo che la scienza gronda di metafore teologiche. A partire da queste premesse cristiane, l'uomo occidentale non conosce più il suo limite né in ordine alla propria esistenza che crede si prolunghi oltre la morte né in ordine all'uso della terra oggi spinto fino alla sua usura. Se guardiamo la monotonia di distese di cereali solcate da mietitrici solitarie e irrorate da antiparassitari erogati in volo, abbiamo un esempio elementare ma indicativo di come la tecnica abbia creato un paesaggio così poco naturale, che persino una grande fabbrica offre un volto più umano. Se poi dal mondo vegetale passiamo a quello animale, l'estrema degradazione di esseri viventi trasformati in macchine da uova o da carne, sottratti al loro ambiente, sottoposti a illuminazione artificiale, alimentati automaticamente, deprivati sensorialmente, è la prova più evidente di come la tecnica abbia denaturalizzato la natura che, anche per effetto di un incremento demografico esponenziale, forse ha già superato il suo limite biologico. Ma chi ci ha insegnato a oltrepassare il nostro limite e a considerare l'uomo padrone della terra? Da queste premesse tragga lei la conclusione.

Umberto Galimberti