Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / La dottrina del «Duplice Accesso» e la teoria dei «Quattro Atti» fra i Sutra e lo Zen

La dottrina del «Duplice Accesso» e la teoria dei «Quattro Atti» fra i Sutra e lo Zen

di Francesco Lamendola - 27/04/2008

 

 

 

Come è noto, secondo la tradizione sarebbe stato Bodidharma a portare, per primo, la dottrina del Buddha al di là delle grandi montagne (l'Himalaya), verso oriente, fino in Cina; ragion per cui egli è anche considerato, in un certo senso, l'iniziatore di quella particolare forma di buddhismo che è stata poi denominata Ch'an in cinese e Zen in giapponese. Ciò sarebbe avvenuto nell'anno 526  dopo Cristo.

Caratteristiche fondamentali dello Zen, rispetto al buddhismo "originario", sono una speciale trasmissione del sapere al di fuori delle scritture; un notevole grado d'indipendenza dalle parole e dalla lettera, in favore di una comunicazione gestuale, silenziosa e di tipo simbolico; il riferimento diretto all'anima dell'uomo; la necessità di giungere a una autentica visione della propria natura per il conseguimento dello stato di Buddha ("Illuminato").

Ci ripromettiamo di trattare in altra sede gli aspetti propriamente storici della penetrazione del buddhismo in Cina; penetrazione della quale lo Zen è stato solo una delle forme che la dottrina del Buddha, squisitamente indiana nella sua psicologia, nella sua etica e nella sua generale prospettiva metafisica, ha assunto attraverso la ricezione da parte delle culture dell'Asia orientale, profondamente diverse da quella dell'India sia sotto il profilo speculativo, sia dal punto di vista pratico e materiale.

In questa sede., invece, desideriamo soffermarci sui fondamenti teorici della originaria dottrina Zen e, in particolare, evidenziare la sua derivazione dal Vajrasamadhi sūtra  sia per quanto riguarda la dottrina del «Duplice Accesso», sia per la teoria dei «Quattro Atti». L'una e l'altra, poi, traggono origine, evidentemente, dalla dottrina dell'aprathistita -cittam, ossia del «non attaccamento», che gli studiosi occidentali sono soliti presentare in maniera eccessiva  - come, del resto, tanti altri aspetti del buddhismo, primo fra tutti la nozione di Nirvana - dal punto di vista negativo, ossia come dottrina di ciò che non si deve fare.

Certo, nella fondamentale dottrina del  «non attaccamento» esiste una pars destruens, in quanto essa insegna la dura necessità di recidere, l'uno dopo l'altro, i nodi (illusori) che tengono l'uomo legato a ciò che è impermanente; e tali nodi derivano sia dall'intelletto (false credenze) sia dalle passioni (e qui lo studioso occidentale può istituire alcune analogie, più o meno pertinenti, tanto con la filosofia di Schopenhauer, che con quella di Spinoza e, su su indietro nel tempo, fino a Plotino, Ammonio Sacca e lo stesso Platone).

Esiste, però, anche una pars costruens: come dottrina positiva, infatti, essa proclama la forza della libertà e la gioia della liberazione e, pertanto, può e deve essere vista soprattutto come qualche cosa di attivo e di vitale. Se volessimo azzardare un parallelismo con la filosofia del cristianesimo, dovremmo immaginarla come l'equivalente della dottrina del libero arbitrio, senza la quale non avrebbe alcun senso considerare l'anima umana come meritevole di premi o di castighi, di Inferno o Paradiso.  E veramente, nel buddhismo - compreso lo Zen, che pure è considerato, dalle altre scuole buddhiste, una dottrina eretica - l'inferno e il paradiso, se vogliamo usare questa terminologia propria delle religioni monoteiste -  sono il risultato della raggiunta capacità, o meno, di recidere i nodi dell'attaccamento alla realtà illusoria del mondo  e di realizzare così, peraltro senza interventi soprannaturali, la liberazione definitiva di se stessi.     

La dottrina del Duplice Accesso e la teoria dei Quattro Atti è esposta con chiarezza nella fondamentale opera del professor Daisetz Teitaro Suzuki, considerato come il massimo studioso del buddhismo del XX secolo e uno dei più autorevoli conoscitori dello Zen, Saggi sul Buddhismo Zen (titolo originale: Essays in Zen Buddhism (First Series), London, Utchinson Group; traduzione italiana di Julius Evola, Roma, Edizioni Mediterranee, 3 voll., I, pp. 169-172), dalla quale riportiamo il brano seguente.

Si tratta di uno scritto, Meditazione sui quattro atti, che viene attributo a T'an lin (Donrin), il quale, secondo lo studioso giapponese dr. Tokiwa, dell'Università di Tokyo, era un erudito - più che un filosofo e un vero maestro Zen - che prese parte alla traduzione di numerose opere buddhiste dal sanscrito, per farle conoscere ai suoi connazionali.

In esso viene anche esposta la funzione del concetto di pi-kuan, che equivale a "pacificazione dello spirito" e che Bodidharma sostituisce col termine cheh-kuan: composta da cheh, che significa "svegliarsi" o "essere illuminato" e kuan che indica il "percepire" o il "contemplare"; mentre pi equivale a "muro" o "precipizio". Ad ogni modo, il concetto è chiaro: l'illuminazione equivale a un risveglio e, al tempo stesso, al superamento del muro delle illusioni (il velo di Maya), raggiungendo così la perfetta pace interiore.

 

«Quattro sono i modi di voler entrare nella via, ma, a voler riassumere, essi si ridicono a due. L'uno è  'l'entrare per mezzo della ragione', l'altro è 'l'entrare per mezzo della condotta'. Per 'entrare per mezzo della ragione' intendiamo la penetrazione dello spirito del buddhismo con l'aiuto dell'insegnamento contenuto nelle scritture.  Allora si giunge a confidare profondamente nella Vera Natura, una e identica in tutti gli esseri senzienti. La ragione per cui essa non si manifesta sta nell'involucro creato dagli oggetti  esterni e dal falsi pensieri. Chi, abbandonando il  falsi ed abbracciando il vero, in semplicità di pensiero  si tiene in  pi-kuan, riconoscerà che non esiste né l'Io, né l'altro dall'Io, che della massa e degli esseri di valore unica è l'essenza, e si terrà saldo in questa certezza, non si allontanerà mai da essa. Costui non avrà più bisogno della guida costituita dalle istruzioni dei testi, perché si troverà in una silenziosa comunione con lo stesso principio; sereno e non agente, smetterà ogni discriminazione concettuale. Questo è chiamato l'entrare per mezzo della ragione.

Per entrata per mezzo della condotta si intendono i Quattro Atti nei quali ogni altro atto è compreso. Quali sono? 1)  Giusta risposta all'odio; 2) Obbedire al karma; Non correre dietro a nulla; 4) Essere in accordo con la verità (o Legge = dharma).

1)      Che s'intende per 'giusta risposta all'odio'?  Coloro che si esercitano nella via quando hanno da combattere contro condizioni avverse debbono pensare così: Durante innumerevoli epoche ho vagato attraverso esistenze molteplici, dedicandomi,, in tutto questo tempo, ad aspetti senza importanza della vita a scapito di quelli essenziali, creando infinite occasioni di odio, di malanimo e di azione ingiusta. Anche se in questa vita non ho violato [la Legge], pure ora debbo raccogliere i frutti del passato, Né uomini né dei possono predirmi ciò che mi accadrà. Io accetterò di buon animo e con pazienza tutti i mali che mi colpiranno, senza mai rattristarmi o protestare. In questo Sūtra è detto di non tormentarvi per i mali che possono accadervi. Perché? Perché, con l'intelligenza, si può abbracciare [tutta la catena delle cause]. Quando sorge questo pensiero, e si è in armonia col principio e si farà dell'odio il migliore uso, lo si trasformerà in qualcosa che ci fa andare avanti sulla Via. Questo è chiamato 'il modo di rispondere all'odio'.

2)      Per 'obbedire al karma' s'intende questo: Non vi è un Io (ātmā) in tutto ciò che è prodotto dal giuoco delle condizioni karmiche; anche le gioie e i dolori che proviamo intervengono come effetti del nostro precedente agire. Se vengo ricompensato con la fortuna, con gli onori, ecc. ciò è effetto di miei atti passati che, attraverso la legge causale, influiscono sulla mia vita presente. Quando la forza del karma sarà esaurita, l'effetto di cui oggi godo svanirà; a che vale dunque rallegrarsene? Sia guadagno oppure perdita, accettiamo quel che il karma ci porta; lo spirito in s stesso non conosce né aumento né diminuzione. Il vento della gioia non lo commuove perché èin una silenziosa armonia con la Via. Questo è chiamato l'obbedire al karma.

3)      Per 'non correre dietro a nulla' s'intende questo: Presi in una eterna confusione, gli uomini del mondo sempre si attaccano all'una o all'altra cosa, il che viene chiamato 'inseguire'. Ma il saggio intende la verità e non rassomiglia all'uomo volgare. La sua mente risiede serenamente nell'increato, mentre il suo corpo  va qua e là secondo la legge causale. Tutte le cose sono vuote, nulla è degno di essere perseguito. Dovunque vi è ora il merito della luce, seguirà il demerito dell'oscurità. Il triplice mondo nel quale si soggiorna troppo a lungo rassomiglia ad una casa in fiamme; tutto ciò che ha un corpo soffre, e chi potrà mai conoscere riposo? Il saggio, per avere ben chiara nella mente questa verità, non si attacca mai a nulla che diviene; il suo pensare è calmo, egli non cerca mai nulla. Il Sūtra dice: dovunque vi è ricerca, vi è anche sofferenza; cessato il cercare, una benedizione scenderà su voi. Così noi sappiamo che non correre dietro a nulla è la via verso la verità. Perciò io vi insegno  di 'non correre dietro a nulla'.

4)      Per 'essere in armonia col Dharma' s'intende [realizzare] che la mente nella sua essenza - che noi chiamiamo Dharma - è pura; che essa è identica al principio del vuoto in tutto quanto è manifestato stando quindi al di sopra di ogni mania  e di ogni attaccamento; che per essa non esiste  né l'Io né l'altro dall'Io. Il Sūtra dice: Nel Dharma non vi sono esseri senzienti perché esso è libero dalle macchie dell'esistenza; nel Dharma non vi è Io perché esso è libero dalle macchie dell'individualità. Se il saggio intende questa verità e si tiene ad essa, la sua condotta sarà 'in armonia col Dharma'.

     Il Dharma nella sua essenza non avendo desideri di possesso, il saggio è sempre pronto a     praticare la carità col suo corpo, con la sua vita, coi suoi veni; non nutre mai invidia, non sa che cosa voglia dire essere sgraziato. Intendendo perfettamente la triplice natura del vuoto, egli è al di sopra di ogni parzialità e di ogni attaccamento. È solo per la sua volontà di lavare tutti gli esseri dalle loro macchie che egli viene fra di loro come uno di loro, pur non essendo attaccato alla forma. Questo è l'aspetto interno della sua vita. Il saggio sa come recar bene agli altri e così pure come glorificare la via dell'illuminazione.   E ciò che vale per la virtù della carità vale anche per le altre cinque virtù [della Prajnāpāramitā]. Per liberarsi dai pensieri confusi il saggio pratica le sei virtù di perfezione, però senza un proposito cosciente. Questo è chiamato 'essere in armonia col Dharma'.

 

     Come si vede, esistono notevoli analogie fra la dottrina Zen del Duplice Accesso e il nucleo della concezione taoista del Wu Wei o «non agire», o meglio ancora, dell'«agire non agendo»; così come fra il concetto buddhista di entrare nella Via, particolarmente mediante la condotta,  e quello taoista di mettersi in  armonia col Tao.

Ad ogni modo, il lettore occidentale deve stare attento a non cadere in un equivoco di fondo a causa di una ingannevole somiglianza della terminologia zen con quella relativa al proprio ambito culturale. Nella dottrina zen, non si può parlare di una vera contrapposizione tra "ragione" e "condotta" e, pertanto, di una contrapposizione tra le due vie, ma piuttosto di due differenti accezioni o sfumature di un medesimo concetto, quello del perseguimento della Via che conduce verso l'illuminazione.

La stessa parola Zen è la traduzione giapponese del termine sanscrito Dhyāna, ossia "meditazione", il che pone l'accento sull'aspetto contemplativo che, nella cultura occidentale, fatica a trovare un proprio status fra intellettualismo e attivismo: l'uno proprio del pensiero, l'altro dell'azione. Nella nostra cultura, la categoria che più si avvicina alla categoria della "meditazione" è quella dell'estasi mistica; categoria guardata con una punta (o più che una semplice punta) di sospetto sia dalle filosofie razionaliste, sia da quelle della praxis.

Per comprendere fino a che punto il buddismo rifugga da un dualismo fra pensiero e azione, si ponga mente al fatto che l'opera principale del monaco giapponese Shinran, scritta nel 1224, si intitola Kyōgyōshinshō, che significa, al medesimo tempo,"dottrina", "pratica", "fede" e "risultato":  una polisemia, da noi, semplicemente impensabile e che sarebbe, comunque, causa di infinite confusioni e discussioni.

La cosa più importante da sottolineare, tornando alla dottrina del Duplice Accesso esposta nel testo che abbiamo sopra riportato, è che essa è stata chiaramente ripresa dal Vajrasamadhi sūtra, mentre la teoria dei Quattro Atti è una amplificazione della seconda forma di Accesso di cui tratta il Sūtra. In sintesi, si può dire che l'entrare per mezzo della ragione significa credere fermamente che tutti gli esseri, nella loro autentica essenza, sono identici alla vera natura, la quale è non-duale nella sua propria essenza, non essendo né una, né molteplice. Entrare per mezzo della condotta significa non essere, nello spirito, instabili e bisognosi di appoggi e non lasciarsi confondere dal gioco mutevole delle ombre dell'esistenza materiale.

Di particolare interesse di particolare valore etico e psicologico, a nostro parere, è il Primo Atto, incentrato sul tema della "giusta risposta all'odio"; ciò che un Maestro buddhista contemporaneo ha espresso con la formula "spegnere il fuoco della propria rabbia". Si tratta di una risposta assai originale, dal punto di vista occidentale, al problema dei problemi nella sfera dell'etica: ossia come spiegare il male - e l'odio - che si riversano sul giusto o, comunque, sull'innocente. La catena del karma, frutto non solo delle nostre azioni presenti, ma anche di quelle delle nostre vite precedenti, spiega i mali che possono colpire gli esseri umani, indipendentemente dalla loro condotta attuale. In una visione profondamente olistica dell'universo, quale è quella dello Zen, tutte le azioni - passate, presenti e future - sono intimamente collegate; né possiamo comprendere il bene o il male presenti,  limitando la nostra prospettiva al solo presente.

L'invito rivolto al saggio, dunque, è quello di non angustiarsi e di non tormentarsi al pensiero dei mali che lo possono colpire, e, soprattutto, di non rispondere alla rabbia con la rabbia, all'odio con l'odio, alla violenza con la violenza, per non appesantire ulteriormente le catene del karma e per non allontanare, con le sue stesse mani, il momento della liberazione, che coinciderà con il momento della suprema illuminazione.

In fondo, il nemico ultimo è sempre lo stesso: Avidya (in sanscrito), ossia "ignoranza": ignoranza  della reale natura dell'Essere.

Come scrive Giuseppe Ungaretti nella poesia I fiumi (che fa parte della raccolta L'allegria, scritta nell'inferno delle trincee della prima guerra mondiale):

 

       …Il mio supplizio

       è quando

       non mi credo

       in armonia…