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Alberto Bevilacqua l'eretico

di Roberto Alfatti Appetiti - 27/04/2008

 

 
Le “liale”. Così la critica ideologizzata definiva sprezzantemente, pochi decenni fa, autori del calibro di Carlo Cassola, Piero Chiara e Alberto Bevilacqua. Per via – asserivano – dell’uso di una lingua poco “sperimentale”, meramente comunicativa, troppo ammiccante con la pancia dei lettori. Narratori borghesi. E poi – per completare l’equazione – commerciali. Sostenuti dall’industria editoriale di massa. Manco fosse un’associazione a delinquere, il patto non scritto tra editori e lettori. E ancora oggi Bevilacqua – ché qui ci occupiamo di lui – viene trattato con sufficienza da certi ambienti “impegnati”. Malgrado al consenso del pubblico si sia aggiunto, da lungo tempo, quello altrettanto entusiasta della critica. Nonostante i premi ricevuti, tanti e prestigiosi. Perché vende libri, troppi, tanto da essere uno degli scrittori italiani più conosciuti al mondo. Perché scruta le ombre, convinto com’è della permanenza contigua alla nostra delle persone che non ci sono più, in questo vicino alla “visionaria” Anna Maria Ortese. Perché accarezza il mito e sorvola – come il padre, aviatore nella squadriglia di Italo Balbo – il cielo stellato del fantastico. Perché non ha abbracciato il materialismo – come molti suoi colleghi hanno fatto, per convinzione o opportunismo – per rimanere nella dolente dimensione del sogno. Perché da vero alchimista della fantasia, non ha mai nascosto il proprio interesse per il mistero, l’esoterismo e la magia.
Ne sa qualcosa Giuseppe Genna, giovane ma non giovanilista scrittore e deus ex machina di Carmilla, sito online di letteratura e immaginario. Quando scrive di Bevilacqua gli si illuminano gli occhi, pardon, il monitor: «Bevilacqua ha il turbo, gli altri hanno un motorino, che sia più scrittore di tutti, oggi in Italia, può essere straniante per certuni abbagliati dai lucori dei numeri e dalla sovraesposizione televisiva». Intendiamoci, con tutto il rispetto possibile per Genna – astro nascente della nostra narrativa – prima di lui, all’intellettuale parmigiano, non sono mancati autorevoli estimatori. Totò, Karen Blixen, Gabriel Garcia Màrquez, Chaplin. Borges e Ionesco. E ancora: Pasolini e Sciascia.
Fu proprio lo scrittore siciliano il primo a scoprirne il talento, tanto da rivolgere al giovanissimo poeta sincere righe di incoraggiamento. Fu Mario Colombi Guidotti – curatore nei primi anni ’50 de Il Raccoglitore, supplemento letterario de La Gazzetta di Parma, di cui Bevilacqua (classe ’34) era redattore – a inviare a Sciascia, all’insaputa del giovane collega, il dattiloscritto de La polvere sull’erba, il primo romanzo di Bevilacqua.
Perché ne parliamo adesso? Perché l’opera, dopo una prima apparizione nei tascabili Einaudi (2000) è tornata da pochissimi giorni in libreria in edizione rilegata (Einaudi, pp. 176, € 18,50) ed è subito scoppiato il caso: l’autore fu il primo, nel lontanissimo ’55, a denunciare ciò che accadde nel Triangolo della Morte dopo la fine della seconda guerra mondiale. «Triangolo che – spiega Bevilacqua – fu rosso non per un’idea o una fede, ma per il sangue che fu versato da quelli che per continuare a vivere avevano bisogno della morte altrui… quelli perseguitati dall’idea del nemico e decisi a vendicarsi uccidendo concretamente questa idea nei corpi che la incarnano… vederla crollare a terra, questa idea, in un corpo con la bocca spalancata e gli occhi sbarrati».
Sfogliando il libro ecco narrati con dovizia di (agghiaccianti) particolari i tragici mesi che prolungarono una guerra civile che non poteva definirsi tale (perché politicamente scorretto). «Un velo di silenzi ostinati e colpevoli omertà – si legge nel romanzo – che sarebbe durato per oltre quarant’anni, fino alla svolta del 1990, l’anno del “Chi sa, parli”, a causa di Otello Montanari: l’uomo che con il suo j’accuse, avrebbe giocato un ruolo decisivo perché si riaprisse una pagina di storia che in tanti volevano sepolta».
Ma mezzo secolo prima, evidentemente, era troppo presto. Sciascia lesse il dattiloscritto e ne rimase «scosso e turbato», sorpreso che un giovane meno che ventenne potesse essere l’autore di un’opera di tale intensità, sostenuta da uno stile già maturo quanto raffinato: «Romanzo concepito, su drammi e ironie assimilati in prima persona dalla leggerezza del sangue, per una di quelle magnetiche forme di illuminazioni, folgorazioni, favori di una maturità precoce, che si producono nella vita giovane di uno scrittore». Avrebbe voluto pubblicarlo, ma un feroce clima censorio glielo impedì. «Il libro porta alla luce scorci di un periodo terribile – scrisse Sciascia – molte premonizioni sugli anni che credo ci attendano, in un’Italia intollerante e meschina che, cessata la guerra, finge di ritenere che ogni dramma e conflitto sia finito, e ignora con soddisfazione certe scandalose colpe attentamente occultate da chi ne ha tutto l’interesse… Con l’illusione che sia iniziata l’età dell’oro che, per prosperare, non ha più bisogno di ombre sulla coscienza».
«Non appena la Gazzetta di Parma diede notizia del mio libro che stava per essere pubblicato – racconta Bevilacqua nella postfazione del libro – iniziarono pressanti minacce a mia madre e a mio padre (tanto più ingiustamente ricattabile in quanto esposto alle violenze psicologiche dell’Epurazione) affinché mi dissuadessero dal rendere note le mie pagine. Io stesso fui convocato per ascoltare esplicite intimidazioni censorie». Dovette rinunciare e chiedere al padre di custodire l’unica copia di quel romanzo in una cassetta personale, dov’è rimasta sino al ’97, anno della morte dell’amato genitore.
«Mi addolora che la censura impedisca al tuo libro di essere pubblicato – gli aveva scritto Pier Paolo Pasolini, – per quegli stessi atti insensati che temo avranno vita facile ancora per molti anni. Hai raccontato il “Triangolo della morte”, pensa un po’, due anni di guerra civile sui quali è calata la pietra tombale del silenzio come se fossero accaduti nella Città Proibita: non è l’enigma delle cose, ma le cose che ci rendono enigmi».
Solo nel 2000, dopo aver personalmente ribattuto a macchina il testo – «senza apportare rimaneggiamenti di alcun tipo, solo lievi aggiustature» – Bevilacqua diede alle stampe il libro.
Cosa sarebbe stato della mia “carriera” se nel ’55 avessi pubblicato quel romanzo? La domanda Bevilacqua se l’è posta spesso. Basti pensare quanta intolleranza abbia attirato su di sé Giampaolo Pansa – intellettuale di sinistra, sino a quel momento apprezzatissimo da quel mondo – per aver scritto Il Sangue dei vinti (e le opere successive). Quante proteste abbia provocato la decisione di Michele Placido – anche lui uomo di sinistra – di interpretare il ruolo del protagonista nella fiction (presto in tv) tratta proprio dal romanzo di Pansa. Siamo ancora oggi in quell’Italia «intollerante e meschina» che – sempre più puerilmente – brandisce la festività del 25 aprile per colpire e delegittimare gli avversari politici?
Forse sì. Ma più probabilmente di quell’Italia “resiste” solo una piccola minoranza, amplificata da certo giornalismo militante e da una casta di scrittori, registi e attori che ancora spera di mungere fino all’ultima goccia il latte (scaduto) dell’ideologia, quasi che essere contro qualcosa bastasse per essere qualcuno.
Bevilacqua non appartiene a quella schiera di conformisti. A segnarlo, in qualche misura, è stato anche “l’incontro” con il più irregolare degli scrittori del Novecento, Louis Ferdinand Céline, spietatamente perseguitato sin nella vecchiaia. Fu Willy, uno dei capi della Resistenza a Parigi, a portare Bevilacqua ancora adolescente da Céline, «proprio per dimostrarmi come ancora una volta la vita fosse ingrata. Mi disse. “Ti faccio vedere uno scrittore straordinario che Sartre e il suo ambiente avversa a morte, combatte. E questa è una grande ingiustizia”. Me lo fece vedere da lontano, seduto davanti alla casa. Il filo spinato dei cancelli. Se avvertiva il pericolo, scendeva verso il cancello seguito dai cani urlanti. “Contro di lui tutto è permesso, la muta non demorde”. Quest’immagine, magnetica, mi fece – Céline era un lanciatore di medianità – una grandissima impressione. Lessi il Viaggio al termine della notte sotto l’effetto di questa suggestione, a quindici anni. E dopo quella lettura, si scrissero in me, senza che cercassi la poesia essendone trovato, i primi versi della mia vita, che poi ho riportato in ogni mio libro, come una sigla: io cerco un ventre / orgoglioso e umiliato / per morirci teneramente / come ci sono nato». Quell’incontro l’ha raccontato nel Viaggio al principio del giorno (Einaudi 2001), che già dal titolo rievoca il céliniano Voyage, «il libro della sua vita – come è scritto nella quarta di copertina – definitivo». E invece la verve non si è esaurita e quella vitalità «che mi ha portato a esprimermi in vari modi, mentre i letterati italiani in genere sono statici» – ha continuato ad animare un’opera già sterminata: dagli indimenticabili affreschi della provincia italiana degli anni Sessanta alle straordinarie figure femminili che – da grande «indagatore della femminilità» – ci ha regalato, dalla storia del bersagliere Angelo Ravagli, diventato amico di D. H. Lawrence e ispiratore di L’amante di Lady Chatterley, alla Pasqua rossa, rivolta allegorico-grottesca dei detenuti di San Vittore del 21 aprile ’46, dai tanti altri romanzi che ha dato alla luce negli ultimi anni alla poesia, mai trascurata.
Un’attività, quest’ultima, intensa e continua, iniziata nel ’61 pubblicando L’amicizia perduta sino alla recentissima raccolta Duetto per voce sola. Versi dell’immedesimazione (Einaudi, pp. 264, € 15,50). Scrittore, poeta ma anche sceneggiatore. Partendo dalla gavetta. Dall’ambito orrorifico – Seddok, l’erede di Satana di Anton Giulio Majano (’60) – alla collaborazione con autori come Goffredo Parise e Giuseppe Berto, fino «a essere usato dai grandi registi come Rossellini, Visconti, De Sica e Zampa».
E facendosi regista cinematografico lui stesso, spesso trasponendo propri romanzi perché «si può dare immagine a ciò di cui abbiamo avuto bisogno nel momento in cui è stato scritto». Da La Califfa – il romanzo che nel ’64 gli diede il successo internazionale e nel ’70 portò sul grande schermo (con Romy Schneider e Ugo Tognazzi) ottenendo il Nastro d’Argento come miglior regista esordiente – a Questa specie d’amore, il romanzo che forse meglio di altri rappresenta il conflitto, sempre presente, tra la nostalgia per luoghi e atmosfere del passato e l’immersione nell’attualità. Sfida con la modernità che raccoglie con la curiosità di un ragazzino, rigettando le critiche moraliste di chi vede un pericolo in internet e nei rapporti “virtuali”.
«Non sono contro le nuove tecnologie – ha dichiarato recentemente – sono un anarchico del mondo delle nuove tecnologie. Credo, anzi, che ci sia un legame tra le possibilità che offrono e la telepatia, la comunicazione a distanza, in cui ho sempre creduto. La comunicazione al di fuori della norma logica è sempre esistita, ma ora le nuove tecnologie lo consentono. Tutte le discussioni intorno alla virtualità o che riguardano internet sono peregrine. Questi nuovi linguaggi in realtà si avvicinano moltissimo alla scrittura della poesia, intesa come “messaggi segreti che manda il cosmo”. Ecco, nel mondo enorme di internet che io esploro, vedo dei versi, delle confessioni, delle ricerche di contatto che sono espresse da versi e mi illudo che ci sia un grosso rilancio della poesia. L’importante è dire ai giovani che la poesia non è soltanto versi ma è anche lo scrivere cose, mettere sulle pagine la parola, la poesia è la vostra forma di espressione moderna. Questa è la possibilità di internet che non c’è altrove, perché abbiamo un’editoria che è simulazione, e mistificazione». Altro che Liala, grazie Alberto, alla faccia di tanti giovani narratori nati vecchi.