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Lo Sri Lanka torna al (suo) riso

di Marina Zenobio - 27/04/2008


 

Per difendersi dall’aumento del costo del grano (401 dollari la tonnellata, quasi il doppio dell’anno scorso) la popolazione dello Sri Lanka comincia a cambiare abitudini alimentari, passando dal pane al riso. Cifre ancora ufficiose dimostrano che il consumo di pane e di prodotti derivati dal grano è caduto nel giro di pochi mesi del 40 % circa. A guardar bene però non è un vero cambiamento, piuttosto un tornare alle origini visto che, in questo paese insulare dell’Asia meridionale, in passato l’alimento base era proprio il riso, tra l’altro prodotto localmente. Infatti, nonostante le sue fertili terre, in Sri Lanka il consumo di grano (importato) è stato imposto fin dagli anni ‘70, dapprima con l’approvvigionamento gratuito sotto forma di «aiuti» dai paesi industrializzati, e poi con forniture a credito. Lo ha ammesso pochi giorni fa anche il presidente srilankese Mahinda Rajapakse, che si è detto soddisfatto per il ritorno sulle tavole del paese del riso e di legumi di produzione locale.
Lo Sri Lanka aveva un’economia forte nella seconda metà del XX secolo, soprattutto nel settore agricolo (riso, te, caucciù, prodotti derivati dalla noce di cocco) e alla fine degli anni ‘60 le piantagioni costituivano il 93% delle esportazioni. Poi ha preso piede l’industria tessile e dell’abbigliamento, che è arrivata a rappresentare circa il 60% delle esportazioni (ma solo il 17% del prodotto interno lordo). Per quanto riguarda gli alimenti, il paese è diventato sempre più dipendente dalle importazioni, accumulando dagli anni ‘70 in poi un debito enorme per l’acquisto di farina di grano. Nimal Sanderatne, economista srilankese esperto in agricoltura, ha spiegato all’agenzia InterPress Service (Ips) come per molti anni la tendenza sia stata quella di sostituire il grano al riso, benché quest’ultimo fosse prodotto in loco, perché il grano era considerato più economico, ma le conseguenze in termini di autosufficienza alimentare sono state devastanti. E si arriva ai giorni nostri, all’11 aprile per la precisione, quando la Fao ha incluso lo Sri Lanka in una lista di paesi in «emergenza alimentare» (insieme ad altri paesi asiatici grandi e piccoli, come l’Armenia, il Bangladesh, le Filippine e il Tagikistan) a causa dell’aumento globale dei prezzi delle derrate alimentari di base. Già da settembre però il governo srilankese aveva lanciato una campagna nazionale, da sviluppare entro il 2010, per incentivare la produzione interna di alimenti. «Coltiviamo e costruiamo una nazione» è lo slogan: l’obiettivo è di cambiare le abitudini alimentari e ridurre le importazioni, il cui costo ha superato i 1000 milioni di dollari l’anno e che stanno prosciugando le riserve di denaro risultanti dalle esportazioni di tè, abbigliamento e dalle rimesse dei lavoratori emigrati all’estero. All’inizio di aprile il ministero dell’agricoltura che sta studiando piani di incentivi per i coltivatori, ha organizzato la prima esposizione agricola del paese allo scopo di incoraggiare la produzione alimentare interna. La Govijana Udanaya, questo il titolo dell’esposizione, ha offerto agli agricoltori l’opportunità di acquistare a costi contenuti diverse varietà di sementi (oltre al riso anche patate, cipolle, miglio che crescono facilmente sull’isola) e strumenti di lavoro, e ottenere informazioni sui diversi servizi e agevolazioni messe loro a disposizione dallo stato. Il ministero dell’agricoltura ha studiato un piano che amplierà di 50 mila ettari l’area coltivabile e prevede per i contadini incentivi economici (circa 6 mila rupie ogni ettaro, più o meno 40 euro) per l’acquisto di sementi e per preparare il terreno. Il progetto interessa numerosi distretti nel nord-ovest e nel sud del paese che, seppure arabili, risultano ancora incolti. Certo non aiuta il fatto che Sri Lanka viva in uno stato di conflitto interno tra il movimento separatista armato della minoranza tamil e l’esercito governativo, aggravando la miseria in cui vive una buona parte della popolazione rurale del paese.