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Il modernismo e l'architettura. Una distruzione programmata

di Roberto Ugo Nucci - 28/04/2008

 

 
Il modernismo e l'architettura. Una distruzione programmata



Il modernismo, nelle sue varie declinazioni formali, viene oggi pubblicizzato con inconsapevole caparbietà da libri e riviste di architettura più attente alla raffinatezza della carta ed alla astrattezza della grafica di contorno che al contenuto, assente nella sua essenza e per di più inaridito in un linguaggio gergale e supponente. E’ anche questo lo specchio di una realtà in profondo disfacimento in cui la cosiddetta cultura contemporanea manifesta tutta la sua inconsistenza, priva com’è di solide basi di riferimento con il passato. Nel Rinascimento la formazione degli architetti avveniva con un attento studio critico dei capolavori del passato e nel diciottesimo secolo l’Accademia di Francia dettava le regole del buon costruire con una formale investitura culturale. Oggi lo studio dell’ “antichità”, come usava chiamarla Norman Shaw, è del tutto superficiale, quando non addirittura dannoso per l’incapacità di trarne valide indicazioni culturali. Come afferma Reginald Blomfield, docente e storico dell’architettura degli anni ’30, “sembra che la grande architettura non fosse mai esistita prima del ‘900, il modello di un municipio era un edificio lungo, basso, con una torre alta e magra ad una estremità e quello di una casa una scatola con dei buchi”.
La mancanza di retroterra culturale, già allora denunciata da Blomfield, determina i guasti che oggi lamentiamo, quelli di un’architettura banalizzata dalla tecnologia, conseguenza di uno strappo forse insanabile con il passato e di una cieca schiavitù alla macchina.
Già Nietzsche in una sua conferenza sull’avvenire delle nostre scuole stigmatizzava lo stato di disagio culturale: “chi vi condurrà alla patria della cultura, se le vostre guide sono cieche e si spacciano per gente che vede; chi di voi perverrà al vero sentimento della sacra gravità dell’arte, se venite viziati sistematicamente a balbettare soli laddove vi si dovrebbe guidare, a meditare e a filosofare soli sull’opera d’arte, laddove vi si dovrebbe costringere ad ascoltare grandi pensatori e tutto ciò con il risultato che rimarrete eternamente lontani dall’opera d’arte e resterete servitori dell’oggi”. Il modernismo, come tutti gli ismi della nostra infausta epoca, affonda le sue radici nell’intellettualismo dei nostri contemporanei che vogliono sembrare intelligenti senza alcuna predisposizione a capire, ma semplicemente desiderosi di seguire ogni tendenza con la loro falsa idea di progresso.
L’intellettualismo ha travolto il significato delle parole, ha creato un linguaggio di maniera, ha introdotto nuovi modi di rapportarsi con la realtà del commercio e del prevalente interesse economico, ha prodotto mestieranti della cultura affettati e sine nobilitate come si conviene alla migliore tradizione dello snobismo. I critici d’arte, che prima non esistevano, hanno inventato un linguaggio confuso ed ermetico hanno “visto” in certe opere quello che non vi era da vedere, esaltando cose straordinarie laddove non esisteva che il nulla. Il critico, come il mercante d’arte, si sono resi complici di operazioni di mercato abilmente orchestrate a danno di un pubblico ora incolto e impreparato, quindi facilmente suggestionabile. Una volta l’arte era per conoscitori e materia di riflessione di poeti e scrittori come Sainte-Beuve, Baudelaire e Apollinaire, che in scritti isolati dedicavano la loro attenzione con lo spirito e la sensibilità della loro cultura.
Nella pittura come nell’architettura il modernismo e l’intellettualismo percorrono strade parallele. In Cezanne, che per un certo periodo della sua vita fu un mediocre pittore ottocentesco, la svolta interpretativa si determinò con la cubificazione delle forme in un modo spoglio, sfaccettato e geometrico. C’è chi aveva capito che la novità e la vera bruttezza avrebbero potuto sostituire con buon successo la falsa bellezza di quei tempi e l’intellettuale così avrebbe avuto buon gioco a manifestare il suo intellettualismo con rinnovata abilità incantatrice.
Non diversamente, appunto, si manifestò il modernismo nell’architettura del secolo XX con le opere di ispirazione ingegneresca che la storiografia ufficiale celebrò come l’avvento i una nuova era. Vengono esaltati i nuovi materiali e le nuove tecnologie come espressione di nuove conquiste formali sino a fare della Tour Eiffel il simbolo-monumento della nuova epoca. Ma l’invasione del modernismo nell’architettura, come afferma Blomfield, “è una questione più seria delle sue incursioni nella pittura, scultura, musica e letteratura…essa presenta il suo fronte sfacciato nelle nostre strade e nella nostra campagna ed è troppo grande e troppo costosa perché la si possa distruggere completamente”. Con l’imporsi dell’internazionalismo in architettura contro ogni forma di autonoma ricerca progettuale legata al contesto del luogo, si afferma il concetto di standardizzazione, parallela al processo di industrializzazione dei materiali, con effetti invasivi nel territorio di anonimi contenitori più simili a scatole d’imballaggio che a opere degne di una minima qualità formale. Come contrappunto al grigiore ed alla melanconica monotonia di anonimi parallelepipedi residenziali si realizzano strutture di insolente e volgare fattura in omaggio al potere consumistico e commerciale. Le nuove “cattedrali” del consumo si contendono dimensioni sempre più grandi, da super a ipermercati sino a cittadelle del divertimento e dello svago, diventandolo il polo di attrazione di masse di individui destinate al più delirante spreco del tempo della storia.
Il modernismo come una piovra assale il territorio e lo stravolge, mentre i centri storici restano nel museo della storia, consegnati al turismo cosiddetto culturale come simulacri di un passato inerte e impossibilitato a dialogare con il mondo contemporaneo.
Il fondamentalismo ideologico della nuova architettura impone le sue regole, mutuate dalla montante globalizzazione dei mercati e dal prevalere di un urbanistica delle lobbies di potere sempre più aggressive. Alla machine à habiter di Le Corbusier, struttura multicellulare che riduce l’uomo a mero individuo con funzioni prestabilite, si contrappone il pensiero di F.L.Wright che nella “Citta vivente” afferma: “l’architettura à organica solo in quanto intrinseca…di riflesso cerca di servire l’uomo piuttosto che diventare una forza che cerca di dominarlo”.
Il trasformismo dell’epoca moderna procede con insolente determinazione alla ricerca di vie d’uscita da una standardizzazione ormai esausta e si inventa il post- modern, sorta di miscellanea stilistica che cerca di riossigenare un movimento ormai in declino. Ma anche questo tentativo appare segnato da un rapido esaurimento. Come sostiene Cesare De Seta “dopo cinquant’anni i post- modern hanno messo in vetrina un repertorio stilistico che rimanda all’ottocento…in tempo di revival tutto è concesso, ma non si può gabellare questo fenomeno come una risposta alla crisi del movimento moderno…è un guardare a ritroso un po’ goffo che ha dato luogo ad espressioni modeste“.
L’architettura s’inviluppa sempre di più in una specie di spirale tecnologica, proponendo soluzioni che esibiscono materiali e sistemi cosiddetti innovativi, che da meri strumenti a disposizione del progettista diventano essi stessi protagonisti incontrastati. Il predominio della tecnica, come risorsa per aumentare le prestazioni della casa-macchina, indirizza la progettazione verso una tecno-architettura che deve esprimersi in discutibili soluzioni formali indifferenti al contesto preesistente, anzi sovente esso stesso alterato e sconvolto da un’urbanistica totalitaria più interessata ai flussi di traffico che alla vivibilità del territorio. City Life ne è un esempio calzante, con le sue torri sghembe e contorte che sembrano concepite in un delirio onirico di folli immaginazioni. Espressione di un potere assetato di conquiste sul territorio per meglio rappresentarsi, le torri del City Life sembrano stimolare solo la fantasia di giornalisti poco avveduti in polemiche sterili e senza costrutto come quelle riportate in questi giorni sulla stampa. Nessun cenno alla cordata di banche e assicurazioni che hanno acquisito i lavori di Expo 20015 a Milano, ma ampio spazio a disquisizioni insignificanti sul bello e sul brutto da parte di “autorevoli” esponenti dell’establishment politico e culturale.
Un teatrino abilmente orchestrato per ricomporre equilibri e interessi di potere.
La torre più alta del City Life, con la sua altezza tre volte superiore al grattacielo Pirelli viene rappresentata come la torre di Babele dei tempi moderni: Un semplice dato statistico che fa ricordare la considerazione amara di Giorgio Locchi sui turisti americani in visita alla Tour Eiffel. Diceva Locchi che il loro esclusivo interesse era quello di sapere quanto fosse alta e quanto pesasse. Se questa è la democrazia, c’è da rabbrividire.